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Autore: EliCF    08/12/2013    2 recensioni
"Ho imparato a riconoscere e tradurre in emozione ogni tutta occhiata, ogni tuo movimento. Immaginavo una folla che guardava adorante il tuo lavoro incompiuto sul cavalletto, distratta solo dai quadri già completati.
Stavo per addormentarmi (se ci fossi riuscito sono certo che avrei sognato te) quando mi ricordai di non aver preso la mia dose di azt. Saltai giù dal divano e rovistai nel cassetto in cui tenevo gli spartiti, alla ricerca del mio barattolino arancione.
Tengo lì le mie pillole perché so che non metteresti mai le mani tra i miei spartiti. Ho fatto leva su un tuo punto debole, Kurt… e mi dispiace. Ma davvero non potevo permettermi che le trovassi. Mi hai parlato spesso del tuo Glee Club e di quanto ami la musica e di quanto sia rimasto deluso quando non sei stato ammesso a quella scuola. Sono sicuro che il ripiego sulla pittura sia stato, appunto, solo un ripiego. Per questo non avresti mai sopportato la vista di un altro spartito, un’altra nota, il simbolo di un altro diesis o un accordo.
La tua malattia era il posto perfetto per nascondere la mia."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Nuovo personaggio, Rachel Berry, Sebastian Smythe | Coppie: Blaine/Kurt
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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A Imma, per il suo onomastico.
E perché quando le ho detto “o aggiorno o vengo alla tua festa”,
lei mi ha risposto “non mettermi in difficoltà!”
 e se n’è andata col broncio.
Capitolo 5


Solitudine.

Angoscia. Frustrazione. Rimpianto. Fame.

Fu come se tutte le sensazioni accumulate nell’arco di un anno fossero esplose lì, in quel momento, e il petto di una sola persona fosse incapace di rimanere intatto, integro, compatto, al di sopra di quell’esplosione simultanea.

Blaine dovette inspirare profondamente dal naso, le labbra di Kurt che premevano sulle sue.
I suoi bicipiti si gonfiarono, forse, insieme alla cassa toracica, forse le labbra si gelarono al contatto con quelle di Kurt. Dopo un paio di secondi di smarrimento poggiò i palmi sul suo petto e lo spinse via, sconvolto.

Una serie di espressioni gli si dipinsero in vari colori sul viso: dapprima fu frastornato, poi confuso come un bambino a cui vengono strappati via i giocattoli. Nei suoi occhi guizzò un cipiglio di rabbia quando, infine, si allontanò e si mise sulla difensiva.

Kurt si permise di ricominciare a respirare solo diversi secondi dopo, pur rimanendo immobile e con le labbra ancora dischiuse e rosse.

Blaine si portò due dita alla radice del naso, chiuse gli occhi e ridusse la mano libera in un pugno.
Paradossalmente, Kurt si sentì lieto del fatto che stesse cercando, anche in quel momento, di misurare le parole.

Tuttavia, nonostante la piega che la situazione stava prendendo, non riusciva a pentirsi di quello che si stava rivelando un passo falso.

“Io- io credo che sia meglio che tu torni a casa, Kurt.”

Kurt annuì e si diresse verso la porta, gli occhi piantati sul pavimento polveroso.
Dio, avrebbe accettato di buon grado di perdere qualche anno di vita in cambio del il dono del teletrasporto, se glielo avessero offerto.
Tutto, pur di sparire dalla vista di Blaine il prima possibile.  

Lo guardò allontanarsi e strinse in un pugno anche la seconda mano.
Lo aveva invitato ad andarsene con le sole parole nonostante Kurt si aspettasse di venire letteralmente sbattuto fuori.

Ma non lo fece, così si avviò da solo, desolato e col viso ad ogni passo un po’ più paonazzo.  

Rimase sul ciglio, combattuto. Blaine sperò che risolvesse in fretta il dilemma che gli vorticava in mente con evidenza e sparisse al di là della porta scorrevole. Kurt gli rivolse un sorriso triste.

“Solo… buon Natale, Blaine.”
*

Era stato un attimo, eppure aveva sentito tutto.
Aveva percepito sapori e sensazioni di tempi andati, ma che continuavano a vivere con lui nonostante sembrasse aver dimenticato.

Le frittelle di sua madre, sapore di casa.
I rimproveri di suoi padre quando apprendeva che il figlio non sarebbe tornato per le vacanze di Natale nemmeno quell’anno.
La paura di essere scoperto quando sgattaiolava in una delle aule nel bel mezzo della notte, sapendo che ci fosse Sebastian ad aspettarlo.

In altri tempi avrebbe sorriso. Continuò.
 
“Tu sei nato per fare musica, Blaine Anderson!
No, amore. Sono nato per stare con te.

Blazer a strisce rosse e blu, vischio appeso al soffitto e duetti natalizi.
Il diploma, la sua festa, il trasferimento. Gioia, aspettative, occasioni. Occasioni sprecate.

“Mi hanno offerto un contratto, sembra che le bozze dei miei pezzi siano piaciute. Dovrò trasferirmi fuori città per un po’-“
“Dove?”
“A qualche kilometro da New York. Ma non preoccuparti tesoro, ci sentiremo tutti-“


Baci. Carta bruciata in contenitori di latta.
Resta con me e Ti amo e Non lasciarmi da solo, Blaine. E lui non lo fece. Non lo fece mai.
Solitudine, speranza e sconfitta.

Un giorno, un uomo con le tasche piene di soldi fece capolino sulla soglia del loft.
Sorrise. Blaine si sentì morire appena un po’ di più.

Ho cambiato la mia vita per te e Non avrei dovuto fidarmi e Come hai potuto farmi questo?

Calmanti, malattia e azt.
Ricordi lontani e pensieri amari; il più rassicurante era anche il più agghiacciante.

Ho la mia malattia, non sarò solo mai più.

 
*

Mentre tornava a casa poteva quasi sentire la coda tra le gambe.
Come aveva potuto? Che gli era passato per la mente? Che diavolo aveva pensato di ottenere?
Era appena saltato addosso ad uno sconosciuto.

Chi stava diventando?

“Kurt Hummel, mi stai profondamente deludendo.”

La sua coinquilina era un personaggio estremamente stravagante.
Con una mano reggeva la padella che sfrigolava sotto la sua direzione, con l’altra teneva all’altezza del viso un blocchetto di fogli rilegati con qualche colpo di spillatrice.

“Ho perso la testa,” si giustificò Kurt. Purtroppo il suo tono afflitto non bastò a calmare quello concitato della ragazza.

“Avresti dovuto avvicinarti piano, sorridergli, lanciare qualche occhiata languida. Avrebbe funzionato, parola di Rachel Berry. Non si salta addosso alle persone, non è educato!”

Se persino Rachel poteva mettersi a dargli dritte su cosa fosse educato e cosa non lo fosse - lei che al liceo sbatteva ripetutamente la porta del suo armadietto pur di attirare l’attenzione - stava davvero diventando un bohèmien fin troppo spavaldo.
Si ripulì le mani dalla pittura e scivolò nel suo letto disfatto, intenzionato a non uscirne almeno fino all’arrivo del nuovo anno.

Rachel si accorse del suo movimento e brandì la padella piena di uova nella sua direzione, teatralmente sconvolta.
 
“Non avrai intenzione di startene lì dentro! E’ Natale, Kurt! Non importa cosa hai combinato con il –  per citarti – ragazzo più sexy su cui abbia mai posato gli occhi, andiamo!” riposizionò la padella sul fuoco, “Non oggi, almeno.”

Fosse solo perché questo potrebbe essere il tuo ultimo Natale, amico mio, fu solo una delle motivazioni che Rachel si impose di mettere a tacere quando già le sfioravano le labbra.

“Comunque,” riprese e scacciò via quei cattivi pensieri, “raccontami di nuovo come ha reagito”.

Kurt sbuffò e si scostò un ciuffo color miele dalla fronte.

“Te l’ho detto. E’diventato tutto rosso e mi è sembrato arrabbiato ma stranamente attento a non esplodere. E’ stato come se non volesse cacciarmi via a calci,” gli occhi gli si riempirono di lacrime ancora una volta, “cosa che io avrei fatto, al suo posto.”

Oh, sì. Si sarebbe cacciato fuori di casa a calci nel sedere, altroché. In presenza di quell’uomo perdeva la cognizione del tempo e dello spazio e i suoi preziosissimi freni inibitori.
Rachel non lo avrebbe mai compreso perché i suoi non erano mai stati utilizzati.

“Ti ammiro, sai? Riuscire sempre a fare quello che vuoi, non darti mai una regolata. Mi piacerebbe poter fare come te.”

Rachel smise di dargli le spalle e lo scrutò, dall’altro lato della casa.
 
“Guarda che mi do fin troppe regolate!” sbottò, ma Kurt riconobbe dal tono della sua voce il fatto che non fosse alterata nemmeno un po’.

“Niente fumo, niente alcol, niente cinema la domenica sera, niente shopping-“

“No, non intendo quel tipo di regolata,” la interruppe Kurt che, intanto, aveva lasciato che una mano gli scivolasse sugli occhi, “intendo nei confronti delle persone. E’ ovvio, normale, giusto. Tu sei giusta, io mi sento sempre sbagliato. Mi innamoro sempre delle persone sbagliate.”

Mi innamoro.

Diavolo, lo aveva detto davvero? Quanto tempo era che le sue labbra non pronunciavano quel verbo, innamorarsi? E, soprattutto, era vero? Ebbe la profonda sensazione di starne facendo un abuso e si sentì in colpa.

“Se credi che lui sia etero ti stai sbagliando di grosso! Lo vedo quando prendo la metro la mattina, nel negozio di cosmetici all’angolo. Non compra mai niente, ma si vede che non gli spiace stare lì.” Rachel gli fece un occhiolino che la diceva lunga sulla sua capacità di smascherare la sessualità di chiunque si trovasse di fronte.

“Allora? Stasera cinema all’aperto?”

“Lascia che ti risponda il mio portafoglio vuoto” cantilenò Kurt. Aprì animatamente le braccia e sorrise ripensando a Blaine che si crogiolava tra ombretti e fascette per capelli.

“Oh, Rachel! Vorrei tanto andare a quello splendido cinema all’aperto sulla ventiduesima strada, ma sono prosciugato!”

Rachel spense la fiamma e rise di gusto dell’interpretazione magistrale del suo coinquilino. Lo raggiunse sul letto e gli carezzò le guancie con i palmi ammorbiditi dalle creme idratanti.

“Ancora mi chiedo perché ti sia rifiutato di ritentare il provino alla NYADA.”

“E’ stato due anni fa,” commentò Kurt, evitando accuratamente il suo sguardo serio nonostante gli tenesse ancora il viso tra le mani, “non ha più importanza, adesso.”

Poté sentire i tasti dolenti del pianoforte dentro di lui abbassarsi con forza e si sforzò di non ascoltarne il suono distorto. Che senso avrebbe avuto entrare alla NYADA o in qualsiasi altro college sapendo di avere ancora così poco tempo da vivere?

Rachel captò i suoi pensieri e si sforzò di spostare il discorso sulla necessità di pagare l’affitto.

Disse che lo avrebbe fatto lei con i soldi che le avrebbero inviato i suoi papà anche quell’anno e sperò che la discussione scatenasse in Kurt il solito moto di orgoglio che lo aveva sempre portato a reclamare, perché non esiste che paghi per entrambi.

Si era dimostrata tremendamente leale nei suoi riguardi: nonostante fosse stata ammessa alla NYADA, nonostante avesse i soldi per vivere in un quartiere migliore - in una casa con delle stanze e ben arredata - si era categoricamente rifiutata di lasciare Kurt da solo in quel loft. Aveva deciso che avrebbero vissuto insieme e non c’era stato verso di farla demordere.
Le liti su chi dovesse pagare cosa si scatenavano spesso ma lei, in un modo o nell’altro, l’aveva sempre vinta.

Burt gestiva l’officina e nonostante lui e Carole non dovessero più supportare i bisogni di Finn che ormai aveva ottenuto una cattedra in biologia e il pieno stipendio mensile che gli spettava, non erano in grado di spedirgli neanche la metà delle somme esorbitanti che cadevano mensilmente tra le mani di “Rachel ho due papà in pensione Berry”.

Purtroppo Kurt non la stava più ascoltando, troppo indaffarato a cercare di staccarsene le mani dal viso per coprirsi gli occhi che iniziavano ad inumidirsi.

“Oh no,” piagnucolò lei raccogliendo le prime lacrime con i pollici, “no, tesoro, non piangere…”

“Rachel, va tutto bene. Davvero.”

Kurt sfuggì dalla sua presa e si diresse verso le grosse vetrate.

I loft erano tutti uguali: stanza ampia, arredamento povero - il loro era uno dei più carini che ci fosse in circolazione - e vetrate. Spesso uno dei quattro muri era costituito da solo vetro, ed era la cosa che Kurt amava di più di quel posto.

Rivolgendosi ai finestroni diede le spalle alla sua coinquilina, un po’ accartocciata su se stessa e ancora seduta sul letto di Kurt. Si mordeva nervosamente un labbro.

“Scioglierai il primo strato di crema idratante che ti ho applicato stamattina e non potrò continuare con il secondo questa sera. Non ti ho mica regalato tutte quelle bottigline per niente!”

Kurt si morse il labbro alla stessa maniera e si sentì immensamente triste, perso e distante.
Distante, troppo lontano da quello che era stato un tempo, prima che la sua vita si ripiegasse su se stessa e gli imponesse di vivere ogni attimo, perché ogni attimo in più sarebbe stato un attimo in meno.

Come se cercasse di bere da un bicchiere bucato, come se nuotasse in un mare troppo profondo, come se corresse in una gara con la linea di partenza e quella di arrivo troppo vicine, Kurt viveva annaspando. Sapeva di non avere il controllo sulla fine, ma solo sull’andamento della sua corsa. E intendeva godersi il paesaggio, nel mentre.

Ogni giorno come se gliene rimanesse uno solo, Kurt Hummel correva senza voltarsi indietro perché sapeva quanto facesse male lasciarsi andare.
*

“Il negozio è chiuso, tesoro!”

Blaine picchiò di nuovo con il palmo contro la porta di vetro.
Le luci erano accese solo parzialmente e una donna vestita con colori bizzarri sedeva al bancone e scriveva su un pezzo di carta alla luce di una lampada da tavolo.

Blaine mimò un sono io! al di là del doppiovetro e la donna alzò un sopracciglio con disappunto. Morse l’estremità della matita con cui stava scrivendo e andò ad aprirgli.

“Cosa ci fai qui, stellina? Ero tanto sicura di non vederti oggi che ho raccontato a mia nipote che ti saresti aggregato agli elfi di Babbo Natale per aiutarlo con le consegne nei Paesi in cui c’è un altro fuso orario.”

“Sono venuto a trovarti,” spiegò Blaine e incassò il riferimento alla sua altezza accennando un sorriso, “per farti gli auguri di Natale. E per chiederti il resoconto dell’appuntamento con il barista del locale sulla quattordicesima…”

La donna ammiccò e gli fece segno di seguirla verso il bancone. La sua espressione divenne improvvisamente inquietante e tetra alla luce fioca della lampada, attorniata com’era dal luccichio dei brillantini e dei manici dei pennellini e degli scatolini dei rossetti più costosi.

“Era un dannato stronzo. Non riesco proprio a capire perché gli uomini di oggi cerchino solo quello!”

Alzò gli occhi al cielo e liquidò il ricordo della serata precedente con un gesto frettoloso della mano.
Blaine ridacchiò. “Pazienza, B. La volta giusta sarà la prossima.”

“Oh, per favore. Mi chiedo perché non capiscano che sono una fottuta Lady!” esclamò agitando le mani sopra la testa. Le riappoggiò al bancone quando aggiunse: “E sai bene che la mia volta giusta è… passata”.

In quel momento Blaine capì di essere esattamente alla sagra delle parole inopportune.

Lady B. era il proprietario transessuale del negozio di cosmetici all’angolo, proprio di fianco alla metropolitana, a cui Blaine faceva visita praticamente ogni giorno. Il loro insolito rapporto era iniziato grazie ad un battibecco scoppiato a causa dell’uso improprio che Blaine faceva dell’amplificatore della sua chitarra.

“Giovane, non ho visto i cartelloni di nessun concerto da queste parti. Quindi perché continui a farmi scappare i clienti amplificando quella merda di chitarra che si sente dall’ultimo piano fino al fottuto marciapiede qui sotto?”

Blaine aveva provato a replicare, ma non c’era stato verso di fermare le sue adorabili imprecazioni.

“Pensi di vivere da solo in questo formicaio, signorina? Stacca quei cavi dalla tua dannata chitarra o giuro che salgo fin lassù e te li ficco su per il culo sulle note di una bella Ave Maria!”

“Gloria a Dio nell’alto dei cieli!” aveva risposto ironicamente Blaine. Poi aveva staccato l’amplificatore, era uscito per scusarsi e lei gli aveva offerto il venticinque per cento di sconto sugli smalti.

Amicizie del genere sono destinate a durare in eterno.

“La mia non c’è mai stata”  Blaine iniziò a massaggiarsi la mano che aveva sbattuto ripetutamente contro la porta e Lady B. ricominciò a scrivere.
“A proposito della tua autocommiserazione, ho visto – lo chiamerei biondino se lo fosse – la bambolina di cui mi hai parlato passare da queste parti. Vienimi a dire che non è salito da te e mi risparmierai lo sforzo di sputare nel cestino la gomma che sto masticando perché giuro che centrerei senza alcun problema il tuo amabile visino.”

Tremendamente adorabile.
Blaine incassò ancora una volta, consapevole di essersela meritata per averle riportato alla mente ricordi spiacevoli.

Ricordava del giorno in cui lei gli aveva raccontato di come avesse visto il suo compagno morirle tra le braccia. Un attimo prima era viva, quello dopo era morta insieme a lui. Poi aveva pianto tutte le sue lacrime sulla spalla di Blaine rivivendo quei momenti, forse per la prima volta. Era malato di aids, come lei. Come Blaine.

E come Kurt. Ma questo non poteva saperlo.

“No grazie,” scherzò Blaine coprendosi il viso con le mani, “è salito e siamo stati un po’ insie-“
B. mollò nuovamente la matita e saltò praticamente a sedere sul bancone nel tentativo di avvicinarsi di più.

“Lo avete fatto!” esclamò.

“Cosa? No!” sventolò una mano e scosse la testa, “Alla faccia degli uomini che pensano solo a quello! Abbiamo parlato e mentre gli raccontavo del motivo per cui sono partito per New York mi ha-“ ebbe un attimo di esitazione, “baciato.”

Lady B. si coprì con una mano la bocca colorata di rossetto rosa, poi ridacchiò e gli fece segno di continuare.

“Placati, non è successo niente. L’ho mandato via.”
A quel punto B. si sarebbe tolto la parrucca e gliel’avrebbe lanciata, pur di avere qualcosa da scaraventargli contro.
I suoi occhi si ridussero in fessure e strinse le mani dalle unghie colorate di azzurro in due pugni che sbatté contemporaneamente sul tavolo.

“Perché!” non era una domanda, “Perché sei così stupido! E’ colpa di quel fottuto bisessuale di Sebastian, mi ci gioco il negozio. Quando ti deciderai a mandarlo a farsi inculare dal primo che incontra, mi chiedo? Se sai rispondermi, quando?”

Blaine si allontanò dal bancone e fece finta di esaminare la merce al centro del negozio.

“Non si tratta solo di lui, davvero. E’ la malattia e tu sai come la penso. Kurt è così luminoso, così pieno di vita. E’ bellissimo e io sono uno straccio, un miserabile col cuore a pezzi. Sarei un disastro con lui, non prendermi in giro. E Sebastian è gay, solo che è anche particolarmente avido.”

“Tutto quello che vuoi, tesoro,” B. gli rivolse un’occhiata sinceramente preoccupata, “ma tu sei quantomeno attratto da quel Kurt. Ti piace. Me ne accorgo da come abbassi la voce quando parli di lui e dal fatto che tu non abbia mai utilizzato le parole “luminoso” e “pieno di vita” fino ad ora. Dici che il momento in cui sei morto è stato quello in cui hai saputo di essere malato, ma se si parla di lui il cuore ti batte di nuovo. E io non ho mai visto un morto a cui batte il cuore.”

Ma vorrebbe averne avuto l’occasione.

Blaine sapeva che B. avesse ragione, ma semplicemente non poteva.
Non poteva intrappolare un uomo e chiedergli di restare, dal momento che lui se ne sarebbe andato. E lui se ne sarebbe andato presto. Non sapeva quando, ma presto.
La sua coscienza non avrebbe retto una cosa del genere.

“Uccellino, si muore solo quando la speranza muore. E c’è sempre un barlume di speranza nel tuo sguardo, posso giurartelo sulla tomba dell’anima dolce di mia madre – devo ringraziare lei e la mia abbondantemente defunta nonna per il mio impeccabile gusto. Lascia che quel ragazzo ti salvi. Non sta aspettando altro.”

Blaine rivolse tutta la sua attenzione su quell’ultima frase e si chiese se fosse vero.

Diamine, forse lo era. Ma, dopotutto, non avrebbe cambiato nulla.

O forse avrebbe cambiato tutto.
Il resto della sua vita, tutto quello che gli rimaneva da vedere, toccare, ascoltare… vivere. Voleva davvero sprecare il tempo che gli rimaneva?

Magari avrebbero trovato un compromesso, magari Kurt lo avrebbe accettato, magari sarebbe riuscito a costruirsi una seconda vita, magari…

Oh, come se fosse tutto così scontato. Non ci sarebbe stato modo di scoprire come sarebbe potuta andare se non quello di lasciare che andasse.

E Blaine era una persona tremendamente curiosa.

 
   
 
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