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Autore: MalkContent    09/12/2013    4 recensioni
Lavanda. Fiori secchi, come carta velina.
I fiori che mia figlia ha raccolto per il mio ultimo compleanno.
C'è anche mia figlia, nell'esercito di morti che camminano: i capelli biondi sporchi di sangue, guance paffute distorte, occhi azzurri resi vacui dal rigor mortis. La mia bambina ha sei anni, caccia i vivi per nutrirsi. Una volta cacciava fiori per sua madre.
Genere: Angst, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Il mondo se n'è andato a fanculo da almeno sei mesi.

Non so come sia cominciata. Un virus, la guerra chimica oppure Dio sceso in terra ad aprire le tombe dichiarando aperta la stagione dell'Apocalisse con la resurrezione della carne.

Carne che al momento va a zonzo per le strade decomponendosi ad ogni passo strascicato.

Mio marito è da qualche parte con l'esercito, sempre che non sia stato già mangiato da qualcuno degli onorati cittadini del Paese tornati in semivita per vagare senza meta per le strade a caccia dei furono consimili ancora respiranti.

Sono rimasta lontana dagli altri viventi.

Sapete, quando le convenzioni comuni crollano e l'autorità civile collassa, la gente dà o il meglio o il peggio di sè.
Non ci sono vie di mezzo, semplici codardi e gente normale.

O eroi o maledetti bastardi. La gente normale muore. I codardi fanno qualcosa di grande e diventano eroi... oppure diventano i bastardi che non sono mai potuti diventare.

Non ho voglia di uccidere vivi: per quanto bastardi siano, non sono ancora pronta per questo.


Viaggio da sola.
Su una vecchia fiat 500 scassata.
Almeno per i primi dieci chilometri di disperazione in fuga dalla città.
Poi sono inciampata in un Hummer H1 con il conducente non morto che agonizzava all'interno dell'abitacolo e la situazione è nettamente migliorta, dopo aver lavato bene la tappezzeria.
Nota bene: il cervello di zombie macchia indelebilmente se lavato con acqua calda.


A bordo strada, puntellati contro i fini steccati dipinti di bianco di villette a schiera vuote come teschi, sostano quelli che probabilmente erano i proprietari degli immobili prima di morire e cominciare ad andare a passeggio per le strade in cerca di cervello fresco. Rallento e mi assicuro che si alzino e comincino lentamente a deambulare, seguendo il rombo del mio motore. Sembrano meno reattivi del solito, probabilmente non mangiano da un po'.

Ben presto un codazzo di creature decomposte e gementi mi fa ala lungo il viale alberato. Di solito a questo punto cominciano a correre come se avessero lupi alle calcagna.

Spostarli fuori città è un'angosciosa marcia funebre, a questa velocità, ma con un po' di fortuna continueranno a camminare in mezzo ai campi per diversi giorni. Li guardo tutti, uno ad uno, riflettersi nello specchietto retrovisore, alla ricerca di occhi azzurri, seppure appannati, capelli biondi, seppure sporchi. Di spalle ampie, seppure rinsecchite dalla mummificazione a cui con il caldo torrido dell'estate i morti viventi stanno andano lentamente incontro.

No, mio marito non è neppure in questo gruppo di derelitte salme che mando a disperdersi nei campi quando accelero bruscamente per lasciarmeli alle spalle.


Posso fermarmi, riposare.

Evito come la peste le villette di testa: troppe finestre da sorvegliare e barricare.

Nella pace e nella quiete di una casa dove devo decapitare soltanto un paio di salme semoventi prima di potermi accomodare sul divano, analizzo cosa è rimasto della mia vita.
Due bauli e una fortuna sfacciata.

Dividi et impera, dicevano. Un giorno alla volta, dicevano.

Ma la mia vita è racchiusa interamente in due bauli a cui mi aggrappo con forza per tirare avanti e non impazzire.



Da una parte, il baule della mia auto. Cibo, medicine, tutto quello che riesco a razziare nelle città che attraverso. Vestiti. Vestiti che non mi appartengono, coperte che ho arraffato dai letti sfatti di chi ha abbandonato la propria casa in un'inutile fuga precipitosa lungo autostrade intasate dal panico.

Il fucile da caccia di mio padre. Ho imparato ad usarlo a dodici anni. Sparare mi piace, anche se sono una donna, ma non è il genere di referenza che inserirei in curriculum.

Il fucile mitragliatore che ho arraffato al posto di blocco. La prima volta che l'ho provato mi ha sbattuta per terra. La seconda no. Quanto alla terza ... c'è ancora un gruppo di morti che camminano... su quel che resta delle ginocchia. Non vanno molto veloci.

La radio trasmittente, staccata da un camion. Uno dei pochi vivi con cui ho avuto a che fare è riuscito a collegarla all'Hummer in cambio di cibo e di antibiotici. Non mi sono fermata a lungo.

È stata la mia ultima conversazione, quattro mesi fa, se si escludono i miei soliloqui al CB.

Nascosto sotto tutto l'armamentario che mi serve per tirare avanti c'è l'unica cosa che davvero mi impedisce di impazzire.

È un baule in cedro. L'ha intagliato Mike, mio fratello, come regalo di nozze. Percorro le foglie di acero che lo decorano, incise lungo gli spigoli, ne aspiro il profumo sottile, che sembra per un attimo sovrastare l'odore rancido che aleggia in ognuna di queste città fantasma.

Lo apro.

Libri. Il Piccolo Principe. Se Questo è un Uomo. Per ricordare la tenerezza, per affrontare il dolore del distacco. Per ricordare cos'è un uomo e come restarlo, quando tutto ti viene strappato via. Li ho imparati a memoria. Il Signore degli Anelli. Non si tratta con gli orchi, esattamente come non si tratta con gli zombie. Prima o poi qualcuno getterà l'anello nel monte Fato, e tutto questo finirà. Nel frattempo, ricordiamoci di essere cavalieri. Ricordiamo il valore di ciò che è importante. Peccato che metà dei vivi che sono là fuori desiderino morire... e che l'altra metà sia convinta che l'Apocalisse sia arrivata: niente da perdere, arraffa, mangia, conquista.

E poi si chiedono perchè non mi fermo mai.

Un album di foto. Il matrimono di mia madre e di mio padre. Il mio matrimonio. Io e Gary sorridiamo in camera, la macchina fotografica ferma per sempre un momento che non tornerà.

Avrei potuto prendere una lattina di carne in scatola, piuttosto che questo album, ma adesso avrei probabilmente dimenticato com'è fatto un volto umano, com'è fatto un sorriso vero.

Lavanda. Fiori secchi, come carta velina.

I fiori che mia figlia ha raccolto per il mio ultimo compleanno.

C'è anche mia figlia, nell'esercito di morti che camminano: i capelli biondi sporchi di sangue, guance paffute distorte, occhi azzurri resi vacui dal rigor mortis. La mia bambina ha sei anni, caccia i vivi per nutrirsi. Una volta cacciava fiori per sua madre.




Ringraziare ogni giorno per ciò che è stato.

Ringraziare ogni giorno per ciò che sarà.

Sono ancora viva, non mi prenderanno.

E non mi pianterò un proiettile in testa. Prima voglio essere certa che Gary e Ann riposino nella terra, dove nessun estraneo li decapiterà. Quello spetta a me e a me soltanto.

Sotto i libri spunta un lembo di tulle bianco. Il mio vestito da sposa. Il vestito da sposa che avevo riposto in questo baule, prima che diventasse l'Arca che custodisce tutta la mia vita.


Un lamento. Passi sulle scale di legno.

Erano tre... non due. Erano tre.



*-*-*-*



Buio.

Mi sento rigida. Le braccia, le gambe. Non si piegano.

Mi sento soffocare, non riesco a respirare.

Mi fa male il petto, come se fosse compresso in una morsa.

Non respiro.

Non respiro.

Non respiro.

Aiuto. Soffoco.

Da quanto tempo sto soffocando? Dovrei essere svenuta da un pezzo.

D'improvviso mi sento come se stessi annegando i dieci centimetri d'acqua, sciaguattando stupidamente in cerca d'aiuto sotto gli occhi e tra le risate generali della spiaggia intera.

La morsa al petto non si allenta, è come un vuoto che aspetta d'essere riempito. Riflettendo, nel buio, mi rendo conto che non sto soffocando.

È fame. Una fame come non l'ho mai conosciuta prima.

Una fame che è assieme sete e desiderio disperato di respirare.

È una sensazione curiosa, potrei stare ore ad ascoltarla, se non fosse così spiacevole.


I miei occhi si schiudono. La luce è abbacinante, dalle assi che barricano la finestra, sfondate a metà, il sole entra come una lama bruciante. Batto le palpebre più volte, cercando di schiarirmi la vista e il movimento viene accompagnato da un sottile crepitare, simile ad un foglio che venga accartocciato. Mi alzo, piano piano, come se temessi di rompermi le ossa se solo cercassi di piegare troppo bruscamente i gomiti o le ginocchia. Mi metto a sedere con le gambe tese e le braccia pendenti sul pavimento rivestito di moquette marrone, lurida. Appoggio la schiena contro il bordo del letto, abbasso gli occhi sul mio grembo, sulle cosce tese in questa posizione innaturale.

Ho la sgradevole sensazione che qualcuno mi abbia vomitato addosso mentre dormivo e sono formalmente grata di non respirare.

Ho fame.

Il sole mi ferisce gli occhi.

Li chiudo.

Silenzio.


Apro gli occhi nel buio. È notte.

Fuori, nello squarcio tra le assi alla finestra, si muovono figure umane.
Si trascinano ciondolando e inciampando l'una sull'altra o nei propri stessi piedi.

Nessun rumore, a parte qualche sordo lamento angosciato, ma non sembra il genere di suono che potrebbe uscire da una gola umana.

Non riesco ad alzarmi. Mi accontento di strisciare sulle ginocchia, carponi. Le mie mani sono magre, così magre. E bianche come gesso. Ho poca sensibiltà sui polpastrelli, è come se la pelle si fosse inspessita, irrigidita. Le unghie grattano la moquette, mi trascino in avanti come un verme. La mia vista non è buona, è come se guardassi il mondo attraverso una fine garza. Striscio lungo il perimetro della stanza, cozzando contro il comodino, scorticandomi una spalla contro il termosifone e alla fine arenandomi contro una forma solida.

La percorro con le dita, seguo lo spigolo di legno e gli intagli di fiori e foglie che ornano questa...forma.

C'è una giunzione. Qualcosa di poggiato sopra il baule. Si chiama...coperchio.

Le mie dita vi si insinuano tra le due parti di legno intarsiate. Il coperchio è pesante e la carne delle falangi, secca come carta, si accartoccia e mette a nudo le ossa bianche e disseccate prima che le mie mani superino la fessura e possano far forza per aprire il baule.

Una parte di me dovrebbe inorridire, essere sconvolta dalla rovina delle mie mani.

In realtà... non mi importa.

Ho solo fame.


Odore di lavanda. Odore di legno di cedro e di lavanda. Immergo le mie mani scorticate nel baule e le ritraggo, piene di una manciata di fiori secchi. Li porto al viso, li premo contro le guance, per poterli vedere chiaramente. Contro la mia pelle i petali si accartocciano con un crepitare di carta. O forse sono di nuovo i miei occhi. Chissà...


Le risate della bambina mi risuonano nelle orecchie. Le sue piccole mani morbide... posso avvolgerle con le mie. Proteggerla, sempre. Spinge tra le mie dita un mazzolino di anemoni. Dovrei dirle di non strapparli dal giardino della vicina, dovrei arrabbiarmi per quel piccolo atto di vandalismo a fin di bene, ma non ne ho il coraggio. E dopo tutto alla vecchia Margaret non importa. Odoro gli anemoni e le spighe di lavanda, assaporandone il profumo. Sono ancora calde di sole.


Grido. Dalle mie dita rigide e scorticate cade una pioggia di petali. Immergo freneticamente le braccia nel baule, rovisto alla cieca in quello spazio ristretto. Le mie unghie grattano il cartoncino spesso che accoglie pagine bianche. Su quelle pagine sono incollate figure lucide. Ne straccio diverse nell'ansia di sfogliare, di toccare, di assaporare. La mia testa si riempe di luci.


Flash. Sorrido e il braccio forte di Gary mi stringe la vita.
Flash. La musica dell'orchestra scandisce un valzer. Io so sparare, non ballare, ma a quanto pare la sposa deve aprire le danze. Gary mi guida e, nonostante l'imbarazzo mi irrigidisca la schiena e le gambe tanto da farmi dolere i muscoli, riesco ugualmente a non incespicare nel tulle e nel taffetà bianco di questo vestito ingombrante. Il cuore mi martella nel petto tanto forte che mi pare di sentir tintinnare le perline del corpetto. Eppure non riesco a smettere di sorridere.

Flash. Tagliamo la torta, un adorabile scherzo dei nostri amici. Piccoli zombie di pasta di zucchero si arrampicano su per i sette piani di pan di spagna, frutta e crema, per raggiungere le nostre piccole copie asserragliate in cima, schiena a schiena, con una motosega di cioccolato in mano.

Flash. Le dita di Gary, indurite dal lavoro, ma sempre delicate, che abbassano la cerniera del mio vestito, liberandomi dal supplizio delle stecche di plastica che mi modellano i fianchi, non esattamente asciutti.

Flash. Le sue labbra che si chiudono sulle mie. Flash. La piccola cicatrice a stella sulla guancia sinistra, lasciata da uno sharpnel in Iraq.


La fame mi strazia il ventre, a morsi. Boccheggio, cercando di respirare e il dolore di un bisogno sconosciuto martoria il mio corpo disseccato. L'album cade, le foto si spargono attorno a me cadendo sui petali. Mi accascio sul baule, aggrappandomi con le unghie agli intarsi a forma di foglia d'acero.


Mike mi guarda. Ha i miei stessi capelli scuri, i miei stessi occhi neri da gitano. Il mio stesso sguardo un po' strafottente, di chi prende a morsi la vita, come quando si ha fame, fermandosi di tanto in tanto ad assaporare, prima di svuotare il piatto con gusto. Sta puntellato con una spalla allo stipite della porta: "Sorellina, quello te lo sposi sul serio, o scappi dalla chiesa pur di non ballare? Guarda che il secondo ballo è mio..."


Le mie mani prendono a stracciare via i resti insanguinati dei miei abiti. Sulla spinta della rabbia e della fame, i movimenti diventano più facili. Diventa più semplice piegare questo corpo dalla pelle incartapecorita, dai muscoli rigidi. Ho unghie taglienti come coltelli. Strattono fuori dal baule una nuvola di stoffa bianca, di cui una volta conoscevo il nome. Non me ne importa. Lo calo a coprire la rovina del mio busto, senza stringere i lacci. Mi pende addosso come gettato su uno spaventapasseri. Una sposa cadavere che incespica sulla gonna di tulle e taffetà, lacerandoli. Quando scendo le scale l'abito è una triste rovina, esattamente come il mio corpo.

La strada è inondata di sole, deserta. Non ho l'istinto di distogliere lo sguardo dalla luce e il sole mi acceca. Ho fame. Fame di vita e di ricordi. Comincio a camminare. Altri mi vedono, e lentamente camminano dietro di me, trascinandosi sulle gambe malferme. Dove va uno, vanno gli altri.

Marciamo (una volta avrei riso, a questo punto).


Non ho la percezione del tempo. Continuo a camminare. La carne dei miei piedi si è consumata sull'asfalto bollente. Tra un po' le ossa si fracasseranno. Zoppico, manco di equilibrio, rischio di schiantarmi a terra a causa del peso del mio logoro e sporco vestito da sposa. Ogni tanto mi puntello a coloro che marciano (marciscono?) con me, per non cadere. La polvere della strada si accumula su di me, sui miei occhi spalancati, che non battono mai le palpebre. Odio quel rumore di fogli che vengono accartocciati quando lo faccio.

L'orda comincia a disperdersi, alla ricerca di cibo fresco nei paraggi. Solo io continuo a camminare lungo una strada che ha qualcosa di familiare. Di tanto in tanto sfioro il vestito.

La pioggia e la grandine mi hanno scorticata, lungo il viaggio. Le mie clavicole biancheggiano tra i pizzi ingrigiti. Fisso il vuoto, stancamente.


Flash. Le risate di un ragazzo bruno. Flash. Occhi azzurri. Flash. Guance paffute. Flash. Una cicatrice a stella.


Sono sola, quando in una giornata di sole primaverile mi fermo davanti alla casa dipinta di bianco. Le finestre sono barricate dall'interno, gli scuri inchiodati tra loro. Il glicine fiorisce incontrollato, abbracciando il pergolato e l'intera parete est. Busso contro la porta, con nocche nude e scarnificate.

Rumori metallici e concitati, nell'interno dell'abitazione. Cincischio con l'abito, le unghie si impigliano in quel che resta del pizzo.


Flash. La mia casa. Flash. Una piccola casa con il pergolato ornato di glicini.


La porta si apre. Il sole alle mie spalle inonda di luce la canna di un fucile a pompa. Non sento neanche il dolore, solo l'urto che mi sbatte a terra, oltre gli scalini su cui mi sono arrampicata tanto faticosamente e lo sparo, potente come un tuono. Guardo il cielo. Così azzurro.

Azzurro, sin quando l'uomo con il fucile mi sovrasta.

I suoi occhi sono ancora più azzurri di quel cielo di una primavera insultante sopra di me.

Scorgo la cicatrice biancastra, a forma di stella, incastonata nella barba bionda.

Le lacrime gli inondano il viso.

Resto a guardarlo, sin quando non solleva la canna del fucile per puntarla contro la mia testa. Distolgo lo sguardo. Ho ancora gli occhi fissi sul cespuglio di anemoni e lavanda del giardino di fianco, quando un secondo tuono mi consegna al buio.

  
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