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Autore: Michelle Verace    11/12/2013    8 recensioni
Stati Uniti d'America, Washington, Seattle, 2014.
Kevin ha diciannove anni, è stato bocciato tre volte e non è un genio incompreso.
Tra donne, feste e alcool, quando l'unico obiettivo della sua vita è realizzare il suo più grande sogno di diventare attore, non avrebbe mai immaginato di innamorarsi di Michelle, sedici anni, che potrebbe già essere all’ultimo anno di liceo. Perché lei non è come tutte le altre: molto più che intelligente, è stata sottoposta a un test che ha scientificamente dimostrato che il suo quoziente intellettivo è nettamente superiore a quello della maggior parte del genere umano. Ma quello che entrambi non sanno è che una setta di scienziati, decisa a rivoluzionare la razza umana attraverso macchinari ultratecnologici capaci di trasmettere gli impulsi nervosi da un cervello a un altro e di duplicarli all'interno di uno stesso organismo, è seriamente intenzionata a ucciderla e ad eliminare dalla faccia della terra tutti quelli come lei, i geni, per creare un mondo senza differenze.
Kevin si ritroverà ad affrontare forze più grandi di lui e inimmaginabili pericoli, per proteggere la ragazza che ama.
Anche a costo della sua stessa vita.
[LA STORIA VERRA' RISCRITTA COMPLETAMENTE E PUBBLICATA CON UN NUOVO TITOLO]
Genere: Azione, Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
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- Questa storia fa parte della serie 'DC Enterprise'
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Nda: Il capitolo è stato ripubblicato con l'inserimento di una nuova scena a fine capitolo e la revisione dello stesso. Leggere ASSOLUTAMENTE le note riportate sotto.







S
e s t o   c a p i t o l o

 
 
 
 
 
«Di solito non sono tanto imbranato.»
È inutile cercare di convincermi che sia così, perché neanche Michelle sembra capace di credere alle mie parole.
Scuote la testa, si stringe le gambe al petto e mi scruta con quei suoi luminosi occhi grigio-verde e quel suo sorriso malizioso sulle labbra color porpora che non ho smesso di fissare da più di dieci minuti. Il suo sguardo mi urla chiaramente che sono un caso disperato, eppure qualcosa mi dice che non le dispiaccio così tanto. E che soprattutto l’episodio di poco prima l’abbia sorpresa più di quanto dia a vedere. Certo, non è che sia piacevole ripensare alla mia fronte che sbatte violentemente contro la carrozzeria di una macchina e quei metri di distanza che mi separano dal soffitto sopra di me, però… C’è un però. Non lo so spiegare, non sono un poeta e di sicuro non sarei mai in grado di descrivere ciò che penso e ciò che sento in modo originale. Sarò anche banale, ma i fronzoli non fanno per me; perciò è meglio rivelare le cose come stanno.
Credo che ci siano buone probabilità di riuscir a far breccia dentro di lei, anche se è difficile dichiararlo con certezza.
Michelle non è affatto quella che la gente chiama una “persona normale”; avrà anche l’aspetto di una comune sedicenne di un’altrettanta comune città dello stato di Washington, ma sono più che convinto che tutto ciò che c’è di ordinario in lei finisca qui. Ed ecco dove iniziano le sue stranezze, o ancor meglio: le sue diversità. Osservo le persone, amo penetrare nei loro pensieri e chiedermi cosa farei io al loro posto, in un’altra vita. Ma con Michelle è tutto così… fuori dagli schemi. È un enigma, un sillogismo particolarmente complesso, indimostrabile.
Un postulato. Un assioma.
 
Per un punto passano infinite rette.
 
Lei è quel centro, quell’intersezione attraverso cui trovano esistenza le innumerevoli regole inspiegabili dell’universo.
La guardo, anche ora, e penso che non troverò mai una spiegazione a tutto questo. Non ho mai creduto nel destino, e ancora adesso trovo difficile affidarmi a qualcosa di cui non è certa l’esistenza, ma…
«Kevin, attento!»
Sgrano gli occhi di scatto e premo con forza il piede sul freno. Il manubrio vola quasi tra le mie mani, il camion che sta per investirci ruggisce contro di noi, poi, nell’ultima frazione di secondo e nella confusione più totale, riprendo il controllo della situazione e riesco a schivarlo per un pelo. Facciamo un testacoda, le ruote dell’auto stridono sull’asfalto, cazzo, cazzo, cazzo, impreco più volte…
Tutto finisce e il nostro respiro si arresta.
Stiamo bene, siamo vivi.
Il tempo cammina sospeso nel vuoto.
Ci guardiamo, allucinati, tanto vicini che ci basterebbe allungare una mano per toccarci davvero, incapaci di riprendere i sensi.
Finché la sua risata amara non squarcia ogni angolo dell’abitacolo.
Balzo sul sedile ed è allora che mi accorgo di stringere con fin troppa forza il volante, a tal punto che mi si sono sbiancate le nocche. Fisso la sua bocca spalancarsi, il suo sguardo puntarsi quasi con idrofobia su di me, le sopracciglia inarcate in un cipiglio duro nello sforzo di trattenere i propri impulsi.
E infine la sua voce.
«Imbranato? Hai ragione, no, non lo sei!» scatta, i lineamenti del viso guizzanti a causa delle emozioni che si nascondono sotto pelle. «Piuttosto direi che sei distratto!» I suoi occhi si fanno furenti. «Mi dici a che cavolo stavi pensando invece di concentrarti sulla strada?»
Respiro a fondo, ispiro ed espiro, finalmente ritrovo la voce.
«Vuoi la verità?»
So solo ciò che vorrei io; ovvero fare come gli struzzi: infilare la testa sotto la sabbia e nascondermi dall’imbarazzo.
Schiude le labbra per rispondere, la furia negli occhi grigio-verdi, poi qualcosa le attraversa, nel giro di un attimo, lo sguardo e tutto cambia, lei cambia. Michelle mi scruta ardentemente, la sua espressione si trasforma, si addolcisce, e penso che mi abbia letto dentro ancor più in profondità di quanto potessi fare io o chiunque altro.
E come se anche l’ultimo barlume di sicurezza l’avesse abbandonata, incrocia le braccia al petto e punta la sua attenzione fuori dal finestrino.
Per quanto mi riguarda non c’è nulla di interessante là fuori; soltanto l’asfalto lastricato da un fitto strato di neve, ghiaccio e umidità, le sagome sfocate dei cipressi che si agitano all’orizzonte, i contorni sbiaditi del sole opaco che riscalda appena la città, seminascosto dalle nuvole bianche… O forse… forse i suoi occhi non volano così lontano, non aspirano a qualcosa che sembra totalmente irraggiungibile. Magari si soffermano sulle piccole gocce di pioggia che puntellano ogni centimetro del finestrino…
Chiudo gli occhi, sbatto le ciglia, li riapro.
Lo scenario cambia.
«Trentotto!»
Non sono più accanto a Michelle, nella sua BMW grigio metallizzato; ora sono in un catorcio da quattro soldi che papà ha comprato in un mercatino di auto usate quattro anni fa, è quel furgoncino scrostato di fuliggine che abbiamo riparato insieme tante volte. Adam è seduto al mio fianco, è soltanto un bambino, e non fa altro che muoversi freneticamente sul sedile. Stiamo giocando al nostro gioco preferito; contiamo le gocce di pioggia sul finestrino. Chi ottiene un numero maggiore nel minor tempo possibile vince, poi ricominciamo daccapo e così via. È la seconda volta che riproviamo, Adam mi ha stracciato ancora e continua a vantarsene.
«Non è giusto.» gli dico. «Io so contare solo fino a venti!»
Mamma e papà non si curano affatto di noi, sono troppo impegnati a discutere degli ennesimi problemi che anche oggi si sono presentati sul lavoro. Adam mi ha detto di aver ascoltato un loro tralcio di conversazione e di aver sentito dire da papà che purtroppo gli affari non vanno bene e che, per mancanza di fondi, il suo direttore ha dovuto licenziarlo.
«Licenzato? Che significa?»
«Licenziato con la “i” in mezzo.» Scuote la testa, non sopporto quando lo fa. «Sei troppo piccolo per capire, fratellino, non posso spiegartelo.»
«Non è vero!»
Il ricordo finisce così, troncato a metà, come se mi avessero staccato la spina che collega i miei pensieri al cervello. Sento gli occhi formicolare, puntini bianchi e neri danzano davanti al mio viso, poi…
Michelle mi stringe il braccio con così tanta violenza e disperazione, che mi stupisce pensare che potrebbe spezzarmelo. Lo ritiro con uno scatto, la guardo a bocca aperta, la faccia contratta in un’espressione di muto terrore. Ho la gola secca, non riesco a parlare.
«Kevin.» La sua voce mi riporta improvvisamente alla realtà, ma c’è una parte di me che non vuole più allontanarsi dalle mie illusioni. Mi sembra di sentire ancora la voce di Adam in sottofondo. Dove sei finito, fratello? «KEVIN!»
Sento le sue mani su di me, soffici, mi avvolgono le guance come una coperta soffice che mi riscalda. Soltanto ora mi accorgo di respirare affannosamente, ho il cuore in mano, lo sento pulsare dalla punta delle dita fino ai polsi, le vene blu risaltano sulla pelle bianca.
Che succede? Che mi succede? Dove sono? Dov’è? Non può essere… no, non è morto.
«Lo saprei se lo fosse…» sussurro a me stesso, stringendo le mani a pugno nella speranza di poter afferrare questa convinzione, senza mai più lasciarla andare.
«Calmati, Kevin, sono qui. Tu sei qui. D’accordo?»
Le sue mani finiscono sulle mie spalle, toccano i muscoli contratti e li ammorbidiscono con la punta delle dita. Poi fa qualcosa che non mi sarei mai aspettato da lei; riesce quasi a farmi dimenticare che mio fratello non c’è più, che io non sono più nessuno e che ho perso il mio migliore amico. Mi abbraccia forte, affonda i palmi nei miei capelli e li accarezza delicatamente, cullandomi al suo petto con il suo dolce profumo. Restiamo così per non so quanto tempo, ma non voglio allontanarmi, mi piace, mi fa sentire bene, allontana gli incubi che mi annientano anche di giorno, anche quando sono sveglio.
«D’accordo?» ripete al mio orecchio con il respiro affannoso e intriso di preoccupazione… per me?
Non ho la forza di dire nulla, mi limito ad annuire nella morsa disperata delle sue braccia.
«Va tutto bene, Kev… Senti come batte il mio cuore? Senti com’è regolare?»
Poggio l’orecchio sul suo cuore, l’eco dei suoi battiti inizialmente lento e ritmico con il suo respiro comincia a premere troppo sull’acceleratore. Vorrei dirglielo ma non saprei come la prenderebbe se poi lo facessi. Temo che potrebbe allontanarsi, ed io non voglio. Perciò ascolto, ascolto il suono che fa il suo petto alzandosi e abbassandosi, strofinando inconsciamente le guance sul suo seno proprio come farebbe un bambino.
Forse non avrei dovuto farlo.
Si scosta bruscamente da me provocandomi un gemito di disappunto che esce, in un soffio, dalle mie labbra schiuse, fissando il suo sguardo penetrante nel mio con una punta di sorpresa negli occhi chiari.
Poi sorride, ed è la cosa che meno mi sarei aspettato da lei in questo momento. La piega delle sue labbra ha un che di malizioso, e vorrei prendermi a calci per il modo in cui inevitabilmente reagisco: avrei qualcosa in particolare da sistemare ma se provassi ad allungare la mano se ne accorgerebbe e sarebbe molto più che imbarazzante. Non mi succede da giorni, forse è colpa dell’astinenza forzata a cui mi sono posto, tento di convincere me stesso, cercando di sistemarmi meglio sul sedile per alleviare il dolore ai pantaloni.
«Sei davvero furbo tu, eh?» La sua domanda mi stupisce, soprattutto perché non sembra affatto arrabbiata. Divertita, direi. Non so interpretare i suoi sentimenti in questo momento. Le interesso? Le piaccio? Cavolo, non so che darei per sapere se è almeno attratta da me.
Scompiglio i capelli con la mano, nell’inutile tentativo di sdrammatizzare un po’ la situazione, infilandoci le dita attraverso proprio come ha fatto lei poco fa. Il mio corpo sente già la sua mancanza. È troppo lontana.
«Le vecchie abitudini non muoiono mai.» borbotto, una giustificazione particolarmente inappropriata in una situazione del genere. Aver ricordato alla ragazza che mi piace il mio passato da puttaniere non è una buona mossa, ma non sapevo cosa dire e non sono affatto bravo con le parole. Sono il tipo che ruba le battute degli altri, che vive la propria vita come se fosse un copione, che fa dal proprio mondo un teatro in cui realtà e illusione si confondono. Forse è per questo che ho sempre desiderato diventare un attore di successo una volta adulto. Fingere di essere qualcuno che non sono è l’unica cosa che so fare.
Eppure la sua reazione mi scombussola ancora di più.
Non so se ridere o piangere come una femminuccia, ma di certo non mi aspettavo che… sorridesse, ecco.
Scuote la testa, coprendosi il viso con i capelli. Se glieli scostassi soltanto per poterla toccare, farà per allontanarmi? «Sei bravo.» dice, genuina sorpresa nei suoi occhi. «Sul serio.» aggiunge, per ribadire il concetto. La guardo senza capire, così spiega, con una mezza risata: «Ora finalmente è tutto chiaro: abbordi le ragazze con quel tuo sguardo da bravo ragazzo e poi ne approfitti, senza che loro se ne accorgano.» Ho la bocca asciutta. È ammirazione, quella che vedo riflessa nei suoi occhi? Cosa vuole che dica? «E anche se capiscono di essere cadute nella tua trappola, non riescono ad avercela con te… Incredibile!» esclama, voltando la testa verso di me come se si fosse improvvisamente accorta della mia presenza accanto a lei. «Onestamente non so se odiarti o meno.»
Sgrano gli occhi. O-Odiarmi? Mi odia? «Cosa?»
Non risponde. Apre la portiera ed esce, chiudendosela alle spalle. Poi mi fa cenno dall’esterno di abbassare il finestrino. Eseguo a bocca aperta, inebetito, incapace di proferire parola.
«Aspetta qui.» mormora. E così dicendo, attraversa di fretta la strada prima ancora che possa ribattere.
 
 
 
 
 
Se n’è andata.
Se n’è andata. Deve avere improvvisamente deciso di abbandonarmi, non c’è altra spiegazione. Forse si è finalmente resa conto di quanto idiota io possa essere, il che mi sorprende, perché avrebbe dovuto accorgersene prima.
Cazzo. Se sono già arrivato al punto dell’autocommiserazione, dovrei assolutamente preoccuparmi. Non è un buon segno, soprattutto quando si tratta di una ragazza come Michelle che sa dove e come colpirmi.
A questo punto, perciò, non posso che dichiararmi fottuto, con la “F” maiuscola.
Aspetta… mi guardo intorno e mi do mentalmente dello stupido.
Non c’è da meravigliarsi se ride sempre in mia presenza.
L’auto è sua quindi, a meno che non abbia deciso di regalarmela, deve necessariamente fare ritorno.
Perché nella mia mente sa tanto di supplica?
«Eccomi.» Sussulto, non l’ho sentita tornare. Ha tutti i capelli scompigliati, sembra abbia appena corso una maratona. La pelle bianca è particolarmente rosata sugli zigomi, segno dell’evidente bassa temperatura che si è abbattuta sulla città, e mai come adesso mi accorgo dell’inconfondibile presenza delle lentiggini color caffellatte che le punteggiano le guance e il naso. Sfrega le mani l’una contro l’altra per riscaldarsi, così, prima che me ne penta, le afferro i polsi, stringendoli in una morsa delicata al mio petto. Non so perché l’ho fatto. Per sentirla vicina, per farle sentire quanto il battito del mio cuore sia affannoso e impetuoso, perché possa capire quanto i sentimenti che io provo per lei siano sinceri.
La amo? Non lo so, ma ci sto arrivando.
Ha gli occhi socchiusi ma li apre subito per guardarmi. Mi scruta con attenzione, come se stesse rovistando, in ogni angolo della mia mente, alla ricerca di chissà che cosa. Inizialmente, non riesco a riconoscere l'espressione che si è dipinta sul suo volto, sembra assorta, intenta a leggere tra le pieghe dei miei lineamenti contratti. Poi schiude la bocca e dilata gli occhi.
Ed è allora che qualcosa le balugina nello sguardo.
Consapevolezza, la chiamerei, ma c'è anche qualcos'altro.
Dispiacere, preoccupazione e... comprensione.
Non compatimento, ma comprensione. Comprensione. Quanti significati ha questa parola per noi? Sapere che anche lei ha provato quel che ho provato io è come essere liberato dal pesante fardello che mi trascino dietro da tanto, troppo, tempo. Perché è inevitabile, non posso assolutamente smettere di pensare ad Adam. E lei mi capisce.
Sospira, una nuvola d’aria fredda le esce dalle labbra. Inspiro. La sua bocca sa di buono, menta e qualche altra spezia di cui non riesco ad afferrare i nomi.
«Parlami di lui.» dice e non c’è bisogno di spiegazioni. Il suo sguardo dice tutto. «Perché non riesci a… a… ad accettarlo, Kevin?» Non c’è accusa nella sua voce, solo… curiosità.
La abbraccio. Ho bisogno di sentirla, altrimenti non avrei il coraggio di tirar fuori le sofferenze che ho covato per tanti anni dentro di me.
Respiro a fondo. Non voglio parlare. Devo parlare.
«Era più grande di me.» comincio. «Papà lo adorava, mamma lo adorava… tutti gli volevano bene, non c’era una persona che lo detestasse. Ma per me era diverso: lui era… era… era me. Non una parte della mia anima, non una parte della mia essenza. Semplicemente tutto ciò che c’è di buono in quel che sono. Non ricordo molto della nostra infanzia, soltanto qualche breve istante che resterà per sempre indelebile nella mia memoria. Eppure, c’è una cosa che non ho mai dimenticato.» Mi fermo, riprendo fiato, poi controllo se lei mi stia ascoltando. È attentissima, ha gli occhi sbarrati ed è completamente concentrata sul suono della mia voce. Si appoggia al mio braccio, intrufola la testa nell’incavo tra la mia spalla e il collo. Così mi sprona a continuare: «Il momento… il momento in cui quel proiettile gli ha attraversato il petto. Eravamo poco più che bambini, entrambi ragazzini, non c’entravamo niente con quell’uomo… S-s-sarebbe potuto succedere a me, gli ero accanto…» La sua mano è sul mio viso, carezza ogni porzione disponibile di pelle scoperta, infilandosi tra le pieghe del colletto della mia camicia. È caldo il suo palmo, le sue dita, i suoi capelli, percepisco tutto di lei, tutto. E in qualche modo mi aiuta a non affogare nel mio dolore.
«Continua, Kev.» dice. «Ti prego
Sfrego nervosamente il naso contro il suo collo. Non voglio… non voglio che mi guardi, eppure desidero così tanto i suoi occhi su di me.
«L’ho sentito.» proseguo. «Il mio cuore si è spezzato in due. Rosso. Il suo sangue era il mio, il corpo che cadeva tra le braccia di quell’uomo…» I pugni chiusi, serrati attorno al volante. Potrei spezzarlo in due. E allora mi rendo conto che devo trovarlo. Vendetta, non posso permettergli di andarsene così, Adam non può essere morto in un modo tanto… violento. È… era solo un bambino.
Michelle spezza la tensione dei miei muscoli contratti, mi riporta alla realtà. Mi ricorda che non posso fermarmi proprio ora.
«Non l’ho mai più visto. Capisci? Non avrò mai la certezza che… che sia morto davvero.»
«E tu credi che sarebbe diverso? Che non proveresti lo stesso dolore, se non uno maggiore, se potessi sapere con convinzione ciò che gli è successo davvero?» Alza la testa per guardarmi dritto negli occhi.
«Mi metterei l’anima in pace.» No, non lo farei mai. «Andrei avanti.»
Scuote la testa, non so cosa sia quell’ombra che le oscura lo sguardo. La tristezza che traspare dai suoi lineamenti mi pesa come un macigno sullo stomaco. «Kev, no.» sussurra, la sua voce è un filo sottilissimo che incespica nel vuoto, stringendomi il braccio. «Non si dimentica mai.»
Due secondi. Eppure mi sono sembrati un’eternità.
Continuiamo a stringerci l’uno tra le braccia dell’altra, finché Michelle non si stacca d’un tratto da me. Provo quasi un dolore fisico, ma non ho il coraggio di chiederle perché l’abbia fatto.
Non c’è n’è bisogno.
«Quasi mi dimenticavo.» esala, ammorbidendo il tono di voce come… come se volesse scacciare via, almeno per un po’, i brutti ricordi che ci invadono la mente. Tira fuori una busta di plastica, non l’avevo vista prima.
«Cos’è?»
«Birra.» E, a conferma delle sue parole, ecco che mi porge una bottiglia di vetro.
«Budweiser.» leggo sull’etichetta. «Non è male, l’ho assaggiata qualche volta, anche se non è una delle mie preferi...»
Cazzo.
Me la sfila dalle mani con nonchalance e svita il tappo. Poi, butta giù più di un sorso, direttamente dalla bottiglia, avidamente, come se l’avesse fatto già in precedenza, più di una volta. Ho visto tante altre ragazze darci dentro in questo modo, eppure… da lei non me lo sarei mai aspettato.
«Sei sorpreso, vero?»
«Be’… sì, ecco.»
Sorride. «E perché mai?»
«Perché tu…»
«Io cosa?» Lo fa di proposito. Vuole prendermi in giro.
Mi gratto la nuca. Non mi sono mai sentito tanto imbarazzato in tutta la mia vita. «Sei diversa. Non pensavo bevessi.»
«Concedersi una birra, di tanto in tanto, non è bere.» mi corregge allungandomi la bottiglia. Le nostra dita si sfiorano ma è solo un attimo. «Mi aiuta… è l’unica cosa che possa farmi dimenticare.»
«Cosa?»
Scuote la testa, distendendo le gambe e poggiandole sul cruscotto.
Osservo i suoi movimenti, e lei fa un’osservazione che riesce a sviare l’attenzione da se stessa. Come se fosse possibile.
Soltanto più tardi, di ritorno verso casa, mi rendo conto dell’evidenza dei fatti.
Non ho più alcun segreto per lei; sa tutto di me, di Adam, di ciò che è successo quel giorno e che ha stravolto completamente la mia famiglia. Ma è ben poco quel che io so di Michelle Thompson. Nasconde qualcosa. E ho intenzione di scoprire di che cosa si tratta.
 
 
 
 
 
«Devi ammettere che non è andata tanto male.»
Michelle è in piedi, proprio di fronte a me, gli occhi bassi sul marciapiede e l’ombra di un sorriso sulle labbra carnose. L’istinto sarebbe quello di baciarla fino a farle dimenticare ogni cosa, ma in nome di quel briciolo di amor proprio che ancora conservo sui palmi delle mani capisco che non sarebbe affatto una buona idea se decidessi di metterla in pratica. E così, nel frattempo, mi ripeto che è inutile negare a me stesso l’evidenza: pur di trascorrere insieme a lei anche soltanto un secondo in più, sarei stato disposto perfino a fare mille chilometri a piedi fino a casa nonostante i suoi inutili tentativi di farmi desistere. Così ho parcheggiato la sua auto in perfetto silenzio, senza aver avuto il coraggio di spiccicare parola.
Ora siamo qui, le mani in tasca e almeno qualche buon metro a separarci, ci guardiamo ognuno la punta delle proprie scarpe come se stessimo osservando qualcosa ben più interessante del viso l’uno dell’altra.
Non so davvero come comportarmi. Non ho mai invitato una ragazza a uscire a parte lei, tanto meno ho dovuto affrontare una situazione simile; il ruolo del ragazzo che piace ai genitori non è proprio il mio forte. Piuttosto sono quello da cui tutti gli adulti dicono di stare alla larga.
E se il padre di Michelle ha un fucile nascosto da qualche parte? E se i suoi ci stessero spiando alla finestra?
Improvvisamente l’idea di non averla baciata come avrei voluto inizia a pesarmi nello stomaco. Sono combattuto: voglio farlo, disperatamente... ma non posso. Mi sento come se mi avessero infilato in gola in un sol colpo una tanica di benzina, e brucia, brucia in una maniera che non posso controllare. È un po’ quando, subito dopo avere ingerito un bel pezzo di peperoncino, pensi ingenuamente che un bel bicchier d’acqua possa calmare le fiamme che ti danzano sul palato.
«Non intendo esprimere il mio parere su questo.» Incrocia le braccia al petto e trova finalmente il coraggio di guardarmi negli occhi. La Michelle sfacciata e sicura di sé mi mancava, ma comincio subito a sentire la nostalgia di quella timida e riflessiva, quella che riesce sempre a scavare nei miei pensieri come se non avesse fatto altro per tutta la vita.
Sorrido. «Ah, no?» Faccio quattro passi avanti, fino a quando non mi ritrovo quasi completamente a contatto con il suo corpo. Mi sembra di riuscire perfino a sentire il battito del suo cuore in sottofondo, una sottospecie di rimbombo che fa tacere qualsiasi altro suono, ma non del tutto, perché il mio respiro affannoso si sovrappone al suo.
Una deliziosa fossetta si forma all’angolo destro della sua bocca. Ora i jeans cominciano a tirarmi sul serio al cavallo dei pantaloni e mai come in questo momento mi risulta difficile cercare di calmare l’eccitazione. Ancora una volta mi stupisco di quanto sia devastante l’effetto che suscita su di me, raggiunge ogni angolo della mia mente e ogni spigolo del mio corpo. E così tra i miei pensieri prende posto qualsiasi forma di contraddizione, che mi convince a desiderare una connessione ancor più profonda tra di noi e, nel frattempo, a farmi scalpitare e fremere e ribollire a tutti i costi per un «basta» che possa fermare tutto questo.
«No.» Osservo le sue labbra muoversi. L’eccitazione cresce, si dilata nell’aria come un profumo inebriante che mi impedisce di pensare lucidamente. «Altrimenti si perderebbe tutto il divertimento, non credi anche tu, Morgan?» Alza un sopracciglio, vuole provocarmi. Lo sento. Lo vedo riflesso nei suoi occhi.
Alla fine smetto semplicemente di controllarmi. E capisco quanto sia facile avvolgere le braccia attorno a lei, prenderla per i polsi e sospingerla verso di me alla ricerca di quel qualcosa che tanto spero di ottenere dalle sue labbra. È facile, maledettamente facile, naturale come respirare a pieni polmoni.
«Ti ho già detto che mi chiamo Kevin.» Calco ogni parola, stringo con forza le mani attorno ai suoi fianchi e faccio sempre più pressione contro il suo petto, il seno morbido a stretto contatto con il mio torace. Fremo, mai come ora tanto consapevole del fatto che a separare la nostra pelle ci siano soltanto strati e strati di vestiti che potrei benissimo togliere via in un sol colpo, se volessi.
Scuote la testa con vigore, puntando il suo sguardo intenso nel mio.
«Ne sei proprio sicuro? Io credo proprio di no.»
Sogghigno, e non so come sia capace di mascherare ciò che realmente provo e sento in questo momento. «Vediamo se riesco a convincerti del contrario…»
È… toccare la felicità con un dito e vederla dissolversi davanti ai tuoi occhi senza che tu possa fare niente per impedirlo. Tocco le sue labbra, un fuoco divampa nel mio petto, poi…
«Michelle!» Una voce stranamente familiare ci interrompe, paralizza entrambi sul posto come due statue di ghiaccio immerse in un freezer.
Lo riconosco appena lo vedo, eppure… sono sicuro di non averlo mai visto prima. È un ragazzo, alto quasi quanto me, longilineo, con le guance scrostate di sangue ormai secco, gli occhi castani allucinati, stralunati e la bocca aperta nello sforzo di riprendere fiato. Ha i vestiti stracciati, una ferita alla spalla contro cui preme sempre più debolmente le dita, e i capelli quasi del tutto rasati sulla testa. Ci guarda, indugia su di me soltanto per qualche secondo, fino a quando non sposta totalmente la propria attenzione sulla ragazza che trema accanto a me.
Volto piano gli occhi verso di lei, non ho mai visto tanto terrore nello sguardo di una sola persona. È immobilizzata, mi faccio inconsapevolmente più vicino, ho il timore che possa svenire da un momento all’altro…
Il tempo che s’è fermato per non so quanto riprende la sua inesorabile corsa prima ancor che io possa rendermene conto.
«Cole!» urla Michelle. Ha la paura in ogni fibra del suo essere. «Che diavolo è successo?»
Lui la fissa. Il suo cuore smette di battere in quel preciso istante come se fosse il mio.
Dice solo una parola.
«Aiutami.» Un soffio. Un rumore sordo che riecheggia nel silenzio.
Poi stramazza al suolo e perde definitamente i sensi.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note d'autore:
Ho ripubblicato questo capitolo a causa di una sottospecie di “cambiamento di programma”. Siccome c’è stata una variazione all’interno della trama che riguarda più specificatamente il rapporto che c’è tra Cole, Michelle, Kevin ed Alice, sono stata costretta ad inserire l’intermezzo che avete letto in questa revisione del sesto capitolo in quello che avevo postato quasi una settimana fa. Il motivo è semplice: farvelo leggere nel prossimo avrebbe allungato soltanto il brodo e impedito a me di inserire un ponte tra i primi capitoli che avete letto (più introduttivi, per la precisione) e quelli che aprono le porte alla vera fantascienza. Dal prossimo in poi, come avete avuto modo di vedere, entra veramente in scena il personaggio di Cole, che sarà determinante nella vicenda e che ricalcherà un ruolo di importantissimo rilievo. Detto questo, preparatevi: se siete sensibili a certi argomenti, abbandonate subito questa lettura. Sarà così intricata che non ne usciremo più. Un piccolo spoiler: se dovessi dare un titolo al settimo, sarebbe “L’evasione”. Di chi? Di che cosa? Kevin scoprirà qualcosa su Michelle? Io direi proprio di sì. I geni stanno arrivando.
Ultima cosa: ai lettori di Morbus e Medium, devo comunicarvi che le due storie appena citate verranno cancellate dal mio account. In questi giorni ho provato a scrivere sia l’una che l’altra, ma per due ragioni ben diverse non sono riuscita a continuare. Duo cerebra ha subito leggere variazioni che sono andate a complicare quella che è la trama di Morbus; in questo modo, andare avanti su quella strada avrebbe portato soltanto delle contraddizioni tra le due storie strettamente connesse. Per Medium, il perché è un altro, forse il più comune: l’ispirazione non è sparita, ma il filo logico della narrazione non mi sembra più logico come pensavo. Probabilmente la ripubblicherò quando riuscirò finalmente a metterne a punto la trama, non so. In compenso, prossimamente pubblicherò una distopica che, a quanto sembra, è molto più chiara nella mia mente di quanto lo fosse stata Morbus. Per Amores, la questione è un’altra: il secondo capitolo arriverà, lo prometto ^^ Ora vi lascio ^^
Vi lascio i link per contattarmi: EFP, Gruppo Facebook, Facebook, Pagina Fecebook e Ask.
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