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Autore: PapySanzo89    11/12/2013    11 recensioni
AU nella quale si nasce con due cuori, uno ha la funzione di cuore "normale", mentre l'altro serve per classificare i sentimenti.
Genere: Fluff, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Rivisitando una citazione di Mushu: Sono vivaaaaaaa.
Mi sembra un vita, davvero. Comunque faccio schifo nei saluti, quindi semplicemente “hey!” e bando alle ciance e ciance alle bande, passo ai ringraziamenti per questa storia (di cui i capitoli saranno due o al massimo tre, avverto subito per rassicurarmi. Sì, sì, a me…) che sono veramente lunghi, sono veramente tanti e sono veramente importanti. Sono tanti veramente insomma. XD
 
Ringraziamenti:
Ringrazio Hotaru_Tomoe per il betaggio, il sostegno, le correzioni anche durante le bozze (soprattutto su cose che già non mi convincevano e non sapevo come mettere giù e mi ha risollevato moralmente e mentalmente (?!?))e per l’incorraggiamento, ringrazio Macaron, anche lei per il sostegno, per i suoi “testona”, per i suoi “è bella!” per i suoi “il Chelsea puzza!” e per essere riuscita a farmi cambiare (per sfinimento e amore. XD) un pezzo che era assolutamente sbagliato Nat, non puoi proprio metterlo così. Ringrazio nightswimming (che per me resterà sempre Leni, soprattutto per il fatto che ‘sto nome proprio non lo so pronunciare!) per la traduzione del titolo (il mio inglese fa davvero schifo, nel caso non si fosse notato XD), per i suoi “ma dai continuala che ce la puoi fare!” e insomma, il primo capitolo è qui. Ringrazio n o r a (ex RossLK)per le sue continue domande su “come sei messa?” “quando posti qualcosa?” “dai che manchi!” che mi ha dato forza in un periodo dove io guardavo Word e Word guardava me con astio u__u e ringrazio anche Naripolpetta (o nacchan, come dir volete) per lo stesso motivo, perché ho letto una sua storia e mi è tornata voglia di scrivere. XD
E io l’avevo detto che i ringraziamenti erano enormi. XD
 
 
 
RAITING: Verde (probabile cambiamento)
GENERE: H/C, Fluff, Sentimentale, un po’ WTF
TIPO DI COPPIA: Slash
PERSONAGGI: Sherlock Holmes, John Watson, Mycroft Holmes, Gregory Lestrade, insomma, quasi tutti dai.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
A questo mondo, si nasce con due cuori. Il primo si può anche definire il cuore normale, quello che serve a svolgere funzioni primarie quali il trasporto dei globuli rossi che garantiscono la riossigenazione dei tessuti e degli organi, che fa arrivare il sangue al cervello, permettendo all’essere umano di muoversi, respirare, vivere.
Il secondo, invece, è un’appendice dello stesso, più piccola, quasi un bozzo che rimane nascosto in disparte e indisturbato, vicino a quello normale. E la sua funzione è quella di valutare i sentimenti. Provarli, classificarli, viverli.
Il giorno della nascita, la dimensione del secondo cuore è di una grandezza standard (circa la metà del primo cuore del neonato) e sarà semplicemente la Vita che, durante il suo svolgimento, porterà a modificare la sua struttura e la sua misura.
Tutto ciò dipende da come si verrà trattati da pargoli, poi da bambini, da adolescenti e, infine, da adulti.
Il secondo cuore è una variabile, uno schema che può cambiare da un giorno all’altro, un’incognita. Può diventare più grande e rinforzarsi già nei primi mesi di vita, oppure il contrario, rimpicciolirsi e rinsecchirsi: dipenderà dai genitori e dalla cura che questi avranno verso la loro prole. Se un genitore amerà il proprio figlio, il cuore diventerà più grande e il bambino sarà meglio disposto a diventare un individuo socievole, ben voluto e rispettoso, al contrario, se un genitore non compirà il proprio dovere, il cuore diventerà più piccolo, e il bambino si rinchiuderà più in sé stesso, facendo difficoltà nel relazionarsi ad altre persone e incapace a gestire i sentimenti che, più in là nel tempo, proverà.
La funzione del secondo cuore è anche quella di riscoprire e riconoscere la propria anima gemella.
È comunque una cosa che avviene nel tempo e non è immediata.
I cuori più piccoli inizieranno ad avere lo stesso battito: quando uno dei due individui proverà sentimenti molto forti (rabbia, paura, amore, ansia) l’altro se ne potrà accorgere immediatamente, provando la medesima sensazione, sentendosi altrettanto euforico o triste o rabbioso.
Il secondo cuore, comunque, può avvizzire anche col ritrovamento dell’anima gemella.
I motivi sono vari, uno dei quali può essere la morte di uno della coppia. Il cuore avvizzisce subito, non lasciando così provare all’altro il dolore della perdita, rendendolo direttamente privo di sentimenti, rendendo questi ultimi sconosciuti, ininfluenti, anomali. A meno che non ci sia un motivo più grande ad impedire la ripercussione.
In un secondo caso potrebbe trattarsi di semplice tradimento. Come già detto, sarà la Vita a far crescere un individuo, e ciò vuol dire che se un individuo è incline a non essere fedele all’altro, non smetterà solo perché ha trovato la sua Persona. E, essendo il secondo cuore in grado di provare le stesse emozioni dell’altro, non ci vorrà molto perché la persona tradita lo scopra. E il cuore avvizzirà pian piano, dolorosamente e senza scampo.
 
Qualcuno un giorno dirà che i sentimenti non sono un vantaggio.
 
°oOo°
 
Mycroft Holmes nacque in un freddo giorno di inizio dicembre, rendendo i genitori (che avevano avuto difficoltà ad avere un figlio) estremamente felici e commossi. Un po’ più in carne della media dei bambini, godeva di ottima salute ed era estremamente buono e silenzioso.
Se quel silenzio aveva reso i coniugi Holmes, all’inizio, molto sereni e speranzosi per un figlio tranquillo, dopo diversi mesi aveva iniziato a dare loro preoccupazione.
Mycroft non si lamentava mai, raramente chiedeva da mangiare e il suo peso, inizialmente abbondante, aveva iniziato a scemare presto.
I genitori, dopo un primo consulto con il medico di famiglia, lo portarono nello stesso ospedale in cui la donna aveva partorito, provando ad avere delucidazioni sul comportamento anomalo del figlio, preoccupati di qualche disfunzione o malattia.
Grazie ai soldi che la famiglia Holmes versava regolarmente (e generosamente) ogni anno in quella struttura, non ci fu bisogno di aspettare molto per fare un esame ed avere la relativa risposta.
Mycroft Holmes aveva un secondo cuore molto più piccolo, rispetto ai livelli standard.
 
°oOo°
 
Mycroft cresce studiando a casa, poltrendo per grande parte del tempo (troppo intelligente per sprecare tempo sui libri), e uscendo poco. Non ha amici e non ne vuole. Non ne vede l’utilità e non ne vede il profitto che potrebbe trarne dall’averne.
Mycroft Holmes ha solo sette anni quando si sente annoiato dal mondo. Ha sette anni quando il suo secondo cuore non ha ancora deciso di crescere (perché lui non vuole farlo crescere) e la cosa non è normale perché dovrebbe essere almeno del doppio di quello che è al momento. I suoi genitori l’hanno allevato con tutto l’amore che potevano dargli (tra impegni e relazioni e interviste e viaggi imprevisti fuori città lasciandolo solo con la tata) ma ciò non è bastato a Mycroft.
Ora, come se non bastasse, i suoi genitori hanno deciso di provare a dargli un fratellino. Per come la vede lui è: uno; un enorme spreco di tempo. E due; una specie di tentativo per provare ad avere un bambino meno diverso dal resto del mondo.
Spera davvero che il bambino non nasca o, nel caso in cui la cosa accadesse, che non nasca con una disfunzione uguale alla sua, lo spera davvero, con tutto il suo piccolo cuore.
Per quanto i sentimenti non siano importanti, essere guardati dagli altri con pietà lo rende indisposto verso il genere umano. Prima o poi sarebbe cresciuto e avrebbe mostrato al mondo cosa un bambino con un cuore piccolo era in grado di fare.
I sentimenti non sono un vantaggio.
 
°oOo°
 
Mycroft ha compiuto da poco più di un mese nove anni, quando Sherlock viene al mondo.
La madre non prova felicità o euforia come quando era nato lui. La madre non prova niente.
Siger -il marito della donna- è morto in un incidente d’auto solo due settimane prima e la madre si è spenta come la fiamma di una candela quando soffia il vento.
Mycroft le è accanto e le tiene la mano. Prova dolore, in quel momento. Non importa che il suo secondo cuore sia piccolo. Quella è sua madre e il dolore di lei è troppo grande per essere contenuto in quella stanza.
E Sherlock non piange più.
Ha pianto per nemmeno tre minuti, poi ha emesso un singolo singulto e ha smesso. Mycroft sa che non è normale. Mycroft sa che addirittura lui ha pianto per più tempo e ogni tanto si è perfino lamentato.
Quando il dottore entra nella stanza, quello che da un po’ di tempo a quella parte è diventato l’Holmes di casa lo guarda, tanto sua madre non potrebbe chiedere o rispondere in alcun modo. Semplicemente perché non avrebbe più voglia di farlo.
Mycroft si sente abbandonato da quel gesto. Si chiede, in un piccolo angolo del suo cervello, perché la madre lo –anzi, ormai- li abbia abbandonati a quel modo. Non erano forse un motivo abbastanza grande per continuare ad almeno tentare di vivere? Sherlock (il nuovo, piccolo Sherlock) non meritava almeno un po’ di considerazione?
Mycroft non piange per il semplice fatto che non ne è capace. Gli occhi gli si fanno lucidi ma niente sfugge al suo controllo.
Si rende improvvisamente conto di essere rimasto a fissare il dottore e allora si decide a porre la sua domanda.
«Mio fratello?» e la sua voce è troppo piccola, troppo giovane, troppo pigolante, a confronto di quella dell’altro uomo. Sa che non è pronto per rimanere solo in casa. Sa che non è pronto per occuparsi di una madre praticamente morta e di un fratellino così piccolo. Semplicemente non lo vuole fare.
Il dottore sospira e guarda la donna, scuotendo leggermente la testa, tornando a guardare il bambino davanti a sé.
L’uomo si piega sulle ginocchia e va ad incontrare lo sguardo del giovane.
«È meglio se ci sediamo un attimo a parlare, d’accordo…?»
«Mycroft.» suggerisce prontamente. Il medico sorride.
«…Mycroft.» aggiunge allora «Sono il dottor Stamford.» gli porge la mano e quella di Mycroft va a stringerla senza pensarci. È troppo grande in confronto alla sua.
Mycroft si siede e aspetta diligentemente che l’altro uomo faccia lo stesso.
«Quanti anni hai, Mycroft?» chiede Stamford appena si siede.
«Nove.»
Il dottore annuisce.
«Sei grande per la tua età. Sai, stiamo aspettando che tua zia arrivi, dovrebbe essere qui a momenti.»
Holmes annuisce ma lo scruta per diversi secondi.
«Non mi ha risposto riguardo a mio fratello.» gli fa notare, e Stamford annuisce piano.
«Tuo fratello sta bene.»
Non ha importanza che Mycroft abbia solo nove anni. Riconosce le bugie con uno sguardo. Il dottore si tocca costantemente l’orecchio, tende a non guardarlo negli occhi mentre parla e sembra recitare un copione prefissato.
Decide allora di non parlare più con quella persona. Aspetterà che arrivi la zia (se la sorella di papà o una delle due di mamma, non gli è dato sapere) e attenderà la verità.
 
Si è fatta sera quando zia Jane (una delle sorelle della madre, infine) gli si siede accanto, vicino al camino, e lo trae a sé, abbracciandolo stretto.
Mycroft sa che qualcosa non va (Mycroft sa veramente troppe cose alla sua età) ed è stanco delle situazioni che non vanno bene ultimamente.
È tra le lacrime della zia che si sente dire che il secondo cuore del fratello è atrofizzato e che, ovviamente, si tratta del primo caso al mondo e nessuno sa proprio cosa aspettarsi ora.
Mycroft sospira, butta fuori tutta l’aria che ha in corpo, e si dice che dovrà proteggere il fratello minore da se stesso. Perché le persone senza cuore non fanno mai una bella fine.
 
°oOo°
 
John Watson nasce in un tiepido pomeriggio di fine aprile, ha pochi capelli biondi in testa e piange con tutto il fiato che ha in corpo.
La sorellina Harriet (cinque anni e mezzo) già non lo sopporta.
Ma la mamma, dopo che l’ha calmato ed è riuscita ad allattarlo, fa salire la bambina sul letto d’ospedale e la fa sedere accanto a sé. Poco dopo, le avvicina il piccolo John fino a far scontrare la testolina di lui contro il petto della figlia: Harriet guarda il frugoletto e non capisce. Non ha mai voluto un fratello (ben che meno una sorella), non vuole dividere le sue cose con qualcuno di così piccolo e non vuole che la mamma stia male (perché adesso sembra veramente tanto stanca) a causa sua.
Il papà è al lavoro e non riuscirà a staccare per almeno altre due ore e poco importa che la moglie abbia partorito: o resta lì o lo licenzieranno. Harry non ha ancora idea di cosa voglia dire “essere licenziati” ma sa che è una cosa brutta e che il papà non può permettersi una cosa simile.
Harriet allunga una mano e sfiora la fronte del fratellino, il quale fa una specie di smorfia, poi apre la bocca (che Harry trova gigantesca) in uno sbadiglio, continuando a tenere gli occhi chiusi ermeticamente.
La bambina si ritrova a sorridere. È proprio strano questo bambino.
«Siamo fortunate, Harriet, lo sai?» la madre le parla e allora Harry solleva lo sguardo ad incontrare quello della donna: è luminoso, felice. Poco importa che abbia le occhiaie, e si veda dall’espressione sciupata che è veramente stanca. Ma forse il fratellino non ha davvero fatto così male alla mamma.
La bimba si passa la lingua fra le labbra e poi la morde piano.
«Perché?» chiede curiosa e sua madre sorride.
«Perché il dottore ha detto che tuo fratello ha un cuore grande. Tanto grande.»
Gli occhi della piccola Watson si ingrandiscono ulteriormente, facendo vedere il loro bel colore blu mare. «Più del tuo mamma?»
La donna sorride. «Più del mio e di quello di tuo padre messi insieme.»
Ovviamente la signora Watson parla per metafore perché, piccolo com’è, John non può avere un secondo cuore delle dimensioni di quelle sue e di suo marito messe insieme ma, per proporzioni, è così. E lei è davvero contenta che il figlio abbia un cuore così grande.
Harry guarda il fratellino e gli sfiora di nuovo la testolina, toccandogli i capelli fini. Non sa cosa ribattere alle parole della madre ma guarda semplicemente il petto del piccolo John alzarsi e abbassarsi. Dev’essere una bella cosa, allora.
«Ma non per questo dovrai approfittarti di lui, capito Harriet? Sei sempre la sorella maggiore.»
La bambina torna a guardarla e fa cenno di sì con la testa.
Non sa cosa significhi avere un cuore così grande, né perché la mamma le dice che non dovrà approfittarsi di lui (ha forse qualcosa che non va?), ma trova improvvisamente meno fastidiosa l’intrusione di quel frugoletto. Allora schiaccia meglio i cuscini del letto con tutte le sue forze e si distende per bene, appoggiando la guancia sul braccio morbido della madre, e osserva il fratello.
Quando, nel sonno, il piccolo John emette un nuovo versetto, Harry sorride.
 
°oOo°
 
John ha un cuore grande. John ha davvero un cuore grande che non si fa scalfire da niente e può sopportare molto più di quanto un bambino della sua età dovrebbe. Gli insulti non lo scalfiscono, i ragazzi più grandi che lo sbeffeggiano perché si veste sempre allo stesso modo -con quei maglioni orrendi- non lo infastidiscono, sentirsi dare del poveraccio gli fa semplicemente alzare le spalle e girare dall’altra parte per andare avanti per la sua strada.
Sua madre ha perso il lavoro e così il papà ha dovuto iniziare a farne due contemporaneamente, cercando di mantenere quattro persone con due misere paghe. E John non può veramente sentirsi offeso o deriso da dei bambini che non hanno la minima idea di quanto suo padre cerchi di fare per la famiglia. A John non interessa quello che gli altri pensano di lui o della sorella.
A John, oggi, interessa un’unica cosa: tornare a casa e festeggiare il suo compleanno col papà che lo porterà a vedere la sua squadra del cuore (il Chelsea), dopo mesi di risparmi.
La campanella dell’ultima ora suona, così John mette a posto i libri nello zaino che un tempo era di sua sorella (fortunatamente un anonimo zaino arancione) e aspetta che la maestra faccia mettere tutti i suoi compagni in fila, così da poter uscire tranquilli. Arrivati al portone, le maestre attendono che i genitori vengano a prendersi i figli e John si sporge sulle punte dei piedi per vedere se sua sorella abbia già finito o debba aspettarla lì, ma la fortuna sembra essere dalla sua, perché Harry –i capelli biondi legati in una treccia- alza la mano per attirare la sua attenzione e lo saluta.
John sorride e fa un passo avanti, ricordandosi poi di dover avvisare la maestra, allora si ferma e la chiama, dicendole di aver trovato Harry. La donna annuisce e lo lascia andare.
Harry si avvicina e lo prende per mano, iniziando a percorrere la strada verso casa con passo lento, così da permettere a John di starle dietro. John la guarda e sorride felice «Oggi vado a vedere la partita.» le dice camminando sull’orlo del marciapiede, mettendo un piede davanti all’altro sulle mattonelle scure. La sorella gli sorride e poi fa una smorfia «Schifo.» si limita a rispondere e John le tira la mano, facendo quasi cadere entrambi giù dal marciapiede. Harry lo guarda e scoppia a ridere piano «Sei proprio scemo.» e detto questo, iniziano a prendersi a pizzicotti e a tirarsi piccoli colpetti innocui fino ad arrivare a casa.
 
Il padre non è ancora tornato, ma John pensa che non sia un problema e sale le scale di corsa per cambiarsi, per mettersi quel cappello che gli va ancora troppo grande e stringere tra le mani la maglietta (decisamente troppo grande anche quella) della sua squadra del cuore, sedendosi sul divano e muovendo le gambe, aspettando impaziente il ritorno di suo papà. Harry, nel frattempo, si mette ai fornelli (solo per riscaldare quello che la mamma ha già preparato) e gli urla di raggiungerla per darle una mano. John e’ troppo emozionato per stare effettivamente fermo (le gambe non smettono di agitarsi a penzoloni), così si alza e la raggiunge, poggiando la maglietta su una sedia e passandole i piatti.
«Dov’è la mamma oggi, secondo te?» chiede curioso, Harry alza le spalle alla domanda e mescola bene il sugo con la pasta. «Sarà uscita per cercare un altro lavoro.»
John annuisce e pensa che nessuno gli ha ancora fatto gli auguri. A scuola non c’è da meravigliarsene (nemmeno se li aspettava), ma sperava almeno in un bacio o in un bigliettino (che avrebbe letto con un po’ di difficoltà o se lo sarebbe fatto leggere da Harry) quella mattina. Alla fine Harriet prende entrambi i piatti e si dirige al tavolo, John la segue interrompendo il flusso dei suoi pensieri e, augurandole buon appetito, inizia a mangiare.
 
La partita è iniziata da mezzora, il Chelsea sta vincendo, e John ha appoggiato il cappellino sul posto accanto a sé sul divano, lasciando la maglia in cucina adagiata comodamente sulla sedia.
Il papà non è tornato a casa, e lui non è andato alla partita.
Ha acceso la radio per ascoltare i risultati e si è appoggiato al tavolino con le braccia,  accostandovi poi sopra la testa.
Si sente triste, John. Si sente immensamente triste. Purtroppo, per come è fatto il suo cuore, si sente molto più triste di quanto dovrebbe.
Finita la partita, sotto le urla vittoriose dei tifosi, spegne la radio e si avvia in camera, lasciando il cappello dove sta e trascinando a terra la maglietta non curante di nulla.
Ogni tanto pensa di essere un bambino cattivo, per desiderare cose che non può avere, e sentirsi anche amareggiato quando non le ha.
 
Quella sera è sceso a cena come sempre e ha sorriso al papà che finalmente è tornato dal doppio turno di lavoro.
Il padre si china verso John e gli chiede scusa. Scusa non perché si è dimenticato della partita (non avrebbe mai potuto) ma perché il capo non lo ha lasciato andare e perché quei soldi servono loro per non tirare la cinghia a fine mese.
John annuisce e sorride come sempre. Non è giusto far sentire in colpa il suo papà solo perché ha fatto il suo dovere. Quindi sorride e mangia fingendo indifferenza. Guarda i cartoni animati per una mezzoretta e poi si ritira in camera, guardato a vista dalla sorella.
Quando tocca il letto, gli sembra che tutto sia un po’ più freddo rispetto al solito, che le coperte che lo accolgono come sempre siano ghiacciate, così si alza nuovamente, va a prendere la maglietta e se la stringe al petto. Un paio di lacrime gli affiorano agli occhi, ma lui un po’ le ricaccia indietro e un po’ le asciuga sulla maglietta.
Non sente i passi fuori dalla porta e non sente quest’ultima aprirsi con un lieve scricchiolio.
Si accorge della presenza di qualcuno solo quando Harry gli salta addosso, stringendolo in un goffo abbraccio, e gli da un bacio enorme sulla guancia.
John si volta e si asciuga per bene gli occhi con la manica del pigiama (i bambini non piangono) e la sorella, con i genitori dietro ancora fermi sull’uscio, tira fuori un pacchettino regalo e prende dal comodino la piccola torta con una candelina che aveva appoggiato prima di saltargli addosso.
«Tanti auguri Johnny.» gli augura mentre lui scarta un pacchetto quadrato con le sopracciglia aggrottate e il padre gli si avvicina per sedersi accanto a lui, sul letto. La madre si accosta e gli accarezza i capelli biondi, baciandogli la testa e facendogli gli auguri prima che sia troppo agitato per fare o dire alcun ché.
Quando John finisce di scartare il pacchetto rimane per un attimo  a fissare quello che sembra un normalissimo pallone da calcio ma che in realtà già sa (anche se non riesce a leggere quella strana calligrafia) che è sicuramente qualcosa di più.
«John William Hollins.» annuncia fiero il padre. «Miglior giocatore dell’anno per due anni consecutivi, e il primo è stato quello in cui tu sei nato.» la bocca di John si spalanca e continua a fissare il pallone ufficiale della sua squadra con la firma di uno dei suoi giocatori preferiti.
Le lacrime si sono definitivamente fermate e lui non riesce proprio a smettere di rigirarsi quel pallone tra le mani. La sorella lo guarda e fa un sorriso di sbieco. «Pensavi ce ne fossimo dimenticati. Sei proprio stupido!» come premio per la sua loquacità, Harry si becca uno schiaffetto leggero sulla testa dalla madre.
John sorride, e questa volta sorride veramente, mentre continua a guardare il suo regalo e Harry insiste perché si mangi la torta perché lei ha fame e i genitori si sorridono amorevoli.
Alla fine John sorride così tanto che ha paura gli farà male la faccia il giorno dopo. Ma un peso enorme gli si leva dal petto, lasciandolo solo estremamente contento. Aveva paura di essere dimenticato.
 
°oOo°
 
È una rara giornata di sole quella che accompagna John all’aeroporto, pronto per partire ed affrontare la guerra. Ha salutato chi doveva salutare, ha fatto promesse che non è sicuro riuscirà mai a mantenere, ha lasciato indietro persone che ama e persone a cui vuole bene.
Ha lasciato tutto, perché in realtà non si sentiva soddisfatto di niente. Sente dentro di sé di avere cose da vedere, persone da incontrare, qualcosa di più grande da fare. Forse la guerra non è il luogo giusto, forse il destino non voleva dirgli questo, ma chissà perché quando parte, è quasi sicuro di aver preso la decisione migliore della sua vita.
 
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Come sarebbe bello potersi dire,
che noi ci amiamo tanto, ma tanto da morire,
e che qualunque cosa accada,
noi ci vediamo a casa.
 
-Dolcenera
 
 
 
 
Inghilterra, Londra 2012 (oggi).
 
John sta spostando gli scatoloni da una stanza all’altra, nella speranza di ricavare il più spazio possibile dal piccolo monolocale. Non è decisamente facile disporre un’intera vita in un’unica stanza, ma fortunatamente lui non è mai stato uno che ammucchia delle cose inutili e, anzi, con le abitudine acquisite nell’esercito è diventato piuttosto bravo a sbarazzarsi delle cose superflue. Così, dovutosi trasferire da un’accogliente casetta a schiera (con cane annesso), a quel piccolo buco che non si poteva nemmeno definire abitazione, non ha avuto nessun tipo di difficoltà a lasciarsi alle spalle le miriadi di foto, i vestiti vecchi e la collezione di cd. Al contrario però non è proprio riuscito ad abbandonare i suoi amati libri che, in più di una volta, lo hanno aiutato nelle peggiori occasioni. E anche i ricordi, quelli sono stati davvero difficili da lasciare indietro e forse non c’è ancora riuscito. Per non dire che non c’è riuscito sicuramente.
Ha maledettamente bisogno di farsi un bagno, adesso.
È stanco oltre ogni limite a lui consentito e tutto quello che vuole fare è immergersi nell’acqua bollente fino ad annullare totalmente i suoi sensi. Ha addosso una sensazione d’intorpidimento nelle ossa, come se avesse l’influenza, ha la psiche totalmente sconvolta e la voglia di fare sotto le scarpe. Ha davvero bisogno di una vasca riempita fino all’orlo d’acqua calda: vuole sentire le ossa cominciare a scaldarsi, i capelli corti inumidirsi là del collo finché non deciderà d’immergersi completamente, sentirsi per una volta leggero dopo anni di pesantezza. Ma quel piccolo buco ha a disposizione solo una misera doccia senza nemmeno la tenda per non lasciar schizzare fuori il getto (è un acquisto da dover assolutamente fare) e così dovrà accontentarsi. 
Fa per andare in bagno ma un suono cattura la sua attenzione: è scattato l’allarme antincendio. Sospirando prende solo il portafoglio con i pochi contanti che ha e la carta d’identità.
Si dirige alla porta.
Ci mancava pure questa.
 
Sherlock sta camminando a passo svelto sul marciapiede mentre digita velocemente un messaggio all’ispettore della polizia. Non ha tempo per aspettare loro e non ha nessuna intenzione di passare per un incompetente davanti a un tipo subdolo come può esserlo il caro colonnello che sicuramente lo sta già osservando, nascosto da qualche parte, come il topo qual è. Quindi, per logica, l’unica cosa che può fare è entrare nel condominio, far uscire (se possibile) tutti, disinnescare la bomba, ricambiare i ringraziamenti da parte della polizia con degli insulti per l’usuale incompetenza e andarsene, portando a termine l’infruttuosa giornata tornandosene a casa, cambiarsi e uscire nuovamente.
Sherlock mette via meccanicamente il telefono nella tasca interna della giacca e accelera il passo, disinteressandosi totalmente delle persone contro cui va a scontrarsi. D’altro canto, a differenza loro, lui ha qualcosa di davvero interessante da portare a termine.
 
Arrivato davanti l’edificio non ha nessuna difficoltà ad entrare. Suona un campanello a caso, s’inventa una scusa su due piedi (qualcosa  che ha a che fare con la disinfestazione) e il portone magicamente si apre. Sorride a mezza bocca, totalmente annoiato dalla cosa, ed entra, soffermandosi momentaneamente a squadrare l’atrio, poi si avvicina all’allarme antincendio e, dopo aver rotto il vetro, abbassa la leva, facendo suonare la sirena in tutto il condominio, osservando disinteressato le varie porte aprirsi e la gente correre fuori alla rinfusa.
Si sposta dall’uscita per non rimanere investito dalla folla e avanza nel corridoio, trovando appesa alla parete la piantina del palazzo con le varie uscite di sicurezza. Sorride nuovamente nel trovare con facilità la porta che conduce alla cantina e s’incammina in quella direzione sentendo il portone alle sue spalle chiudersi dietro all’ultima persona uscita da lì.
Perfetto.
Fa un passo in avanti, sicuro come sempre di sé, quando vede un’altra porta aprirsi e, con tutta la calma del mondo, un uomo biondo uscire sbuffando.
 
John pensa a dove andare nel lasso di tempo in cui i vigili impiegheranno ad arrivare, vedere che non è successo niente o che –al massimo- qualcuno ha fumato troppo vicino al sensore dell’allarme, ed andarsene. Con i pochi spicci che si ritrova pensa che magari potrebbe andare da Sarah e chiederle un altro turno in ambulatorio, giusto per arrivare a campare bene fino a fine mese ma, alla fine, solleva lo sguardo ed incontra quello di un uomo dal cappotto ed i ricci neri e lo sguardo tagliente, che se ne resta immobile in mezzo al corridoio a guardarlo, posto nella direzione decisamente sbagliata per uscirsene dallo stabilimento.
John non sa bene cosa dire, così borbotta un semplice “L’uscita è alle sue spalle, è meglio se si affretta”.
L’uomo però continua ad addentrarsi senza dargli ascolto.
«Sono qui per visionare la situazione. Se ora volesse cortesemente uscire potrei finire il mio lavoro.»
John alza un sopracciglio e lo guarda. Non è stupido John. Non lo è mai stato.
Quindi vedere un uomo in completo (a giudicare dai pantaloni che sbucano dal cappotto) e scarpe e soprabito che probabilmente costano più di due mesi del suo stipendio, gli fa capire che l’elegante signore davanti a sé lo sta vagamente prendendo per i fondelli. E, soprattutto, che non è un supervisore di assolutamente nulla.
L’uomo da una veloce occhiata al suo orologio da polso e torna a camminare, non curandosi più della presenza di John, e girando lungo il corridoio, iniziando poi a correre.
John gli va dietro senza farsi domande.
 
Quando Sherlock mette piede in cantina inizia a scansionare ogni centimetro cubo del posto, lasciato trascurato e in balia di ragni, scarafaggi e altre bestie amanti del buio e dell’umido. Le varie stanze (se così si possono ancora chiamare dei pezzi di legno fissati con dei semplici chiodi tra loro) sono ricolme di robaccia, che va da vecchi mobili impolverati, a sacchi dell’immondizia dal contenuto alquanto dubbio, giocattoli e via dicendo. Non ci vuole molto a trovare l’unica di quelle piccole celle con il lucchetto forzato, e ci vuole ancora meno per percorrere il piccolo corridoio ed entrarci.
Un rumore però lo fa fermare e voltare per incontrare -di nuovo- lo sconosciuto di prima che, evidentemente, lo ha seguito.
«Cosa ci fa lei qui?» gli domanda, continuando comunque a camminare verso il suo nuovo divertimento, che lo sta aspettando esattamente nel centro della stanza.
«Chi è lei?» chiede invece quest’ultimo, senza rispondere alla domanda di Sherlock. Sherlock odia quando non gli si risponde ad un quesito, quindi evita di soddisfare la curiosità dell’altro e si addentra nella stanza, trovandovi dentro proprio ciò che sperava.
«Bene...» inspira l’aria ammuffita del posto «Vediamo che sorpresa ci ha preparato il colonnello.»
Si accuccia di fronte all’oggetto della sua curiosità e lo scruta attentamente. Non ci vuole una laurea in ingegneria per capire che quella è...
«Ma quella è una bomba!»
Sherlock alza gli occhi al cielo. Detesta le ovvietà. 
«Quale acume, signor...?» volta un attimo il viso per incontrare l’uomo alle sue spalle e ritorna subito a ciò che ha davanti.
«John. Mi chiamo John Watson.»
Sherlock annuisce distrattamente mentre tira fuori dalla tasca interna del cappotto un piccolo kit e, prendendo un cacciavite a stella, inizia a togliere le viti con cautela.
«Bene, signor John, siccome ha capito la situazione mi sembra proprio il caso che lei esca di qui.»
John invece sembra di un altro avviso, perché gli si avvicina e si china ad osservare ciò che ha davanti e quello che Sherlock sta facendo.
Stupendo, pensa il detective, ci mancava pure la persona curiosa e sprezzante del pericolo con istinti suicidi.
«È abbastanza rudimentale come ordigno. Sembra uno di quelli fatti in casa con composti semplici da preparare, un solo movimento sbagliato e rischiamo di saltare in aria, inoltre il timer indica che abbiamo all’incirca quindici minuti prima di...»
«Si fermi un attimo: abbiamo?» Sherlock, per la prima volta da quando ha incontrato John, incrocia il suo sguardo. Watson lo fissa di rimando con calma piatta, come se la cosa fosse una passeggiata, qualcosa che capita ogni giorno, qualcosa di ordinario.
«Ooh... Capisco.» dice infine il consulente, dopo avergli dato veramente un’occhiata approfondita.
«Afghanistan o Iraq?» chiede come se fosse la conclusione più logica del mondo, tornando poi al suo lavoro.
Il soldato resta un attimo spiazzato, ma risponde subito.
«Glielo dirò quando saremo usciti vivi da qui.»
E, detto ciò, gira intorno all’ordigno e chiede se per caso ha già avvisato gli artificieri e la polizia. Sherlock inarca un sopracciglio e si chiede se per caso quell’uomo sia pazzo o meno. Perché potrebbe rispondere di sì ad entrambe le domande e mentire con entrambe le risposte, ma all’uomo davanti a sé non sembra importare particolarmente. Quindi si ritrova a sputare fuori un secco chiedendo poi silenzio e immobilità. John fa esattamente quello che gli è stato detto.
Sherlock finalmente scoperchia la bomba e fa un mezzo sorriso.
«Pare avesse ragione, dottore...» John alza entrambe le sopracciglia e Sherlock sorride maggiormente per essere riuscito a suscitare tanta sorpresa da una deduzione tanto semplice. «Una parte di idrazina anidra miscelata con due parti di nitrato di ammonio, estremamente rudimentale e con alta probabilità di esplodere con dei semplici urti. Beh l’unica cosa da fare è...»
«Andarsene.» conclude il medico per lui.
Sherlock ride leggermente. «Vada pure dottore, non ce’è motivo di rimanere qui in due.» alza gli occhi per incontrare quelli dell’altro e la sua espressione è mortalmente seria. Non lascerà quel posto e ciò che lo ha condotto lì solo per la paura irrazionale di non riuscire ad andarsene da quel posto vivo. Questa è una sfida. E lui l’ha accettata.
 
John osserva l’uomo davanti a sé e ne scruta gli occhi freddi come il ghiaccio. Non c’è titubanza, non c’è tensione. In realtà, sinteticamente, non c’è niente. Ma che sia dannato se lascerà un civile -perché di altri non si può trattare, nessuno sarebbe così stupido da rimanere là sotto senza equipaggiamento- in quel posto, a morire per un motivo non identificato. Controllando il timer nota che mancano sì e no altri dieci minuti e che, con ogni probabilità, non basterebbero per trascinare di forza (o di peso, dipende tutto da ciò che sarà obbligato a fare) la persona fuori di lì, salendo le scale e uscendo dal portone principale. Si guarda intorno cercando una qualsiasi finestra abbastanza grande da poter far passare un uomo adulto o una via di fuga alternativa che contempli possibilmente una porta e una serratura lasciata casualmente aperta. Ovviamente, sa benissimo che gli conviene di più sperare nella prima.
Esce dalla stanza e sembra che l’altro non se ne accorga nemmeno, troppo preso a parlare a bassa voce da solo, allora ne approfitta e inizia a cercare un indizio, qualcosa che gli faccia capire se sta facendo la cosa giusta. Esce dalla cantina e sale le scale, mantiene i nervi saldi e cerca le scale d’emergenza. Se la bomba però dovesse esplodere, a nulla gli servirebbe salire verso l’alto.
«Merda.»
Torna di nuovo di sotto, cercando di sentire oltre il rumore dell’allarme qualche voce, ma sembra che tutto taccia lì fuori e non può far altro che imprecare di nuovo.
Mentre scende le scale, nota con la coda dell'occhio una luce provenire da una delle celle e si avvicina, scorgendo quello che pare essere un vetro incredibilmente sporco. Esulta mentalmente e inizia a prendere a calci e a spallate la porta di legno marcio finché questa non cade ai suoi piedi. Corre dentro e sposta tutta la roba che gli si para davanti, gettandola a terra possibilmente tutta da un’unica parte così da poter camminare dopo più agilmente, fino ad arrivare a quella che pare essere effettivamente una piccola finestrella,  forse abbastanza grande da far passare un uomo adulto. John non ha da che sperare. Prova a forzarla, ma la maniglia sembra arrugginita come anche i cardini. Nel prossimo condominio in cui andrà ad abitare (sperando non sia quello del Paradiso o dell'Inferno) guarderà attentamente tutti i dettagli prima di sborsare l'anticipo di tre mesi. Sbuffando, si volta a cercate qualcosa con cui rompere il vetro, e trova che una sedia sia un compromesso abbastanza accettabile al confronto di niente.
Il suono dei vetri infranti si sparge per le pareti di quel posto maleodorante e John intravede le macchine della polizia ferme a qualche metro di distanza. C’è una tale confusione in giro che se anche urlasse nessuno se ne accorgerebbe.
Come a volergli dare dimostrazione che quel posto è un agglomerato di muffa e spore, anche la sedia si rompe in mille pezzi, cadendo a terra. Masticando imprecazioni ne raccoglie un pezzo (a giudicare dalle dimensioni dovrebbe essere la gamba della seduta) e toglie i restanti pezzi di vetro che, recidivi, rimangono ancorati agli infissi. Può solo ringraziare il cielo che non ci sia un’inferriata a proteggere la finestra e la loro uscita.
Corre nella stanza adiacente e si para davanti l'uomo.
«Andiamocene!» ripete ma l’altro continua a non dargli ascolto e tira fuori un aggeggio di cui John non ha la minima idea dell’uso.
Al diavolo!
Gli sta venendo un enorme dubbio su chi possa essere la persona che si ritrova davanti mentre questa gli da la schiena senza degnarlo nemmeno di una risposta.
E forse la cosa potrebbe anche stranamente piacergli.
Non c’è altro da fare: fissa il legno che tiene ancora tra le mani e rialza gli occhi sull'altro.
«Signor Sherlock Holmes?»
L'uomo, sentendosi chiamare per nome, si volta e John non esita a colpirlo, facendogli perdere i sensi.
 
°oOo°
 
Sherlock riapre gli occhi e per un solo secondo non ha la minima idea di dove si trovi. Poi, sentendo la voce di Lestrade e vedendo John accanto a quest’ultimo, si alza su di scatto e gli infermieri gli intimano di rimanere fermo, mentre lui ovviamente non da loro ascolto e per poco non crolla a terra per un capogiro da premio Oscar.
«Non dovrebbe muoversi.» sente una mano appoggiarglisi sulla spalla che pian piano lo fa distendere di nuovo. Apre gli occhi per incontrare quelli di un blu scuro che lo hanno accompagnato per tutto il tempo antecedente all'esplosione e al colpo in testa.
«E lei non dovrebbe andare in giro a prendere a randellate la gente. Lestrade!» tuona in seguito rivolgendosi all'ispettore che, dopo aver fatto un lungo sospiro, si avvicina al lettino.
Sente il biondo mormorare un “tecnicamente non l'ho fatto con un randello”, ma per questa volta lo ignora.
Gli infermieri tornano in reparto lasciandoli soli a un cenno dell'ispettore e Sherlock può tirare un sospiro di sollievo nel vedere che è ancora totalmente vestito con i suoi abiti e di essere su una semplice lettiga in un corridoio semi deserto e non disteso su un vero e proprio letto d'ospedale. Non si è ripreso nel tragitto che l'ambulanza ha fatto per arrivare fin lì: doveva essere stato proprio un bel colpo. 
«Il mio caso? Che fine ha fatto il mio caso?!»
Vede con la coda dell’occhio il dottore sorridere sotto i baffi come se trovasse la cosa divertente, mentre l’altro apre le braccia rassegnato, inarcando le sopracciglia.
«Che fine vuoi che abbia fatto, Sherlock? Non siamo nemmeno riusciti ad entrare che è esplosa la colonna portante ed è venuto giù tutto come fosse una valanga. Fortunatamente abbiamo sgomberato la zona e fortunatamente...» sottolinea per bene quella parola prima di andare avanti «Almeno questa volta hai fatto uscire tutti dalla palazzina prima di addentrarti in un’impresa folle... Meno male che c’era John che...» ma Lestrade non riesce nemmeno a finire di parlare che il consulente investigativo si volta nuovamente verso l’altro uomo e lo guarda in cagnesco.
«Le avevo detto di lasciarmi lì.»
John sorride, affabile.
«E io le avevo detto di andarcene.»
«Chi le da il diritto di...»
«Oh non mi ringrazi. È un piacere averle salvato la vita.»
Sherlock storce la bocca a quella frase: salvare la vita. Chi gliel’ha chiesto? Ma, soprattutto, perché diavolo non si è fatto gli affari suoi lasciandolo alla fine che più voleva?
«Dovresti davvero ringraziare qualcuno una volta nella tua vita, Sherlock.» rincara la dose Lestrade, poggiando una mano sulla spalla di John, il quale si scosta impercettibilmente.
Sherlock aguzza la vista e nota il fastidio.
Sherlock non ha intenzione di parlare o di dire alcunché. Vuole solo uscire dall’ospedale e tornare a casa. Ha un impegno e non vuole certo perderselo per rimanere lì a fissare un muro bianco come uno stoccafisso.
Allora rimette nuovamente giù le gambe dal lettino, ma questa volta con più calma, e si alza in piedi, reggendosi con una mano sul muro. Quando si sente totalmente stabile, inizia a fare alcuni passi verso l'uscita. 
 
John si volta a guardare la figura di Sherlock allontanarsi e sospira. Non sa perché, ma sospira. Avrebbe voluto parlargli ancora un po’, giusto per sapere come sarebbe stato se...
«Adesso come farai?»
John si desta dai suoi pensieri e guarda Greg. È stato più o meno divertente vedere la faccia dell'ispettore mentre lui era intento a spingere Sherlock oltre il vetro rotto e poi tentava di seguirlo, rimanendo incastrato con la spalla, dovendola infine strattonare, lussandosela. Beh, quello è stato un po’ meno divertente, in realtà. L’ispettore li ha visti ed è corso verso di loro, aiutando John a uscire e prendendo Sherlock per un braccio allontanandolo da lì il più in fretta possibile.
Inutile dire che nel tragitto fino all’ospedale John è stato subissato di domande e che, alla fine, Greg gli ha stretto la mano e si è presentato come l'ispettore Gregory Lestrade, conoscente e -purtroppo- assiduo frequentatore dei servizi di Sherlock Holmes. Inutile anche dire che John gli ha raccontato più o meno tutto, soprattutto del problema legato all'abitazione, ora rasa praticamente al suolo.
John sospira e si gratta il collo in evidente segno di disagio. Ci ha messo settimane a trovare quel posto, uno dei meno cari a Londra, e ora si ritrovava da punto e a capo. Ha solo due opzioni da prendere in considerazione e sinceramente non sa quale delle due sia la peggiore.
«Stanotte dormirò in albergo, poi vedrò come fare...»
Deve veramente ringraziare di non essere un tipo legato agli oggetti, o adesso starebbe piangendo per tutti i suoi libri rimasti sepolti sotto le macerie.
Tutti i suoi amati libri...
«Dottore. Crede di rimanere lì ancora per molto o intende seguirmi?»
John si volta in direzione della voce che lo ha chiamato e si ritrova a fissare Sherlock Holmes, dritto nella postura con le mani dietro la schiena, che lo guarda con la sua aria altezzosa di rimando.
Rimane un attimo stranito, poi prende il cappotto al volo che ha poggiato precedentemente sulla lettiga e fa un cenno di saluto verso l'ispettore. Si sente sorpreso, ma forse non è il caso di dirglielo.
Sherlock gli da le spalle e si avvia senza aspettarlo, John comunque gli è dietro, non può lasciarsi scappare un’occasione simile.
Vede Sherlock varcare le porte scorrevoli intento a mandare un messaggio e lo vede poi alzare un braccio per fermare un taxi che si accosta a loro praticamente subito.
Sherlock apre la portiera ed entra, lasciandola aperta in un evidente invito, John si sente ancora dubbiosa ma comunque non esita a salire. Non ha nemmeno il tempo di chiudere la portiera che sente la bassa voce di Sherlock giungergli alle orecchie.
«Suppongo che secondo le norme civili, che francamente non ho mai capito, io sia in debito con lei per avermi salvato la vita.» lo dice in tono stizzito, con una strana smorfia sul viso che John non riesce decisamente a catalogare «Dunque, suppongo di essere in debito con lei, almeno per un poco. Io abito al 221B di Baker Street e, nell'appartamento, c'è ancora una stanza libera. Posso offrirle quella per qualche giorno finché non avrà trovato una sistemazione più consona.» finalmente gli occhi si levano dalla finestra da cui sta guardando e si soffermano sul viso di John «Mi hanno detto che non sono una persona facile con cui convivere o anche solo passare qualche minuto. Questi sono, a onor del vero, affari suoi. Non ho intenzione di cambiare le mie abitudini, suono a orari che agli altri risultano essere improponibili, parlo da solo, non dormo molto, penso sempre, faccio esperimenti di qualsiasi tipo e non voglio assolutamente che qualcuno mi venga a dire se sono o meno pericolosi. È tutto chiaro?» John si ritrova ad annuire guardandolo calmo. Francamente non si aspettava parole o un tono meno duri.
«Io devo dirle i miei difetti o...»
«Un medico militare in congedo con una ferita alla spalla e una psicosomatica guarita male non credo potrà crearmi grossi problemi.»
John alza le sopracciglia e spalanca gli occhi, sorridendo come un bambino.
«Fantastico!»
Sherlock non gli presta attenzione, continuando a digitare qualcosa sul cellulare, finché non pare ricordarsi qualcosa e si volta nuovamente verso il dottore.
«Ho solo una domanda da porle...»
John annuisce e aspetta, poggiando un braccio contro la portiera per poggiarci poi il viso, stando più comodo.
«Sherlock Holmes.» dice il detective, e John per un attimo teme di aver capito male, perché ripetere il proprio nome non gli sembra affatto una domanda.
«Come fa a sapere chi sono? Non ci sono molte mie foto in giro e, quelle in cui compaio, sono praticamente sfocate o non sono riconoscibile.»
John si morde la lingua e poi sfoga tutto ciò che prova sul suo labbro inferiore, martoriandolo con i denti.
«Parlando ipoteticamente...»
Sherlock alza un sopracciglio e lo fissa come a dire che quel “ipoteticamente” proprio non esiste.
«Ipoteticamente potrei avere aperto un blog su di lei. Seguendo le sue vicende attraverso i giornali e il suo di blog. La scienza della deduzione. Ci sono finito casualmente un giorno, cercando in realtà tutt'altro, e incuriosito dal titolo mi sono fatto un giretto tra i vari post.» rimane qualche secondo in silenzio ad osservare l'espressione imperturbabile dell'altro e, siccome Holmes non sembra avere niente da dire, riempie lui quel silenzio, andando avanti a parlare «Devo ammettere che certi li ho trovati piuttosto... Uhm...» non sa bene come identificarli e dire estremamente noiosi gli sembra maleducato, così passa oltre «Invece altri li ho trovati estremamente interessanti anche se ammetto che all'inizio ero piuttosto scettico, insomma, è estremamente difficile come metodo...»
Sente Sherlock sbuffare e si volta verso di lui.
 
Sherlock ha ascoltato tutto molto diligentemente, è stato bravo ed è rimasto in silenzio senza interromperlo come invece avrebbe fatto di solito perché è così che ci si deve comportare Sherlock, non farmi ripetere le stesse cose tutto il santo giorno e c'è stato un momento in cui era veramente interessato a come John avesse fatto a riconoscerlo, ma ora, dopo la spiegazione iniziale, si sente già annoiato. Di nuovo. «La gente guarda ma non osserva. Siete tutti solo estremamente pigri, oltre che idioti, ma quello forse è opinabile, non c'è nulla di difficile in ciò che faccio, ma probabilmente devo ringraziare gente come lei se posso permettermi un lavoro del genere. Quindi forse dovrei rimanere in silenzio e darle ragione dicendole che è un'arte estremamente difficile.» guarda fuori dal finestrino con le braccia incrociate al petto, notando l'ingorgo qualche metro più avanti e si ritrova a sbuffare e digrignare i denti: detesta perdere tempo inutilmente. 
«Questo comunque non risponde alla mia domanda: come mi ha riconosciuto?» chiede più per noia che per reale interesse. E forse per quel “fantastico” che il suo interlocutore ha detto qualche attimo fa, che ha finto volontariamente di non aver sentito ma che gli è arrivato distintamente alle orecchie.
Intanto che il dottore pensa a come rispondere, Sherlock valuta se sarebbe più facile scendere e fare il restante pezzo di strada a piedi. Forse arriverebbe prima.
«Perché lei è talmente altezzoso perfino nei suoi scritti che, notando una persona che sicuramente non può far parte del corpo della polizia - e si fidi, questo si nota, almeno per uno che ha fatto il militare e sa come ci si dovrebbe comportare in certe situazioni - scendere le scale come se nulla fosse ed esultare come un ossesso davanti un ordigno... Beh, a dire il vero ho un po' tirato ad indovinare, ma infine avevo perfettamente ragione...» John fa un mezzo sorriso e lo guarda «Io che non osservo e sono un idiota...» lascia il resto della frase in sospeso e Sherlock lo guarda con un angolo della bocca alzato. Lo ha definito “straordinario” e “altezzoso” nel giro di nemmeno dieci minuti, ma chissà perché detti da lui entrambi sembrano complimenti.
«Quindi lei è un mio fan.»
John annuisce distrattamente. «Una specie. Trovo davvero interessante ciò che fa e come lo fa.»
Sherlock si appoggia con tutta il corpo contro la portiera, sentendo un brivido a contatto con il metallo e il vetro freddo. L'ingorgo finalmente inizia a diradarsi e Sherlock può vedere l'incidente automobilistico provocato da uno straniero che non ha rispettato la precedenza: tipico. Tornano a muoversi e vede Watson con la coda dell'occhio rilassarsi contro il sedile.
«Allora ho un fan.» dice quasi senza rendersene conto. Di solito non va così. Di solito lui non cerca d'intrattenere una conversazione.
L'altro lo guarda e sorride.
«Oh, ne ha decisamente più d'uno. Se vorrà le mostrerò il blog e i commenti, ne resterebbe sorpreso.»
La conversazione rimane sospesa con quell'ultima affermazione ed entrambi guardano fuori dal proprio finestrino, ognuno perso nei propri pensieri. Chi in pensieri felici ed entusiasti, chi in pensieri veloci ma annoiati. Anche se un po’ sorpresi.
 
John si guarda intorno e rimane sinceramente sconvolto del caos che regna sovrano in quell'appartamento. Dei vestiti sparsi un po’ ovunque, delle carte sparpagliate sulla scrivania del soggiorno e sul tavolo della cucina. Resta attonito a guardare come un bel appartamento così grande, così spazioso) possa essere ridotto in quello stato da un singolo uomo.
Ha conosciuto la signora Hudson appena arrivato e l’ha adorata subito, a pelle. Lei non si è fatta problemi ad accoglierlo in casa e, anzi, si è dimostrata quasi sollevata nel vedere che qualcuno ha finalmente trovato il coraggio di condividere l’appartamento con uno come Sherlock. John le ha spiegato velocemente la situazione, mentre Sherlock saliva le scale e non degnava nessuno dei due della propria attenzione, tranne per un Signora Hudson, del tè. Grazie. che la donna accetta con una semplice alzata d’occhi e un Non sono la tua governante.
Dopo qualche altro convenevole si è ritirato al piano di sopra per osservare la camera che avrebbe usato per chissà quanti giorni e poi si è addentrato nell’effettivo appartamento, trovando quello che osserva al momento: il caos.
Sherlock è sparito da qualche parte, non lo ha aspettato, non gli ha indicato nulla, non gli ha detto di potersi accomodare. Quindi la sua domanda è questa: può girare liberamente per la casa senza addentrarsi in qualcosa di strano o senza infastidirlo?
Come se il consulente avesse sentito la sua domanda interna, John lo vede apparire da dietro il muro della cucina, cambiato dai suoi abiti con un sobrio completo nero e con il viso rinfrescato.
John non riesce ad impedirsi di guardarlo storto.
«Esce?» domanda, e forse è la cosa più stupida che potesse chiedere perché l’altro si limita ad alzare un sopracciglio e a guardarlo con sufficienza.
«In realtà credevo di andare a dormire in smoking, lei che ne dice?»
John si ritrova a sghignazzare. «Non mi pare una grande idea, se posso permettermi. La testa potrebbe farle male e non è il caso di…»
«Niente intromissioni nella vita privata. Mi sembrava di essere stato chiaro pochi minuti fa, in taxi.»
Il dottore alza le mani e chiude gli occhi in segno di resa. Se quell’uomo vuole sentirsi male in mezzo alla strada, liberissimo di farlo, fuori dal suo campo visivo però.
Sherlock sorride e, dalla sua espressione, pare davvero compiaciuto.
«Non sarà di certo un po’ di mal di testa a fermarmi. L’orchestra sinfonica di Vienna non ripassa di qui tutti i giorni e io non ho di certo intenzione di perdermela. Le chiederei di accompagnarmi, ma dubito ci siano altri biglietti e dubito sia nel suo interesse…»
John lo guarda e storce la bocca, più per il sottotesto sarcastico che altro.
«No, questa sera c’è l’Arsenal. Ma grazie per l’invito senza invito.»
E questa volta è Sherlock a storcere le labbra.
Sport. Ma non uno sport qualsiasi. Ventidue imbecilli che corrono dietro ad una palla per buttarla dentro ad una rete. Sport. Definirlo così è oltremodo oltraggioso, dal suo punto di vista. È qualcosa di inutile, forse può farti aumentare il fiato, ma trova decisamente più utile e più pratico qualcosa di sano come la lotta libera, il pugilato, l’autodifesa e via discorrendo.
Fortunatamente non resteranno coinquilini a lungo, è evidente sotto molti aspetti che non sarebbero fatti per stare insieme.
Sherlock quindi non risponde e John si accomoda sull’unica poltrona libera, sistemando per bene il cuscino con la Union jack sullo schienale e cercando con lo sguardo il telecomando, rassegnandosi ad alzarsi nuovamente per accendere la televisione manualmente.
«La facevo più un tipo da Chelsea o da Manchester.» si ritrova a dire Sherlock, senza apparente motivo, andando a prendere i guanti riposti sul davanzale e infilandoseli con calma.
«I gusti di una persona possono variare con gli anni, ma sì, ero effettivamente un tipo da Chelsea.»
Sherlock non sa e ben che meno gli interessa cosa possa fargli aver cambiato idea, quindi si ritrova a prendere il telefono e le chiavi e fa per andarsene.
«Ha una vasca in questa casa?» gli chiede improvvisamente John, e Sherlock lo guarda e si domanda se l’altro stia parlando seriamente o meno. «Sì, nel bagno vicino la mia stanza, quello di sopra ha solo la doccia.»
John annuisce e non presta attenzione alla sua figura, continuando piuttosto a guardare lo schermo del televisore.
«Sarebbe un problema...?»
E Sherlock si chiede nuovamente se Watson lo stia prendendo in giro o meno. Che differenza può fargli se qualcuno usa o meno la sua vasca da bagno?!
«No.» e spera che quella strana conversazione finisca lì, perché la trova francamente inutile e lui odia le cose inutili.
Vede John stendere le labbra in un sorriso tranquillo e annuire nuovamente.
«Allora i miei problemi sono del tutto risolti.»
Sherlock alza un sopracciglio e aspetta che la signora Hudson gli porti il tè.
 
 
Sherlock ha un leggero giramento di testa mentre scende le scale e gli tocca afferrare il corrimano per non rischiare di ruzzolare giù e far morire di crepacuore la signora Hudson.
In un attimo si chiede se il dottore abbia usato o meno tutta la sua forza per colpirlo, perché se così non fosse stato aveva di che preoccuparsi.
Apre il portone ed esce rimanendo qualche secondo sul primo gradino, respirando a pieni polmoni l’aria fredda di Londra, sperando che basti questo a fargli passare quella specie di nausea.
«Signor consulente investigativo!» Sherlock si sente veramente preso per il culo sentendosi chiamare dall’alto in quel tono beffardo e, alzando gli occhi verso la finestra del soggiorno, vede il dottore che si è sporto fuori con mezzo busto e sventola con la mano sinistra una piccola scatoletta bianca, poi gli fa il gesto di lanciargliela e quando Sherlock annuisce, quello gliela lancia davvero.
«Ne prenda una se inizia a stare veramente male. E questo non è impicciarsi della vita privata di una persona, è semplicemente avere la coscienza a posto con se stessi.» detto ciò torna dentro -non aspetta un grazie da parte del consulente perché probabilmente sa che non ne avrà- e si chiude la finestra alle spalle, massaggiandosi le braccia con le mani per scaldarsi un po’.
Sherlock guarda la scatoletta e nota le avvertenza che ci sono scritte sopra. Sono delle semplici compresse che si fanno sciogliere sotto la lingua per emicranie e dolori generici.
Mh.
Schiude la confezione e prende una pastiglia, dirigendosi finalmente verso la sua meta. È in largo anticipo ma è tutto calcolato, sta aspettando una persona e sa che quella non tarderà ad arrivare, non poteva permettersi di prendere un taxi o presentarsi puntuale all’inizio della sinfonia.
La medicina si scioglie e il sapore gli fa storcere il naso, ma spera almeno che il mal di testa passi.
Scorrazza per i vicoli più bui e stretti, non volendo camminare in mezzo alla folla e sotto le luci dei lampioni: troppa luce per il momento. Spera solo di rilassarsi a teatro godendosi lo spettacolo.
Prende il pacchetto di sigarette dal taschino anteriore della giacca, quello dove ha riposto anche le medicine, e cerca l’accendino nella tasca vicino la coscia. Non tiene mai le sigarette e l’accendino assieme. È un’abitudine che non sa da dove ha preso, né il perché.
Impreca tra i denti quando non lo trova e ferma la sua avanzata quando sente un rumore alle sue spalle.
«Non è che magari hai da accendere?» chiede, e sembrerebbe davvero un pazzo che parla da solo, non fosse che qualcuno gli risponde davvero, semplicemente avvicinandosi e allungandogli l’accendino.
Sherlock si prende il suo tempo, accende la sigaretta ed inspira profondamente, la faccia estasiata con cui poi rilascia il fumo sembra la più calma e in pace del mondo.
L’altro pazienta e aspetta, camminando su e giù nel vicolo seguendo la linea delle mattonelle a terra, lo fa con calma, senza fretta, come non ha fretta che Sherlock parli.
Alla fine però è proprio l’altro a rompere il silenzio, forse stufo dal terzo giro di mattonelle.
«Non sei morto.»
Sherlock alza gli occhi al cielo.
«È sempre lo stesso discorso, Seb. No, non sono morto. E nemmeno tu. Chi è il più dispiaciuto tra i due?»
Sebastian gli si avvicina e porge la mano, Sherlock non esita e gli passa la sigaretta che l’altro in tre boccate al massimo ha finito.
«Questa volta hai davvero avuto fortuna. Non fosse stato per il nanetto che ti è venuto dietro saresti finalmente saltato in aria…» fa un piccolo sorriso e a Sherlock ricorda tanto qualcun altro «…boom…» dice muovendo le mani per enfatizzare il suono e gettando a terra la cicca. Anche in questo gli ricorda tantissimo lui.  «A brandelli contro le pareti saresti dovuto essere e invece no, ti ostini a vivere.»
Sherlock sorride e guarda per un momento il suo orologio da polso. Non ha ancora molto tempo.
«Ringrazia la tua buona stella se sono ancora vivo, immagina la noia se ciò che tanto speri fosse accaduto. Per quale motivo continueresti poi a vivere?» Sherlock sorride solo da un lato della bocca e lo guarda con aria annoiata, l’altro risponde con un altro mezzo sorriso.
«Alla prossima, Sherlock Holmes. E questa volta vedremo se sarà l’ultima.»
Moran gli volta le spalle ed alza una mano in cenno di saluto, uscendo dal vicolo fischiettando mettendosi le mani nelle tasche dei jeans vecchi e sdruciti. Non presta attenzione al consulente: non ha paura di lui e sa che Holmes non lo colpirebbe mai alle spalle, così come –stranamente- non lo farebbe nemmeno lui.
Sherlock lo guarda andare via e prende un’altra sigaretta dal pacchetto. Moran gli ha lasciato l’accendino, deve ricordarsi di restituirglielo la prossima volta.
 
John guarda lo schermo del televisore ma non vede realmente la partita, non vede cosa sta accadendo e probabilmente nemmeno gli interessa.
In realtà vorrebbe fare l’unica cosa a cui sta pensando da quella mattina: un bagno.
Spegne la TV e poggia il telecomando sul pavimento, sopra una pila di pantaloni che davvero –davvero- si chiede che diavolo facciano lì. E un po’ si chiede che diavolo ci faccia lì pure lui. Si siede di nuovo comodamente sulla poltrona e si guarda intorno. È nuovamente in un appartamento che di suo non ha nulla. È di nuovo solo. È di nuovo all’inizio della sua vita e non ha la minima voglia di cominciare nuovamente da capo.
Ma tanto è inutile rimuginare su una cosa del genere, non se riesce ad evitarselo. È arrivato dov’è e indietro non si può tornare. E forse, forse, nemmeno lo vuole. Ma al momento non si sente sicuro di molto.
Sorride tra sé e sé.
Sherlock Holmes. Ancora non ci può credere. Londra non è una città piccola, affatto, eppure lo ha trovato. O forse Holmes ha trovato lui, non gli è ben chiaro. L’unica cosa che reputa sicura in questo momento è il presente. Il fatto che si trova in un soggiorno e vuole farsi un bagno.
Alla fine si alza e scende un attimo dalla signora Hudson, scusandosi per il disturbo e chiedendole se per caso abbia una radiolina da prestargli. Almeno così presterà orecchio alla partita o svierà su una radio che passa musica degli anni ’80.
L’anziana lo guarda un attimo sorpresa e si ferma a riflettere, sparendo nuovamente dentro il suo appartamento e facendo capolino qualche istante dopo, porgendogli quello che aveva chiesto (una vecchia radio di almeno vent’anni, ma pur sempre una radio) e un piatto con dei biscotti.
«La ringrazio signora Hudson, non doveva disturbarsi.»
La donna sorride. «Oh, non si preoccupi dottore, per sopportare una personcina come Sherlock avrà bisogno molto più di un piatto di biscotti, ma intanto li prenda.»
John fa un bel sorriso e si allontana di un passo, ma la voce della donna lo ferma prima che riesca a voltarsi e andarsene.
«Ma ricordi che non sono la governante!»
E senza che riesca nemmeno a rispondere si ritrova la porta chiusa in faccia.
Resta un attimo sorpreso ma decide di non indagare oltre, tornando al piano superiore.
 
L’Arsenal sta perdendo e francamente la cosa non lo scalfisce minimamente. Fosse la prima volta che perde.
Ogni tanto pensa che avrebbe dovuto continuare a tifare per il Chelsea, ma alla fine si ricorda perché ha smesso ed evita di pensare avanti alla cosa.
Il suo corpo è immerso nell’acqua calda e al momento sembra che nulla possa andare storto. Nulla. Che sia una menzogna sembra importargliene veramente poco.
Solleva le gambe e le appoggia alla superficie di porcellana, immergendosi un po’ di più col collo e sentendo ora i piedi freschi. L’acqua gli entra nelle orecchie ovattandogli l’udito e finendo così per non sentire più il gracchiare fastidioso della radio che continua a descrivere le azioni dei giocatori.
Resta ad occhi chiusi, John, per un tempo indefinito, ma che gli fa sembrare che l’acqua sia diventata più tiepida.
E ricorda. Perché forse si sta addormentando immerso nell’acqua e sa che la cosa potrebbe essere decisamente pericolosa, ma non gli importa.
Ricorda cosa significa avere una casa propria, i libri sulle mensole, qualcuno da cui tornare, il caminetto acceso d’inverno, uno scopo nella vita, la voglia di avere un figlio, la voglia di partire, la voglia di rimanere. Ricorda la mano stretta forte alla sua, ricorda la voce melodiosa e ridente che lo svegliava, ricorda com’è riuscito a cambiare lui, come si è portato a casa una zoppia psicosomatica che alle volte se ne va e alle volte ritorna, ricorda l’analista che l’ha aiutato ma fino ad un certo punto, ricorda i tre anni ritornato dall’Afghanistan e chi gli ha veramente dato una mano, ricorda gli sforzi fatti, i successi ottenuti, ma ricorda soprattutto gli insuccessi, che sono molti di più di quanto qualcuno potrebbe credere. La disgregazione di quello che doveva essere un nucleo famigliare, la solitudine che non lo abbandona mai e la sua desolazione interiore. Sua madre diceva –e alle volte glielo ricorda ancora- che era fortunato ad avere un cuore così grande, lui invece passa le giornate a chiedersi a cosa possa servire avercene uno. Perché le uniche cose che ha sono un’enorme vuoto che non riesce a colmare e la prospettiva di rimanere sempre solo. Perché nessuno ama John. Nessuno, perlomeno, lo ha mai amato facendolo sentire tale. Si dice sempre che è lui ad aspettarsi troppo, che è lui a cercare qualcuno di perfetto che ovviamente non esiste. Però un cuore grande ha anche bisogno di essere colmato da un sentimento altrettanto forte.
L’acqua gli finisce nelle narici nel momento in cui inspira e si ritrova ad alzarsi a sedere e tentare di farsi uscire l’acqua dal naso.
Fuori dall’acqua sente freddo, vorrebbe ritornare in quell’abbraccio sicuro, ma non è totalmente convinto che sia solo per la mancanza d’acqua calda il motivo per cui sente il gelo tutto attorno a sé.
L’Arsenal, comunque, ha perso.
 
Va a sbattere con il piede contro dei libri che, probabilmente, potrebbero essere usati per le fondamenta di una casa per quanto sono duri. Impreca tra i denti e li sposta di lato tornando nuovamente nel soggiorno. È ancora in accappatoio ma, anche se è lì da poche ore, è già stufo di quell’immenso ammasso di robaccia.
È abituato all’ordine, porca miseria! Capisce perfettamente che non si può essere forzatamente maniacali, ma quella cosa rasentava livelli di pigrizia e svogliatezza decisamente allarmanti.
Decise di andare di sopra a cambiarsi. E di mettere tutto in ordine appena sceso.
 
*oOo*
 
Sherlock guarda il soggiorno e per un attimo si chiede se per caso abbia sbagliato appartamento. Poi si dice che la cosa è impossibile, per il fatto che lui non sbaglia mai e che ha aperto la porta con le chiavi di casa, quindi decisamente non può essersi confuso.
È mezzanotte e un quarto, dopo il concerto si è fermato qualche minuto sulle poltrone del teatro ad ammirare i musicisti andarsene e a dedurre le vite degli spettatori, così, per gioco. Prima di uscire di lì si è preso un’altra delle pillole dategli dal dottore, anche se la testa non gli faceva più così male, e si era diretto nella direzione opposta a Baker Street. Sperava francamente che suo fratello non lo stesse nuovamente seguendo con le videocamere di sorveglianza perché non aveva voglia di girarsi tutta Londra per un po’ di cocaina. Sfortunatamente per lui, sembrava che invece Mycroft ci avesse nuovamente messo lo zampino in mezzo, perché non riuscì a trovare uno spacciatore nel giro di un’ora di cammino, conoscendo perfettamente le zone di appostamento preferite dei pusher.
Così si era rivolto col suo cipiglio di disappunto alla prima telecamera disponibile, facendo il dito medio e dirigendosi verso il 221B, molto più stanco di quanto avrebbe voluto.
Comunque, ora si guarda intorno e si chiede dove diavolo sia finita tutta la sua roba e l’unica fonte di risposte siede dritto davanti di lui sulla poltrona rossa.
Il dottore sta leggendo il giornale del giorno prima e non alza nemmeno gli occhi quando sente quelli del consulente su di se, così Sherlock si avvicina e gli toglie malamente il quotidiano gettandolo a terra.
«La mia roba.» dice solo e non intende aggiungere altro, fulminando Watson con lo sguardo che, invece lo guarda tranquillo, riprendendo in mano il giornale.
«Prego.» risponde e Sherlock non è davvero sicuro di aver capito bene.
Fortunatamente –o meno- per il consulente, l’altro continua con le spiegazioni.
«Tutti i vestiti sono in lavatrice o nel cestello della roba sporca, i libri sono nella libreria, li ho catalogati per nome d’autore non sapendo se avrebbe preferito per genere, tutte le carte sono impilate –nella stessa maniera in cui le ho trovate, non ho spostato nulla in quel senso- sulla scrivania o in cucina vicino al microscopio, i piatti sporchi e i bicchieri e le posate le ho lavate e messe nell’apposito cassetto o credenza, il cibo l’ho messo in frigo, ben lontano da quella testa che c’è dentro e no, non voglio sapere perché c’è una testa nel frigo, grazie. Ho ordinato cinese per entrambi –perché le pulizie vanno bene ma detesto cucinare-, la sua porzione è sempre sul tavolo della cucina, ho preso qualcosa di non troppo piccante non conoscendo i suoi gusti e questo è tutto.» riporta la sua attenzione alle pagine davanti a sé e torna a leggere.
Sherlock lo guarda e rimane a fissarlo per quasi un minuto intero, finché vede John alzare gli occhi verso di lui.
«Beh?» dice solo il dottore, come se non gli avesse appena messo a soqquadro casa sua ma come, piuttosto, si fosse semplicemente seduto senza dare fastidio.
«Se non trova qualcosa può sempre chiedere a me, ho buona memoria su dove sposto le cose, ma dovrebbe essere piuttosto semplice trovarle, siccome è tutto al proprio posto.»
Sherlock non riesce a crederci, non tanto perché ora può vedere i pavimenti e lo spazio in cui cammina, ma perché l’altro non sembra per niente a disagio in sua presenza come la maggior parte delle persone. Soprattutto la maggior parte delle persone che ha toccato le sue cose.
Il consulente decide di togliersi il cappotto e fare un giro di perlustrazione. Trova veramente tutti i libri catalogati e le sue carte in ordine e il cibo in cucina insieme alle cose lavate. Fa un salto in bagno e vede che anche quello è totalmente pulito e che la lavatrice sta affrontando quello che deve essere l’ennesimo carico di roba, a giudicare da tutti gli indumenti messi sullo stendino.
Esce dal bagno e fa lunghi passi verso camera sua.
«Lì non ho messo naso.»
Sherlock si volta e vede John in piedi alla fine del corridoio, poggiato con la spalla contro lo stipite, che lo sta osservando.
«Quello è un genere di privacy diverso.» dichiara, dandosi un piccolo colpetto con la spalla per alzarsi e tornare a quello che stava facendo: fingere di non dare attenzioni al consulente.
Sherlock decide comunque di aprire la porta e veder con i propri occhi che nessuno è entrato lì dentro o avrebbe sbattuto fuori dalla porta il dottore senza pensarci due volte.
Ma in effetti nessuno ha messo piede o toccato qualcosa nella sua stanza, allora non può far altro che tornare di là e fissare male l’uomo che lo ignora.
Si siede al tavolo e osserva la stagnola che ricopre il piatto, non appena la toglie il pollo all’ananas fa bella mostra di sé. È ancora tiepido, quindi deve aver ordinato poco fa.
Prende le bacchette poggiate lì vicino ed inizia a mangiare. Non è il suo piatto preferito, ma il dottore non ha nemmeno commesso uno sbaglio colossale.
 
Sono quasi le due e John non si sente stanco per niente, ma sa che è meglio andare a dormire perché domani ha il turno pomeridiano e sicuramente non gli conviene andare a lavorare con quasi trenta ore d’insonnia alle spalle.
Guarda il detective, seduto davanti a lui sulla poltrona nera, e ancora non realizza di essere lì, in quel momento. Gli sembra strano, gli sembra uno di quei sogni strani, quei sogni che ti sembrano estremamente veri ma alla fine succede qualcosa di particolarmente strano e capisci che non può capitare davvero.
Oddio, se le cose stanno così, allora è da quella mattina che sta sognando, perché è tornato a Londra da tre anni e nessuno ha mai piazzato una bomba nell’edificio dove abitava e nessun consulente è apparso magicamente a farsi… beh, prendere a sediate in testa.
Alla fine decide di alzarsi, aiutandosi a sollevarsi con la braccia (forse un po’ stanco lo è, in fin dei conti), e si avvia verso la porta, finché non vede il consulente prendere le sigarette dal taschino della camicia e accendersene una.
Devia verso destra e gliela toglie dalle labbra con un solo gesto assieme al pacchetto, mentre Holmes lo guarda quasi sbigottito.
«La disturba? Mi sembrava se ne stessa andando a dormire.» dice, guardando la sigaretta ancora accesa tra le dita del dottore, che si avvicina al posacenere e la spegne senza troppe cerimonie.
«Non gradisco il fumo.»
Il consulente alza un sopracciglio, evidentemente non pensa che il problema sia suo.
«Beh, io fumo.»
«No, tu fumavi.»
Holmes, per una volta, sembra guardarlo veramente e non sembra per nulla contento. E nemmeno quel passare dal lei al tu non sembra piacergli particolarmente.
«Dottor Watson…»
«Puoi chiamarmi John.»
Sherlock lo guarda e inizialmente non gli risponde, interdetto dalla piega che sta prendendo la conversazione.
«Bene… John, dammi le mie sigarette.»
«Buonanotte, Sherlock.»
Detto ciò si avvia verso l’uscita per salire al piano superiore, ma si sente bloccato da una mano che lo fa voltare e lo sbatte contro il muro.
«Capiamoci John, posso sbatterti fuori di qui quando voglio e mi sembrava di essere stato chiaro, nemmeno qualche ora fa. Niente. Intromissioni.»
E John ride. Ride talmente forte che Sherlock ne rimane veramente spiazzato.
«La signora Hudson mi ha offerto la camera al piano di sopra in pianta stabile, nel caso mi fosse interessata la cosa ovviamente, e credo che la cosa inizi a farsi piuttosto interessante ora
John si scrolla di dosso la mano di Sherlock e lo guarda sorridendo ancora, gli occhi un po’ più vivi di quando è entrato in quella casa.
«Buonanotte, Sherlock.»
E il consulente guarda il suo, a quanto pare, nuovo coinquilino salire le scale con il suo pacchetto di sigarette in mano.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
NOTE:
In questo capitolo ho preferito mettere molto più spesso “Watson” e “Holmes” rispetto ai soliti “John” e “Sherlock” per una questione che i due non si conoscono ancora così bene. Quindi da più un senso di estraneità (almeno secondo me. XD)
Sono abbastanza in ansia, in realtà. XD Alla prossima!
Spero…

 

 
   
 
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