Capitolo 2 – I sacrifici
Il mio nome è Rhymer Aldjoy, appartengo al distretto 7, legname, e sono appena stata estratta come tributo femminile per gli Hunger Games.
Nessuno si è offerto volontario al mio posto, non è usanza perché ognuno pensa per sé; è normale. Però un brusio di dissenso accompagna i miei passi verso il palco, dove Doroth Privel mi attende. Ho solamente dodici anni e questa è la mia prima mietitura, neanche io avrei mai pensato di poter essere così sfortunata da essere sorteggiata.
Possa la fortuna essere sempre a mio favore? Proprio non mi pare.
Le scarpe di vernice che mia madre mi ha costretta a indossare mi stringono in punta e vorrei con tutte le mie forze sciogliermi i capelli. Ma tutto ciò che faccio è stringere la mano laccata e bianca di Doroth e attendere l’estrazione del mio compagno di sventura.
Malcom Hoobs, non lo conosco affatto. Così mi sentirò ancora più sola.
Quando i pacificatori ci scortano fino alla Questura dove potremo dare i nostri ultimi saluti mi sembra quasi di vivere un sogno, o meglio un incubo; tutto quanto ha l’irreale consistenza dei sogni, come quando stai per svegliarti ma ancora non sei sveglio e riesci a capire di stare sognando e a volte ti chiedi pure che razza di sogno stupido stai facendo. Ma questo non è un sogno, e anche se mi do un pizzicotto non mi sveglio e non mi ritrovo affatto nel mio letto.
I miei genitori mi salutano in lacrime, mi raccomandano di nascondermi bene sugli alberi se ce ne saranno, come solo io so fare, mi regalano la catenina della mamma, quella che mi piace tanto, mi dicono di fidarmi della “signora Mason”, e vengono scortati nuovamente fuori.
Il viaggio in treno verso la capitale neanche lo ricordo. So solo di aver visto le mietiture degli altri distretti, nell’1 e nel 2 ci sono stati come sempre dei volontari, nel 5 è stato preso un ragazzino che sembrerebbe della mia età, i tributi di 11 e 12 sono magri come sempre, e ricordo di aver passato quasi tutto il resto del tempo chiusa in camera mia.
Oggi dovremmo arrivare a Capitol City.
Mi alzo dal letto, dalle coperte termiche così morbide e colorate, e scelgo un vestitino verde che mi ricorda le fronde degli alberi di casa mia. Sto per ordinare qualcosa da mangiare quando la porta si spalanca.
«Ragazzina, chiariamoci bene una volta per tutte» tuona Johanna Mason, il mio mentore. «Non te ne rimarrai chiusa in una stanza per tutto il periodo di addestramento; sei il mio nuovo tributo e non ti arrenderai senza lottare. Ti allenerai. E proverai a vincere. È chiaro?»
«Non mi sto arrendendo!» ribatto indignata. Volevo solo rimanere un po’ sola col mio dolore. Ma non glielo dico e mi limito a fissarla con aria di sfida.
Inaspettatamente sorride. «Molto meglio. Vieni, siamo in città» e così dicendo esce.
La seguo senza replicare ma appena incrocio il primo finestrino non posso fare a meno di fermarmi per guardare i colori incredibili di Capitol City.
Sembra brutto da dire, ma questo sarebbe un ottimo posto per morire.