Uno, due, tre

Da quando è rinchiuso lì, Aoba non riesce mai a contare più di tre. Uno, due, tre. Poi ricomincia da capo. Uno, due, tre. Questo perché sa bene cosa significhi arrivare a tre: lui arriva alle porte della sua cella, entra e si avvicina al suo letto – o quel che è. Piano, lentamente. Aoba conta pure i suoi passi, e ancora arriva fino a tre. Un passo, due passi, tre passi.
Al terzo passo, lo sente così vicino che sarebbe bastato contare ancora fino a tre, prima di sentire il suo tocco delicato sulla pelle. Non può vederlo – non ha gli occhi per farlo; non può toccarlo – non ha mani per farlo; non può alzarsi e corrergli contro per abbracciarlo – non ha le gambe per farlo, ma nonostante ciò, nonostante sia come una misera bambola rotta abbandonata in una gabbia, Aoba continua ad essere felice – e continua a contare fino a tre, perché se c'è sempre un tre, vuol dire che Clear sarebbe sempre venuto da lui.
Quando Clear è nella sua cella, compie sempre le solite azioni. Solo tre azioni che Aoba ha imparato ad aspettare con tutto se stesso da quando se ne andava il giorno prima, ed è proprio quell'attesa apparentemente inutile a farlo andare avanti, a non abbandonarsi completamente alla disperazione.
Uno, si siede al suo fianco e lo avvolge tra le braccia.
Due, si piega su di lui e lo bacia.
Tre, si allontana e mormora: «Aoba–san, ti amo. Mi dispiace».
Aoba sente ogni volta il cuore battere forte, quasi in modo doloroso – ma nemmeno lui stesso sa se batte per la felicità, o per la tristezza, per paura o per chissà cos'altro. Si gode soltanto il momento, sperando che duri giusto un po' di tempo in più del giorno prima. È come un'abitudine che non vuole interrompere a causa del suo cuore immobile e del suo respiro nullo, quindi forse è proprio questo il motivo se ancora, imperterrito, continua a vivere.
«Aoba–san».
Continua a vivere per sentire ancora una volta il suo nome pronunciata da quella voce rotta dal pianto, e per contare di nuovo fino a tre il giorno successivo. Uno, due, tre.