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Autore: cassiana    13/05/2008    20 recensioni
L'8 dicembre 1980 John Lennon fu assassinato a New York. In quello stesso momento i Queen stavano suonando a Wembley. Un piccolo omaggio a due artisti immensi.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Freddie Mercury
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Life is real



Disclaimer: Questa è una storia di pura fantasia che non intende dare alcuna rappresentazione reale dei caratteri o delle azioni dei personaggi rappresentati, che non conosco e non mi appartengono; la storia è stata scritta senza scopo di lucro alcuno.





Music will be my mistress
Loving like a whore
Lennon is a genius
Living in ev'ry pore
*




Il sole e il rumore dello scarso traffico di Kensington penetravano a fatica tra le pesanti tende accostate. Nella stanza il lieve russare indicava che l’occupante dormiva, ancora. Un paio di tonfi sul letto e lo sfregare di un musino contro il viso lo riportarono brevemente alla coscienza. Poi un gatto si accoccolò su suo petto nudo. Freddie, ormai sveglio, cercò d’indovinare quale fosse dei due. Quando l’animaletto cominciò a ronfare, sorrise. Quelle fusa così sonore non potevano essere d’altri che di Oscar, l’enorme gatto rosso che per primo era venuto ad abitare con lui a Garden Lodge. Socchiuse gli occhi e il gatto ricambiò il suo sguardo con occhi gialli che brillavano nella penombra.

- Buongiorno cherie.

Mormorò. La testa gli rimbombava, ma non ci fece molto caso. L’ennesimo dopo sbronza, niente che non potesse bloccare con un paio di aspirine. Ogni notte una festa, ogni festa una sbronza. La frase galleggiò nella sua coscienza per pochi secondi e svanì così com’era venuta. Freddie aggrottò le sopraciglia: si era fatto qualcuno ieri sera? Mentre cercava di ricordare l’altro gatto si accoccolò a lui e cominciò a fare le fusa. Freddie sorrise ancora e le accarezzò delicatamente il lungo pelo argentato: amava la sua Tiffany che rivaleggiava in grandezza col suo compagno felino. Rimasero per un po’ tutte e tre a ronfare in perfetta armonia. Poi l’uomo si stirò sbadigliando. Era ora di alzarsi. Si scostò i gatti di dosso.

- Spiacente miei cari: dovrete fare a meno di me.

Le bestioline si accucciarono tra le coltri spiegazzate, strizzando gli occhi. Freddie sbadigliò di nuovo e si portò una mano alla testa facendo una smorfia. Aprì le tende e il sole entrò a fiotti rendendo scintillanti le pareti coperte di seta e rifrangendosi contro l’enorme specchio dalla pesante cornice dorata.
Anche se era tardissimo Freddie si dedicò alla preparazione del tè. Non sapeva proprio rinunciarci, era un rito che risaliva ai tempi della sua infanzia. Aspirò voluttuosamente la miscela preparata apposta per lui in un esclusivo negozio di delicatessen. Rosa, cannella, pepe; Freddie chiuse gli occhi. Zanzibar, si chiamava la miscela. Gli ricordava la sua vecchia casa di legno su quell’isola esotica, il sorriso dolce della madre e Farook il bambino dai denti storti e gli enormi occhi vellutati. Sospirò brevemente e accese la radio. Le note di Message in a bottle** riempirono la cucina. I tempi stavano cambiando, decisamente.
E la cosa esaltava Freddie, tutta quella nuova musica, diversa, energica. Si erano lasciati alle spalle il vecchio rock glam così pomposo e barocco e davanti a loro c’era un’intera gamma di possibilità. Era come se la musica fosse  un serpente che si stesse liberando della vecchia, ornata pelle per uscirne nuova, fresca e splendente. Si toccò i baffi. Anche quel nuovo look gli piaceva, era uno stacco netto con tutto quello che aveva fatto in precedenza. Play the game stava andando ancora benissimo, per la prima volta si erano convinti ad usare il sintetizzatore, il suono ne era uscito più pulito e  incisivo ma il tocco, quello era sempre lo stesso. E John era riuscito a creare un vero miracolo con il riff ossessivo di Another one bites the dust.  
Ma adesso erano pronti per qualcosa di completamente diverso, Freddie se lo sentiva. Quella sera si sarebbero esibiti di nuovo e nel ricordare il concerto del giorno prima la consapevolezza lo colpì come un pugno allo stomaco. Quasi contemporaneamente, per uno di quegli scherzi del destino che a volte hanno della coincidenza, la radio trasmise Imagine. E Freddie ricordò: John Lennon era morto.
Il suo idolo era stato assassinato in una fredda sera di dicembre. Il radiogiornale diede di nuovo la notizia che ormai era rimbalzata in tutto il mondo. Il giornalista sembrava ancora scosso, tutti erano sconvolti. Non era né la prima né l’ultima delle grandi star del rock a morire tragicamente. Freddie avrebbe potuto stilare un lungo elenco di nomi, molti li aveva conosciuti. Ma così, così sembrava proprio che fosse la fine definitiva di un’epoca. Quel fermento che si sentiva nell’aria, quella voglia di rinnovamento, quell’aprirsi a nuovi stimoli doveva, per esplicarsi, forse, passare anche sul cadavere del rock. E lo aveva fatto. Nel modo più eclatante e letterale del termine. Mark David Chapman gli era andato incontro sorridendo.
“Hey, Mr Lennon!” lo aveva chiamato, poi aveva alzato la pistola: quattro colpi. Il cronista raccontò per l’ennesima volta la dinamica di quell’insensato omicidio.
Freddie, le mani tra i capelli, guardò il suo tè tremolare leggermente. Era chino su quella tazza da lunghi minuti con gli occhi umidi. Una lacrima precipitò nel liquido ambrato e lui tirò su col naso. Non gli importava in quel momento di sembrare una insulsa grupie in preda alla disperazione. A volte capitava che la realtà s’infiltrasse in quella magica follia, fragile come una bolla di sapone. E ora si era infranta. La vita, quella vera, dura, reale, si era violentemente intromessa nel mondo dorato fatto di lustrini e paillettes che era quello del rock.
Lui aveva ricevuto la notizia in diretta proprio durante il concerto alla Wembley Arena. L’adrenalina stava scorrendo a fiumi nel sangue del gruppo mentre le note di Tie your mother down avevano riempito lo stadio. I fan avevano seguito Freddie come ipnotizzati dalla sua energia. Erano concentrati totalmente sul pezzo, nessuna delle quattro regine aveva sbagliato una sola nota: una macchina collaudata e perfetta. Un boato aveva riempito l’arena quando la musica era finita. Freddie si era sentito magnificamente, vivo più che mai, perfettamente calato nel suo elemento. Era un animale da palcoscenico e lo sapeva. Durante una pausa la notizia era arrivata sul palco. Increduli i quattro rocker si erano guardati, non c’erano parole da dire. La notizia era talmente inconcepibile da sembrare falsa. John Lennon, assassinato.
Una girandola di domande si era rincorsa nella mente di Freddie e in quelle dei suoi compagni. Il silenzio si era prolungato. Freddie era stato indeciso se continuare a suonare, se dare la notizia o se interrompere lo spettacolo. Brian, che sapeva sempre quale fosse il tasto giusto da toccare con lui, gli mise una mano sulla spalla:

- Fred, dobbiamo continuare il concerto.


E lo avevano fatto, con una sorta di frenesia esagitata, per dire a quella puttana della vita che loro erano lì e non si sarebbero fermati, avrebbero suonato fino a farsi sanguinare le dita. Avrebbero cantato anche per chi non c’era più.
Uno squillo di telefono interruppe il pianto di Freddie. Con una mano si asciugò velocemente gli occhi.

- Come stai?.


Gli domandò Mary senza neanche salutarlo. Freddie si sedette sulla poltroncina accanto al mobile del telefono.

- E’ morto, Mary. Non riesco ancora a crederci.
- Nessuno ci riesce.
- Non so se ho voglia di cantare stasera.


Giocherellò con un pacchetto di sigarette. Dall’altra parte ci fu un momento di silenzio.

- Arrivo.


E Mary chiuse la conversazione. Freddie si accese una sigaretta ed aspirò con la testa poggiata al muro. Gli occhi chiusi, il prezioso kimono semiaperto sulle gambe allungate e incrociate all’altezza delle caviglie. Avrebbe potuto sembrare un principe orientale, uno di quei suoi antenati persiani che non nominava mai. A volte la stanchezza gli piombava addosso all’improvviso lasciandolo inerte. Quell’anno era stato denso di avvenimenti, massacrante: due album e il tour che sembrava non dover finire mai. Pensò che gli sarebbe piaciuto cambiare aria, aveva degli amici a Monaco, sarebbe stato interessante andare a vivere laggiù per un po’.
Il telefono ricominciò a suonare. A turno lo chiamarono Roger, Brian, John, il loro agente, qualcuno della casa discografica, amici. Tutti erano sconvolti e tutti volevano un qualche commento da lui. Ma cosa avrebbe potuto dire. L’enorme perdita che quella morte aveva causato a tutti loro era talmente evidente che lui poteva solo aggiungere un tassello allo sconforto generale. E poi c’era il concerto di quella sera e al momento era l’unica cosa che contasse per ancorarsi alla realtà che conoscevano e non farsi scivolare via.

Lo stadio di Wembley era gremito, i fan si agitavano entusiasti cantando insieme al loro idolo. Freddie si muoveva da una parte all’altra del palco, magnetizzando la folla con la potenza della sua splendida voce, riusciva a far fare loro tutto ciò che voleva. Li faceva agitare, urlare e piangere. Li faceva cantare a squarciagola, facendosi rincorrere lungo tutta la scala del pentagramma con urli scomposti che diventavano miracolosamente canto. La musica riempiva l’arena saturandola di note che si spingevano fino al cielo londinese. Roger pestava forsennatamente sulla batteria come se da quello ne andasse della sua vita, Brian suonava la sua Red Special con tanta foga da rischiare di fondere il penny che usava come plettro, mentre il basso di John sembrava quasi fumare per la veemenza con cui muoveva le dita sulle corde. La canzone arrivò al suo culmine con un assolo di chitarra da far venire i brividi. Le corde della Red urlavano spinte al limite della loro resistenza distorcendo il suono. Due colpi di batteria finali e la folla ondeggiò riscaldata dal calore generato dalla musica e dal suo stesso impeto in quella magica notte di dicembre.
Poi Freddie guardò sotto di sé, la marea di teste in attesa. Un cenno a Brian, Roger e John che annuirono di rimando. Quando la folla riconobbe la canzone un boato riempì lo stadio.  Immagina che non ci sia nessun paradiso***, cantò Freddie e con lui l’intera moltitudine che riempiva lo stadio. Immagina tutta la gente vivere per il  presente…ed era quello che prodigiosamente stava avvenendo proprio in quel momento. Nessuno più pensava a quello che era accaduto, né a quello che sarebbe stato il domani. C’era solo quell’ istante, ed era l’unica cosa che contasse davvero. Freddie aveva la voce roca per la commozione, ma allo stesso tempo l’emozione che provava era così immensa che era certo che John in qualche angolo di paradiso inesistente lo stesse ascoltando. Lasciò sfumare la canzone e guardò in alto: una stella sembrò brillare più intensamente.  Lanciò un bacio nella sua direzione e gli disse addio.




Note

* Versi tratti dalla canzone Life is real (song for Lennon) contenuta nell’album Hot Space (1982). Nonostante l’entusiasmo di Freddie, come fan trovo che l’esperimento funky dei Queen non abbia dato i risultati esaltanti che loro speravano.
** Canzone dei Police del 1979 contenuta nell’album Regatta de Blanc, salutato all’epoca come estremamente innovativo per il suo fondere elementi reggae e rock.
*** I Queen cantarono Imagine come omaggio a Lennon sia la sera del 9 dicembre 1980 a Wembley sia in altre date a Francoforte (14 dicembre) e a Monaco di Baviera (18 dicembre).

un'ultima noticina personale: mio dio che gioia, una sezione dedicata anche a Freddie! T__T

Vorrei ringraziare tutti i miei commentatori, davvero, sono commossa. Questa era la mia prima (e credo ultima) rpf e non pensavo riscuotesse tanti consensi. Ed è nata dall'amore che provo per Freddie da oltre un decennio ormai. Perciò grazie ragazzi perchè continuate ad amarlo e a ricordarlo.
   
 
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