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Autore: Koa__    16/12/2013    6 recensioni
A pochi giorni da Natale, Sherlock e John sono presi da un caso che li porta in un grande magazzino londinese e li obbliga ad un insolito (e scomodo) travestimento. Tra appostamenti, barbe finte e sonagli appesi alle scarpe, entrambi faranno un incontro che darà loro modo di riflettere.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Una shot per augurare Buon Natale. In particolare mando un augurio a Taila, perché la conversazione che abbiamo avuto è stata davvero piacevole. (È stato liberatorio confessare un po’ della mia pazzia.) Poi un bacio anche a: Nakahime e a SignorinaEffe87 e ovviamente alla mia Ice!!! Che adora Sherlock Holmes e non “ci sta più dentro” per la terza serie. (No, quella sono io... XD ma forse un po' anche lei). 

A tutte loro e a tutti voi che leggerete e forse (chi lo sa) commenterete, auguro un Felice Natale! Che possiate trascorrerlo in serenità e che siate amati.
Koa

 



 
 
Not a Christmas tale
 

 


 
Parlavano poco, ma trascorrevano il tempo insieme,
ognuno concentrato sulla propria voragine,
con l'altro che lo teneva stretto e in salvo,
senza bisogno di tante parole.
- La solitudine dei numeri primi -
 
 
 


La barba gli pizzicava, tanto per cominciare. Non c’erano dubbi su questo. [1] Il cappello di velluto rosso e bianco era troppo grande e gli scivolava sulla fronte, precludendogli una visuale nitida. Per non parlare poi della parrucca di fattura sintetica, che gli arrivava fino a metà schiena e che era davvero insopportabile. A peggiorare il tutto c’era la pancia, molto somigliante ad un cuscino sformato, troppo ingombrante e gli impediva di muoversi con agilità. Certo, fintanto che doveva star seduto su quel trono non era necessario che si mettesse a saltare o a correre, anzi data la situazione era vitale che rimanesse immobile. E lo stesso valeva per John. Non che si fosse travestito anche lui da Babbo Natale, ma quei dannati campanelli che aveva ai piedi e che si agitavano, suonando ad ogni singolo movimento, erano davvero snervanti. Erano ore che si erano appostati nel reparto dedicato alle decorazioni natalizie dei grandi magazzini di Harrods, ma ancora non era accaduto niente di rilevante. Sherlock non aveva idea di come potesse essergli venuta un’idea del genere: aveva avuto la certezza che fosse la cosa più logica da fare, pertanto non aveva badato a dettagli come l’abbigliamento che avrebbero indossato. Niente era più importante che capire come funzionava lo scambio della droga. Era necessario, vitale, spiare la rigida e apparentemente algida signorina Abbott e farlo da vicino. Perché quella donna era la chiave di tutto. Lo scambio avveniva ai grandi magazzini sotto gli occhi di ignari clienti, in un piano geniale e ben studiato che Sherlock Holmes doveva svelare. Il doversi travestire con cappelli a punta e barbe finte, era stata una svolta imprevista al piano originario. Di certo, Sherlock tuttora non era molto contento d’essersi conciato in quel modo; però aveva ammesso d’essersi divertito appena aveva visto John con indosso quel completo verde smeraldo, ma soprattutto, con quelle calze a righe bianche e rosse che gli arrivavano fino al ginocchio.

Erano da poco passate le sei del pomeriggio, mancavano pochi giorni alla vigilia e i grandi magazzini erano affollati. Essendo quello il reparto dedicato esclusivamente al Natale e dovendo interpretare il simpatico Babbo, Sherlock era anche costretto sopportare le lagne dei bambini che, a turno, gli si sedevano in braccio. Alcuni gli avevano addirittura raccontato per filo e per segno le vicende delle rispettive bambole o dell’amico immaginario, mentre altri si limitavano a desiderare cose impossibili tipo andare sulla luna o avere delle stelle vere in camera da letto. Non si era divertito, ma di certo aveva imparato che la fantasia dei bambini superava ogni sua proba immaginazione. Colui che fuori da ogni ragionevole dubbio aveva trovato la situazione spassosa, era stato senz’altro John. Specialmente quelle volte in cui Sherlock si voltava verso di lui e, con tono camuffato, diceva: “hai scritto, Cometa?”Allora, dal suo dottore partiva una sonora e cristallina risata che, in un paragone del tutto illogico, arrivava dritto fino al suo cuore, scaldandolo. In ogni caso, e nonostante il via vai di ragazzini, Sherlock non aveva mai perso di vista la signorina Abbott. In qualità di addetta alle vendite pareva avere molto da fare, ma fino a quel momento non era accaduto nulla di strano. Aveva dato qualche indicazione, aiutato un signore a trovare il giusto regalo per il figlioletto e poco altro.
«Tu non sei Babbo Natale!» La voce di un bambino sui quattro o cinque anni, arrivò alle sue orecchie, distraendolo. Abbassò quindi lo sguardo, trovandosi faccia a faccia con un piccoletto dall’aria sghemba. Portava un cappello arancione troppo grande per la sua circonferenza cranica, uno zainetto sulle spalle e la giacca aperta sul davanti, mostrava un maglione con una renna disegnata, tipo quelli orribili di John che Sherlock avrebbe tanto voluto bruciare. Il bimbo gli puntava contro un dito e nel suo sguardo pareva esserci la determinazione di chi sa la verità e la vuole dire ad ogni costo.
«Brillante» borbottò a mezza voce, stupito.
«Ma cosa dici? Lui è davvero Babbo Natale» intervenne invece John, sedando sul nascere la voglia del detective di mandare al diavolo il piccolo scocciatore, prima di tirargli una gomitata e costringerlo ad indossare di nuovo gli occhiali a mezzaluna che si era levato già da tempo.
«So che non è vero, perché Babbo Natale non esiste» insistette il bambino. John notò che Sherlock aveva già perso interesse per la conversazione ed aveva riportato tutta la sua attenzione sul caso. Si avvicinò quindi al bimbo, a ritmo dei campanelli, chinandosi di modo da poterlo guardare negli occhi.
«Quanti anni hai?»
«Cinque» trillò.
«Come sai che non si tratta di lui? Te lo ha detto qualcuno?»
«L’ho capito da solo» mormorò, fiero di sé. «Io sono intelligente, sono come lui» disse il piccolo, con sguardo trasognante, fissando il vuoto. Confuso, John si guardò attorno. Non c’era nessuno a parte loro e poi non stava indicando qualcuno in particolare, probabilmente doveva trattarsi del suo supereroe preferito o del personaggio dei cartoni animati che amava di più.
«Lui, chi?»
«Sher-Shertrlock Holmes» rispose, entusiasta. «Lui è bravo e io voglio diventare come Shertlock Holmes quando sarò grande. Avrò un cappello uguale uguale e una lente d’indigirmento, d’inidigirimento…»
«Una lente d’ingrandimento?» lo correse John, con tono bonario.
«Sì» annuì «però, la mia mamma, però, mi ha detto che non me la può comprare; tu lo puoi fare? Me la puoi prendere?» Il bimbo si aggrappò con forza alla manica verde della sua giacca e spalancò gli occhi quasi lo stesse implorando. Dirgli di no fu davvero difficile, tanto che si ritrovò con una terribile fitta al cuore che gli fece mancare il fiato.
«Mi dispiace, ma temo di non potere» mormorò «è la tua mamma a decidere cosa puoi avere e che cosa no. Però sai cosa posso fare? Io sono l’elfo di Babbo Natale, a me darà retta e gli dirò di portartene una.»
«Davvero lo puoi fare?»
«Certo e adesso va’, ti staranno cercando.»

Il bambino scivolò via tra la folla e il dottore lo seguì con lo sguardo, fino a che non svoltò dietro ad una colonna sparendo dalla sua vista. Si girò quindi verso Sherlock, era sicuro che avesse mormorato qualcosa di simile ad un: “perché illuderlo?” ma non ne era affatto certo. Gli tornò accanto e si soffermò ad osservarlo con attenzione, da quando stavano insieme non riusciva a non guardarlo, di solito si perdeva in minuti interi di contemplazione. Semplicemente gli piaceva. Sherlock era incredibilmente bello, a tratti pareva addirittura etereo. Anche se, a dire la verità, in quel momento di stupendo aveva ben poco: con indosso quegli occhiali, le sue iridi azzurre a stento s’intravedevano. E poi, probabilmente non aveva sentito nulla di quello che lui e il bimbo si erano detti, quando era concentrato su un caso niente riusciva a distoglierlo.
«Togliti quel sorriso compiaciuto dalla faccia, John, ho sentito tutto.»
«E non sei almeno un po’ onorato?»
«Perché dovrei?» chiese Sherlock, mostrando una di quelle espressioni che stavano ad indicare che non aveva la minima voglia di sottostare a certe idiozie.
«Beh, perché ti ammira e vorrebbe essere come te. Non ti sembra un motivo sufficiente? Fino a qualche anno fa eri considerato come un pazzo criminale e adesso sei l’idolo dei bambini, mi pare un bel passo in avanti per la tua reputazione.»
«Non m’importa di quel che pensa la gente, John e non dovrebbe interessare neanche te. E ora riporta lo sguardo sulla Abbott, c’è stato uno strano movimento negli ultimi minuti.»
«Movimento?» ripeté il dottore, ora interessato.
«Una donna le si è avvicinata chiedendole di poter cambiare un regalo, hanno parlato per cinque minuti abbondanti, ma non sono riuscito a seguire l’intera conversazione perché i loro visi mi erano preclusi.» John parve pensarci per un momento, la sospettata lavorava come addetta alle vendite in uno dei centri commerciali più grandi di Londra, non era poi così inusuale che qualcuno la avvicinasse o che si trattenesse a chiacchierare per più di un minuto. Certo, Sherlock diceva che lo scambio della droga avveniva lì proprio per quel motivo e che c’era una certa logica dietro la scelta del luogo e dei tempi. Non era però sicuro di nulla, perché sì, quel caso non gli interessava per niente. Non era affascinate, né appassionante. Anzi era una vera e propria rottura e poi si sentiva un cretino con quei vestiti addosso. Le scarpe erano un attentato all’udito, per non parlare del fatto che i vestiti erano pruriginosi, tanto che era quasi sicuro d’avere le pulci. Certo che se guardava Sherlock e la sua barba, per non parlare del vestito ingombrante, si rendeva conto d’esser stato tutto sommato molto fortunato. Oddio, non che avesse programmato di trascorrere in quel modo la settimana che precedeva il Natale. A casa non avevano ancora fatto l’albero, né sistemato le luci colorate e i regali non aveva nemmeno avuto il tempo di pensarli. Sherlock era stato talmente assorbito da quel caso che si era portato dietro anche lui. Quell’omicidio avvenuto nei magazzini di Harrods ormai tre settimane addietro, era più complicato del previsto e li aveva portati a delle svolte che entrambi non avevano preventivato. E ora, invece che starsene a casa a sorseggiare del tè all’arancia, era conciato come uno scemo. John guardò l’orologio dopo che, pochi istanti più tardi, Sherlock fu scattato all’impiedi. Strano, non erano nemmeno le sette e lui già se ne andava. Lo vide digitare qualche parola sul cellulare, dopodiché si avviò verso la porta che dava alla zona dedicata al personale di servizio. Quando erano stati assunti infatti, avevano dato loro una stanza nella quale riporre i vestiti e avere il modo di cambiarsi. Mentre svicolava tra gli scaffali e i corridoi, non si prese nemmeno la briga di chiedergli come e se avesse risolto il caso, tutte le volte che scattava in quel modo era perché aveva capito qualcosa di fondamentale. Quindi si limitò a seguirlo, affrettando semplicemente il passo. Si sentì inappropriato a pensare a certe cose mentre era vestito da Cometa, ma nonostante ciò, il suo sguardo non faceva che cadere sul suo fondoschiena. Quell’abito lo rendeva irriconoscibile e con quella barba perdeva molta della sua bellezza, diciamo pure che lo imbruttiva, i pantaloni però gli facevano davvero un bel sedere. Che male c’era se dava una strizzatina? Una sola. Giusto una palpatina veloce, prima di andare e magari provando a fargli capire in quali attività avrebbe voluto intrattenerlo una volta arrivati a casa. Erano giorni che erano presi da quel caso e a stento si erano baciati, fatto che John reputava terribile perché lui aveva bisogno di Sherlock, era la sua linfa vitale. E non per il sesso (cioè anche, ma non solo per quello) era un qualcosa che aveva a che fare con il contatto fisico: baciarlo, toccarlo e abbracciarlo era divenuto essenziale e ormai, dopo anni, non poteva più rinunciarvi.

Appena ebbero oltrepassato la porta che dava al piccolo e buio corridoio, accelerò di nuovo il passo e, mentre le campanelle suonavano ancora più insistenti, allungò una mano strizzandogli una natica. Lo vide sussultare impercettibilmente e poi lanciargli un sorriso che sapeva di malizioso, segno che aveva capito ogni cosa. Perché lui e Sherlock non avevano mai bisogno di parole. Parlare per spiegare un concetto era noioso, e non soltanto per il geniale detective. Quando bramavano più contatto si fissavano e ad entrambi era sufficiente uno sguardo d’intesa, per comprendere che cosa stesse passando nella mente dell’altro. Quel che in quel momento c’era negli occhi di Sherlock, era proprio lussuria.
«Non sai da quanto avevo voglia di farlo» sussurrò John al suo orecchio, con tono lascivo prima di sparire oltre la porta. Giunto sulla soglia, Sherlock si soffermò un momento a guardare il suo dottore; aveva risolto il caso e pertanto tutti i suoi interessi adesso erano rivolti a lui. Non gli importava più di niente se non di John e di quella voglia di fare l’amore che stava crescendo pian piano. Tuttavia, prima di avventarsi, la prima cosa che si impose di fare era di levarsi di dosso quel ridicolo travestimento. Una volta giunto nel camerino, il cappello rosso fu il primo a finire a terra e appena dopo qualche istante, fecero la stessa fine anche gli occhiali a mezzaluna, la barba finta e la parrucca sintetica.
«Ti prego, liberati di quelle dannate scarpe» mormorò, mentre cercava (inutilmente) di slacciare la grossa cintura di vernice nera che gli cingeva la vita. Fu poco più tardi che un John Watson a piedi scalzi, gli si avvicinò con fare languido. Si guardarono e si sorrisero, dopodiché il dottore posò le mani sul suo pancione iniziando ad accarezzarlo.
«Aspetta» gli ordinò, prendendogli le mani «ti aiuto io a svestirti: tu non arrivi nemmeno a toccarti la zip dei pantaloni.»
«Non sono io, è questa stupida pancia.» Sherlock percepì le sue dita slacciargli tutti i bottoni per poi aiutarlo a liberarsi degli ingombri, quindi si protese maggiormente posandogli un primo bacio sulle labbra. Probabilmente quello di John non voleva esser niente di che, un leggero sfiorare per darsi un primo saluto, ma Sherlock non era della sua stessa idea ed iniziò ad approfondire. Le loro lingue danzarono mentre le rispettive mani presero a vagare senza sosta, cercando contatto, bramando pelle e sudore.  
«Ma bene, vedo che è così che si difende la legge.» La voce dell’ispettore Lestrade li fece sussultare entrambi, si voltarono verso la porta e John non poté non notare un forte disappunto sul viso del suo ragazzo.
«Greg!» esclamò, allontanandosi da Sherlock in modo quasi brusco.
«Ragazzi, vi sembra il luogo adatto per fare certe cose?»
«Lo stavo solo aiutando a svestirsi» precisò John, levandosi il cappellino e posandolo sul tavolo al centro della stanza prima di chinarsi e raccogliere quanto finito a terra.
«Mh, lo vedo...»
«Quanti uomini le hai messo dietro?» intervenne Sherlock, interrompendolo.
«Due.»
«Di sicuro sta andando a portare la droga, quella donna che le si è avvicinata non era lì per cambiare un regalo.»
«Come hai fatto a capirlo?» domandò invece John, ora curioso.
«Elementare: la bambola che si sono passate di mano era da collezione, di quelle in ceramica e con i vestiti fatti su misura. Harrods, seppur ben fornito, non vende bambole con capelli veri e dipinte a mano. Scommetto che la droga viene nascosta all’interno.»
«Raccoglieremo le prove necessarie ed otterrò un mandato dal giudice. Se hai ragione, allora è lei l’assassina.»
«Io ho sempre ragione, Lestrade e ora dicci il reale motivo per il quale sei venuto fin qui» disse, mentre si levava anche i pantaloni.
«Motivo?»
«Tutto questo potevi farmelo sapere anche per messaggio, se sei qui c’è una sola ragione e la risposta è no, non intendo fare nulla del genere e bada di riferirlo immediatamente.»
«Che risposta? Di cosa parlate?» intervenne John, senza capire.

Lestrade sbuffò sonoramente, a quanto pareva era vero: convincere Sherlock Holmes a fare qualcosa era impossibile. Esattamente come gli era stato detto, l’unica maniera per smuoverlo era dire tutto al dottore; John era il solo essere vivente sulla faccia della terra a cui quel sociopatico desse retta e a poter dare ordini al geniale consulente investigativo. Greg aveva smesso di domandarsi come fosse possibile che un medico, dall’aria mite e bonaria, mettesse così tanta soggezione ad un uomo come Sherlock. Era già molto tempo che aveva notato una strana alchimia correre fra di loro, ma non si era mai per davvero reso conto di quanto Sherlock ne fosse affezionato e non era un caso che a fargli notare certi particolari, fosse stato Mycroft. Ma Greg non si soffermò a rifletterci e decise per raccontare tutto a John. Si schiarì la voce, tossicchiando appena mentre si grattava la nuca, imbarazzato.
«La signora Holmes, la mamma di Sherlock e Mycroft, sta organizzando una cena per la vigilia di Natale.»
«Sta’ zitto, Lestrade» sibilò il detective, con fare minaccioso.
«E ha invitato me e Mycroft e te e Sherlock. La signora Holmes ci tiene molto e desidera averci tutti presenti, in particolar modo vorrebbe vedere suo figlio minore che si nega da tempo, e conoscere il suo compagno che in quasi cinque anni non ha mai visto.»
«Sherlock!» esclamò il dottor Watson, palesemente scandalizzato «ma certo che verremo, puoi tranquillizzarla.»
«Ma, uffa» borbottò invece Sherlock, lamentoso.
«Ho detto che ci andremo. Dopo anni che ti conosco, ancora non ci hai presentato.»
«Beh, neanch’io ho mai incontrato tua sorella...»
«Sai abbastanza cose di lei, da volerti tenere lontano. E poi è inutile che provi a cambiare argomento, rinunciaci, non mi farai cambiare idea quindi non pensare di potermi manipolare come fai di solito.» La conversazione morì lì, con l’espressione corrucciata e contrariata a dipingere il volto di Holmes e con il divertimento, nemmeno troppo velato, di Lestrade che si lasciò andare ad una leggera risata soddisfatta. Mycroft aveva sempre ragione.

Si rivestirono rapidamente, tanto che pochi minuti più tardi stavano già percorrendo il corridoio semibuio. Greg e John parlavano riguardo la cena di Natale; discutevano di inutili dettagli di cui a Sherlock niente importava, del tipo cosa avrebbero dovuto portare o quanto brava fosse sua madre a cucinare. Per sua fortuna non dovette sorbirsi quelle inutili chiacchiere a lungo, perché appena rientrarono nel reparto, qualcosa attirò l’attenzione di Sherlock e quelle chiacchiere divennero immediatamente lontane.
«Che c’è?» gli domandò John, notando la sua distrazione. Ma lui non rispose e li oltrepassò dirigendosi a grandi passi verso l’albero addobbato, situato proprio di fronte all’entrata. Si chinò sul tappeto morbido, sistemandosi tra i finti regali e i giocattoli sparsi qua e là. Fu allora che poté vederlo negli occhi. Perché lì, proprio come se fosse un pacchettino coperto di carta colorata, un bambino se ne stava seduto a gambe incrociate ed ora lo fissava.
«Ciao» lo salutò Sherlock. Il bimbo dal cappello arancione sollevò lo sguardo, adesso il soldatino che teneva stretto in mano non era più così interessante.
«Ciao» ripeté il piccolo, abbassando gli occhi e stuzzicando il fucile di plastica del militare, con la punta delle dita.
«Babbo Natale mi ha detto di portarti una cosa.»
«Non esiste» precisò, vagamente saccente.
«Era un tizio vestito come lui» si corresse quindi Sherlock. Il piccolo sollevò nuovamente lo sguardo, prendendo a scrutarlo con curiosità; probabilmente era la prospettiva di un regalo ad averlo fatto cedere riguardo la sua, in ogni caso corretta, sensazione che Babbo Natale non esistesse.
«Chi sei?» domandò il bimbo.
«Io sono Sherlock Holmes e ti ho portato questa.» Il bambino sgranò gli occhi non appena sentì il suo nome e spalancò la bocca in un moto di sorpresa, appena Sherlock gli porse una lente d’ingrandimento, lente che gli venne strappata letteralmente di mano, con foga. Quel piccolino era il ritratto della felicità, ora studiava l’oggetto con estrema attenzione e con quel sincero e vivo stupore che solo i bambini riescono ad avere.
«Davvero la posso tenere?»
«Certo che sì, altrimenti non te l’avrei data. Piuttosto, vorrei che mi dicessi una cosa» Sherlock s’interruppe, schiarendosi la voce e poco dopo riprese: «qual è il tuo nome?»
«Mathias» esclamò, ancora rapito dalla bellezza di quel vetrino.
«La tua mamma lavora qui?»
«No.»
«Ti sei perso e non sai più come tornare a casa?»
«Ehi, ho cinque anni non sono mica stupido. Lo so dove abito, devi andare vicino al giardino con le statue e poi camminare sul marciapiede fino alla fermata dell’autobus, devo guardare a destra vicino alla casa rosa e sono arrivato. Poi se mi perdo, devo domandare aiuto a un poliziotto.»
«Se sai come fare, perché te ne stai qui?»
«La mia mamma mi ci ha portato dopo che ci siamo svegliati, mi ha detto di stare vicino all’albero e io ci sono rimasto» disse, facendo spallucce. «Penso che tra poco verrà a prendermi perché io ho fame e lei sa sempre quando ho fame.»
«Capisco… Ascolta, posso chiederti un grande favore?»
«Sì, ma fai in fretta perché tra cinque minuti io devo andare via.»
«Posso vedere cosa tieni nel tuo zainetto?» Seppur titubate, Mathias acconsentì e allungò una mano fino ad afferrare la piccola borsa colorata che aveva accanto. Non appena vide che si stava allontanando, assunse un’espressione confusa, Sherlock si affrettò a rassicurarlo sul fatto che restasse lì nei paraggi e che volesse soltanto farlo vedere ai suoi amici. Appena si voltò, l’espressione giocosa e serena che aveva tenuto fino a quel momento, scivolò via tutta insieme mostrando un profondo turbamento. Di solito non si lasciava mai sopraffare dalle emozioni, ma questa era tutta un’altra faccenda. E se i suoi sentori riguardo quel bambino erano corretti, allora non c’era davvero niente di cui esser contenti. Era stato concentrato sulla Abbott, ma aveva comunque notato Mathias, erano ore che gironzolava e non era mai accompagnato. Evidentemente nessuno ci aveva fatto caso, la bolgia di quei giorni era talmente tanta che notare un bambino di cinque anni da solo, non era poi così facile. Per una mente comune, ovviamente.
«Che succede?» gli domandò Greg, spezzando il fruire dei suoi pensieri.
«Quello è il bambino di prima» notò invece John, spiando attraverso i rami dell’abete decorati di festoni.
«Ho ragione di credere che sia stato abbondato, guarda dentro deve esserci qualcosa: una lettera, un foglio, una busta... qualcosa!» Lo yarder si affettò a rovistare e non impiegò molto a trovare quanto Sherlock aveva detto, c’era un piccolo foglio ripiegato in una delle tasche. Lo lesse rapidamente, annuendo in modo grave.
«Si chiama Mathias Fisher, nato a Bristol [2] il primo gennaio del 2009. La donna che lo ha lasciato non ha idea di chi sia il padre. Il piccolo è celiaco e allergico ai kiwi. Dice che non può occuparsi di lui e spera che un’anima gentile lo accolga in casa propria.»
«Santo cielo» sbottò John, esterrefatto. «Come diavolo si fa ad abbondare un bambino? A Natale poi...»
«La comune concezione che in questo periodo dell’anno tutti siano più buoni, è errata
» mormorò Sherlock, sbuffando sonoramente. «E la situazione nella quale ci troviamo dovrebbe suggerirtelo, John. Siamo qui per inseguire una sospetta omicida che spaccia cocaina con delle bambole da collezione, in un grande magazzino. Per quale motivo una prostituta alcolizzata non dovrebbe abbandonare il proprio figlio a Natale? È un giorno come un altro, i criminali continueranno ad essere dei criminali. Sono solo gli idioti ad essere un poco più idioti del solito. Siete davvero convinti che un po’ di neve finta e un albero decorato facciano la felicità? Il vostro concetto di cosa renda felice una persona è quantomeno riduttivo, oltre che svilente.»
«Oh, andiamo, Sherlock non fare il Grinch!» sbottò Lestrade, scrollando il capo. «Hai ragione, i delinquenti saranno sempre dei delinquenti, ma questo non significa niente. Perché non è vero che per le persone la felicità è delle neve finta su un albero pieno di palline, ma è altro. Per tua madre vuol dire vedere suo figlio e per tuo fratello averci tutta alla stessa tavola. Io stesso non rinuncerei mai a stare con le persone che amo e se questo vuol dire essere idioti, allora io e Mycroft lo siamo e, guarda un po’, anche tu lo sei. Perché sono sicuro che tu a quella cena ci voglia venire.»
«Cosa facciamo con lui?» intervenne John, cambiando argomento. Aveva davvero apprezzato le parole di Lestrade e sicuramente gliele avrebbe dette lui quelle cose a Sherlock, perché di tanto in tanto sembrava davvero un elfo pestifero. In quel momento però non riusciva a pensare al suo ragazzo e ai suoi problemi con la normalità, perché più di ogni altra cosa era importante quel bambino e il suo futuro.
«Dovrò denunciare il suo abbandono e sarà portato in una casa di accoglienza, mentre svolgeremo le indagini, poi potrà essere dato in affido. Ma saranno procedure lunghe.»
«Parlo io con lui» mormorò Sherlock, sorprendendo entrambi.

Dirglielo, fu una delle cose più difficili che il grande detective Sherlock Holmes ebbe mai dovuto fare in vita sua. Sul momento non seppe dire perché si stesse per imbarcare in una cosa simile, ma gli occhi di quel bambino così grandi e sgranati, gli trasmettevano una strana sensazione. In genere non si interessava a nessuno fuorché a John o a sé stesso, ma la condizione di Mathias lo toccava nel profondo. In una qualche maniera questa faccenda del Natale doveva averlo contagiato e fu proprio per quei sentimenti che albergavano dentro di lui, che dopo che si fu accovacciato al suo fianco, strinse forte i pugni come se cercasse d’infondesi quel coraggio che pareva non voler arrivare. Era un bambino ed era solo. Ecco qual era l’epicentro del suo malessere, e di che cosa era fatto quel nodo che gli si era formato in gola. In quei giorni ne aveva visti tanti di bimbi. Di sicuro si era ricordato perché li detestasse tanto: erano viziati, chiassosi e pretenziosi, tanto che considerò una benedizione il non averne uno tra i piedi. Ma il piccolo Mathias era diverso. John probabilmente avrebbe detto che aveva a che fare con il fatto che fosse un suo fan, ma non era propriamente così. C’era qualcosa e non riusciva a dargli un nome, ma assomigliava così tanto alla tristezza… Ed era la condizione di quel bambino a renderlo triste.
«C’è una cosa che devo dirti, Mathias e riguarda la tua mamma» esordì poco dopo.
«Ti ha telefonato?» domandò, speranzoso.
«So che sei intelligente e che capirai quel che sto per dirti.» Sherlock indugiò per un momento, trovare le parole da dire per parlare con un essere umano tanto piccolo non era facile.
«Lei non verrà a prenderti.»
«Mi porti tu da lei?»
«La tua mamma non c’è più, d’ora in avanti dovrai vivere senza di lei; credi di potercela fare, Mathias?»
«Io no… Io… voglio la mia mamma.» Fu allora che la situazione parve diventare ingestibile, il bambino iniziò a piangere sonoramente e a singhiozzare. Di principio, Sherlock non seppe davvero cosa fare: non si era mai trovato in una situazione simile. Quindi fece la sola cosa logica che gli venne in mente, lo prese per mano e lo invitò a venir fuori da lì. Gli parve essere un buon modo per cominciare; il secondo passo era lasciarlo a Lestrade, ma proprio quando stava per sciogliere le loro mani allacciate, il piccolo afferrò forte il suo dito e a Sherlock per un momento mancò il fiato. Faceva uno strano effetto, quella mano così minuta che afferrava la sua… Erano fenomenali le sensazioni che riusciva a trasmettergli. La più strana di tutte era l’istinto di protezione, che era del tutto simile a quello che sentiva per John. Era abituato alle emozioni, ma non lo era a provarne per uno sconosciuto. Ed era destabilizzante. Portò ancora lo sguardo su Mathias: aveva smesso di piangere, ma i suoi occhi erano sgranati e lucidi e le piccole guance arrossate, erano rigate di lacrime. Si chinò al suo fianco e gli passò una mano tra i capelli biondi, scompigliandoli amorevolmente. Non sapeva se quel gesto fosse adatto perché quando era piccolo e sua mamma lo spettinava, lui la odiava; però tutte le volte in cui John gli infilava le dita tra i ricci, lo trovava rilassante.
«Non puoi diventare tu la mia mamma?» domandò Mathias, tra i singhiozzi.
«No, non puoi stare con me. Posso farti una promessa però, questo signore mi dirà dove starai e io ti verrò a trovare. È vero che Babbo Natale non esiste, ma a questo puoi credere perché quando Sherlock Holmes fa una promessa, stai sicuro che la mantiene.» Quel che avvenne dopo dovette essere noioso per Mathias, di sicuro lo era per Sherlock. Dopo che gli uomini di Scotland Yard gli ebbero fatto sapere che avevano trovato il covo e scovato la droga, non avevano festeggiato e non erano nemmeno tornati a Baker Street. Anzi, Sherlock era rimasto accanto al piccolo per tutto il tempo, seguendolo fino alla centrale di polizia ed accompagnandolo personalmente agli assistenti sociali. Per tutta la sera lo aveva tenuto per mano, facendolo ridere con delle smorfie buffe; addirittura lo aveva portato in bagno e dato da mangiare. Era insolito sì, ma più che trovarlo strano, John Watson sentiva il bisogno di capire il perché. Sherlock era una persona complessa e non per via del fatto che fosse difficilmente sopportabile, ma perché erano intricati i pensieri che faceva. I sentimenti che provava, ad esempio, spesso erano contrastanti gli uni con gli altri. Il suo cervello non era solamente quello mnemonico palazzo mentale che conteneva nozioni e formule, ma era un intricato labirinto di sensazioni ed emozioni, di pensieri riguardo la vita, la morte, la solitudine e l’amore. Indubbiamente faticoso da capire come un libro di filosofia, ma bellissimo da leggere come un taccuino pieno di poesie. E il sentimento che traspariva più di frequente, era senz’altro il male di vivere. La solitudine nella quale si era sempre trovato, il suo sentirsi diverso e unico, lo lasciva andare di tanto in tanto a profonde riflessioni che assumevano toni malinconici. Non ne parlava mai, non discutevano di quelle cose, ma John sapeva che era ciò a cui pensava quando si metteva davanti alla finestra e suonava il violino. Il suo ragazzo difficilmente parlava di sé, della sua infanzia, di che significasse essere geniali, di cosa volesse dire sentire e vedere tutto. Lui era solo un dottore e non aveva idea di come fosse essere Sherlock Holmes, ma faceva di tutto per stargli vicino e per far sì che capisse che non lo avrebbe mai lasciato; che non sarebbe stato solo mai più. Prima di conoscersi si trovavano entrambi sull’orlo dell’abisso e, se il suo malessere era meno autodistruttivo di quello di Sherlock, non significava che non fosse altrettanto pericoloso. Da quando si erano conosciuti però, era come se si tenessero stretti l’un altro, impedendosi a vicenda di scivolare di nuovo nel baratro. Era vero, Sherlock pensava molto a quella che era stata la sua vita prima di conoscerlo, rifletteva per ore rintanandosi nei misteri della sua mente, ma gli rimaneva ugualmente aggrappato e John ringraziava il cielo per questo. Ma ora… L’atteggiamento che aveva e lo strano velo che incupiva il suo sguardo, lo preoccupavano. La tristezza che leggeva dietro i sorrisi sghembi e burloni, lo inquietava, o meglio, terrorizzava. Che cosa aveva quel bambino di tanto speciale, d’aver scatenato in Sherlock Holmes un così palese turbamento?
 


 
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Il piccolo Mathias svanì dalle loro vite in meno di un battito di ciglia mentre le risposte alle domande di John, arrivarono durante quella famosa cena di Natale alla quale, alla fine, erano andati. Avevano già finito di mangiare, la padrona di casa si era ritirata nella propria stanza già da un'ora abbondante e Sherlock se ne stava seduto sulla poltrona di fronte al camino. Sorseggiava un bicchiere di cognac e guardava le fiamme ardere vive. John gli si avvicinò, posandogli una mano sulla spalla e risalendo in una lenta carezza che arrivò fino ai capelli ricci, capelli che non mancò di scompigliare con un gesto affettuoso.
«Tutto bene?» domandò.
«Mycroft è innamorato di Lestrade.»
«E te ne rendi conto adesso? Stanno insieme da anni.»
«Non ci avevo mai badato» mormorò, accennando un’alzata di spalle.

Il dottore s’inginocchiò di fronte a lui, soffermandosi un istante a guardarlo negli occhi, era dannatamente bello e così splendido da fargli mancare l'aria nei polmoni. E con la luce tenue del fuoco ad illuminargli i lineamenti del viso e a riflettersi nelle sue iridi chiare, era ancora più meraviglioso. Gli accarezzò il volto indugiando sulle guance, arrossate dai fumi dell’alcool e coperte da un velo appena percettibile di barba. Proprio come s’aspettava, al tocco lo vide spingersi contro la sua mano aperta così da cercare maggiore contatto. Come un gatto che fa le fusa quando lo accarezzi e che chiude gli occhi strusciandosi addosso per cercare calore.
«Cosa c’è, Sherlock? Sembri malinconico ed è per via del bambino, vero?» Il detective non rispose e si limitò ad annuire. «Avevo capito che Mathias aveva smosso qualcosa dentro di te, ma non riesco a capire quale sia il problema.» Il silenzio calò in quella stanza, solamente il crepitare della legna e le chiacchiere di Mycroft e Lestrade provenienti dalla sala adiacente, facevano da sottofondo. Dopo aver posto quella domanda che già da giorni gli ronzava in testa, John non insistette oltre. Lasciò che Sherlock radunasse le idee e si prendesse tutto il tempo necessario per rispondergli. Perché forzarlo non avrebbe portato a niente, se non a farlo chiudere ancor più in sé stesso; quello era un lato di lui che John aveva imparato a conoscere e non intendeva peggiore ulteriormente la situazione.
«Quel bambino è come me» esordì dopo interminabili minuti di non parlare, nei quali John si era letteralmente accucciato ai suoi piedi, sedendosi su un morbido tappeto candidamente bianco. «Non parlo del fatto che sia un sociopatico ad alta funzionalità, ma perché…»
«Perché è solo» concluse il dottore, annuendo.
«In modi diversi, ma è così. Io non sono mai stato abbandonato a me stesso, nel senso fisico del termine, per me c’è sempre stato mio fratello e prima di lui i miei genitori, ma un conto è avere delle persone sulle quali puoi contare e che magari vivono addirittura con te, un altro è sentirsi soli. Il sapere che nessuno è come te e che anima viva potrà mai capirti, è come un abisso di cui non vedi la fine. Quel bambino è stato abbandonato dalla madre, John e sarà solo per il resto della sua esistenza; fino a che vivrà non farà che chiedersi perché quella donna lo abbia rifiutato. Quindi non siamo poi così diversi.»
«Tua madre non ti ha abbandonato» gli fece notare.
«Rifiutati da una persona o da mille altre, non fa differenza.» [3]
«Sherlock» disse John, sospirando. «Non potrò mai sapere cosa si provi ad essere te o che cosa voglia dire essere un genio, ma tutte le persone di questo mondo cercano qualcuno che le capisca. Questo desiderio che hai di venir compreso e di venir amato non è una tua prerogativa, tutti lo abbiamo. Un conto è essere soli qui» disse, picchiettando le dita sulla sua tempia in parte coperta dai ricci scuri. «Un altro è esserlo qui.» Ora invece stava battendo la mano sul petto, proprio all’altezza del cuore.
«Cuore e cervello: non cambia nulla si tratta sempre di me» mormorò il detective, questa volta distogliendo gli occhi e guardando altrove.
«Fa una differenza enorme, invece. La tua mente è unica, eccezionale e sarà sempre sola perché nessuno riuscirà mai a starti dietro, nessuno. Ma il tuo cuore, Sherlock batte insieme al mio... Lo sai che ti tengo aggrappato a me con tutte le forze? Così come io lo sono a te.» Nella stanza calò il silenzio, di nuovo. Si guardarono per momenti infiniti, attimi nei quali John riuscì ad intravedere la difficoltà che Sherlock aveva d’esprimersi. Quell’espressione persa infatti, era lampante. Parlare dei propri sentimenti era complicato; avevano già aperto i rispettivi cuori e il suo detective gli aveva fatto capire d’amarlo, più di una volta. Raccontare delle oscurità celate nella propria anima però, non era come dirsi ti amo. E anche quella volta, John non aggiunse nient’altro, il suo sguardo trasmetteva già tutto quanto. Non era necessario dirgli che lo avrebbe sempre supportato, che avrebbe provato a capirlo fino all’ultimo dei suoi giorni e che mai lo avrebbe giudicato. Sherlock già lo sapeva.
«Hai ragione, John: cuore e cervello sono due cose differenti. E adesso che ci sei tu, io non mi sento solo, però…» Le parole sembrarono morirgli in gola, il dottore si issò sulle ginocchia, gli prese le mani tra le proprie e ne baciò le nocche. Dio, doveva essere così difficile da dire, che a Watson stesso fece male il petto per quanto quelle frasi faticavano a venir fuori.
«Vedere quel bambino abbandonato a nemmeno cinque anni d’età, John, ha cinque anni e lo hanno lasciato solo! Il fatto in sé mi rattrista, ma il mio turbamento non è dato esclusivamente da questo. La verità è che ho avuto paura. Paura, che tu ti potessi comportare come la madre di Mathias e mi lasciassi. Io non voglio offenderti, ma, John» esclamò con più vigore sollevando lo sguardo. «Una volta avevo una famiglia e nonostante questo ero da solo, proprio come Mathias. Adesso non è più così, perché tu sei con me e non ho mai incontrato nessuno di così adatto e l’idea di venir lasciato è... John, ci sono delle volte in cui non riesco a respirare per quanto mi faccia male il petto e mi detesto perché quello che penso è illogico e per la mia mente non ha alcun senso.»
«Tu lo sai che io non potrei mai, vero?» precisò il medico.
«Sì» annuì Sherlock.
«Non devi spaventarti per cose del genere, lo so che non sono pensieri razionali e che per questo ti arrabbi con te stesso. Rinchiuderti in un ostinato mutismo però, non è la soluzione giusta. Mi prometti che la prossima volta che avrai un problema me ne parlerai?» Il detective annuì e un sorriso più tranquillo tornò finalmente a dipingerli il volto. Si baciarono e poi risero ancora, addirittura Sherlock pretese d’approfondire il contatto e si ritrovarono presto distesi in due su quella stessa poltrona, stretti l’uno all’altro. A baciarsi, a toccarsi e a guardarsi, a fare l’amore con gli occhi come sapevano fare. A respirare l’uno nella bocca dell’altro, a scolarsi il cognac pregiato di Mycroft e  sussurrarsi parole all’orecchio. A prendere in giro Lestrade e Scotland Yard. Ad essere John e Sherlock e basta.
«John, io ti… Ecco, io ti ho già detto che…»
«Sì lo so.» E lo sapeva davvero: non mentiva a riguardo perché Sherlock lo amava e il dottore ne era certo.
«No, non è possibile» negò il detective, con un cenno vigoroso del capo «non lo puoi sapere. Ti ho detto che ti amo, ma mi sto rendendo conto che la parola amore non è sufficiente. Dovrebbero inventarne una più grande e meno riduttiva.»
«Riduttiva?» ripeté il medico «Ti amo, è riduttivo?»
«Amore è un termine troppo debole, io ti stramo, ti adamo, ti abramo…» [4] John non gli permise di proseguire oltre con baggianate del genere e lo baciò con così tanta foga e passionalità, che senza nemmeno accorgersene si ritrovò seduto sulle sue ginocchia, aggrappato a lui non solo nell’anima, ma anche nel corpo. Rimasero abbarbicati in quel modo per un periodo indefinito, il tempo stesso parve volersi dilatare appositamente per loro e concedergli quei momenti di pace e serenità di cui avevano un disperato bisogno.
«Andrai davvero a trovare Mathias?» domandò John, spezzando il silenzio, minuti (forse ore) più tardi.
«Ovvio, quel bambino è estremamente brillante per avere cinque anni, sono sicuro che con la giusta influenza possa diventare meno idiota della maggior parte delle persone.» Il dottore ne rise, ma un lato di lui si ritrovò ad essere davvero contento e beh, anche sollevato: perché vedere Sherlock infelice gli faceva piangere il cuore.
«Sai per un momento ho creduto che volessi adottarlo.»
«Sei per caso impazzito?» chiese il detective, strabuzzando gli occhi. «Con la vita che facciamo come possiamo pensare di prendere uno di quei cosi con noi? E poi adesso lo vedi piccolo, carino, intelligente e simpatico, ma quando ce l’hai per casa tutti i giorni e devi correre avanti e indietro esclusivamente per sottostare a dei capricci, non si sembra più così simpatico.»
«Sherlock, ti rendi conto che hai appena descritto la mia vita? Io corro già avanti e indietro per seguire i piagnistei di un bambino cocciuto e molto, molto cresciuto.»

Risero e si baciarono ancora, stretti nel calore del loro abbraccio e riscaldati dal tepore delle fiamme del camino, inebriati dai fumi dell’alcool, non poterono davvero mettersi anche solo pensare di riuscire ad allontanarsi.
«Ricordi quel discorso sulla felicità, John?»
«Mh» annuì lui, strusciandosi contro la stoffa leggera della sua camicia viola, come fosse un gatto.
«Ritengo che se in futuro dovrò mai associarne il concetto a qualcosa, penso che potrei... ecco sì, insomma, credo che ripenserei ad adesso.»
«Quindi non ti senti solo?» chiese John, speranzoso.
«Se faccio un calcolo percentuale, prendendo in considerazione i fattori di… Beh, no, con te mai» concluse, tagliando corto. Il dottore lo baciò dolcemente, lo strinse a sé e si strinse a lui con forza quasi non volesse mai più lasciarlo. Era radioso, anzi molto di più: era entusiasta. Perché sapeva che quel barlume di felicità che leggeva negli occhi e nel volto del suo Sherlock, non era mera immaginazione. Non si trattava di bugie o finzione, ma era la pura verità. Di sicuro il suo concetto di amare era diverso da quello del suo ragazzo e molto più semplice da esprimere rispetto al modo contorto ed intricato di Sherlock. Era più facile trovare l’uscita del proprio labirinto mentale e dirgli che lo avrebbe sempre amato e mai abbandonato. Ma forse non erano così diversi come John credeva, perché a tutte e due bastava che l’altro stesse bene, che fosse lì, vivo e che gli mostrasse, almeno in parte o anche solo per un momento, che era felice. Il fatto che fosse anche Natale era una bella cornice, ma era relativo.


Fine
 


[1] L’intro richiama quello di “Christmas Carol” di Dickens (cito): “Marley was dead: to begin with. There is doubt whatever about that.”
[2] Bristol è una contea del sud ovest dell’Inghilterra che dà il nome anche alla rispettiva cittadina.
[3] “Rifiutati da una persona o da mille altre, non fa differenza”. Io parto da un concetto: i sociopatici sono persone contorte e complesse e di sicuro (in parte) se ne fregano di essere soli e di non essere accettati. Pertanto se la prendiamo da puristi, questo pensiero non ha ragione d’esistere su Sherlock, ma io ritengo che le persone non siano bianche o nere, che tra un colore e l’altro ci sia un universo in mezzo e che tra i mille pensieri della mente ad alta funzionalità di Sherlock Holmes, ci sia spazio anche per qualcosa di completamente diverso, di meno sociopatico. L’OOC non l’ho messo negli avvertimenti e non penso che lo metterò.
[4] "Amore è un termine troppo debole, io ti stramo, ti adamo, ti abramo…” Vorrei che questa frase fosse mia e se lo fosse, beh… Comunque appartiene al grande Woody Allen. Citazione da “Io e Annie”.
   
 
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