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Autore: Macaron    21/12/2013    7 recensioni
"Tu paghi un canone, e dai loro accesso a tutte le cose della persona che hai perso. Mail, messaggi in segreteria, fotografie. Tutto quello che ti viene in mente e dopo qualche giorno puoi parlarle di nuovo. No non prendermi per pazza, mica si tratta di fantasmi e cose simili! Con il supporto tecnologico ricostruiscono il tono di voce della tua ragazza, il suo modo di parlare e scrivere e tu puoi contattarla come se fosse ancora viva. La mia amica ha usufruito di questo servizio per un paio di mesi e in quei mesi piano piano si è staccata dal suo fidanzato ed è riuscita a dirgli addio. "
Come potrebbe qualcuno riuscire a dire addio a Sherlock Holmes? Come potrebbe qualcuno riuscire a staccarsi da Sherlock?
(post-Reichenbach e clone!lock)
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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A Nat perché si legge sempre tutti i miei pipponi, anche quelli pallosissimi e perché chiunque ha bisogno di una Nat nella sua vita.

A Leni perché anche se assomiglia a Sherlock molto più di me è il mio barometro morale, quella persona che ti dice che non devi ammazzare trecento bambini o lanciare un consulente investigativo dalla finestra perché non sta bene.

A Moni per una bella conversazione davanti a dei festoni al ragù.

 

 

Non era mai la caduta. John Watson aveva passato mesi a sognare l’Afghanistan, la guerra, a ricordare nei suoi incubi la sensazione del sole sulla pelle prima di sentire un proiettile colpirlo, eppure non era mai la caduta a tormentare il suo sonno. Era come se il suo subconscio si rifiutasse di rivivere certe emozioni anche solo a livello onirico, come se avesse già sopportato abbastanza, come se avesse già sopportato più del dovuto (dovuto a chi? A Sherlock? Non avrebbe mai smesso di dovergli qualcosa. Mai nemmeno se si fosse lanciato da quell’edificio con lui come in una stupida puntata di Doctor who avrebbe smesso di essere in debito con Sherlock Holmes.) Non era mai la caduta, era sempre Baker Street, e forse faceva ancora più male.

Baker Street. Non era servito a nulla andarsene da quella casa, dalla sua casa, dalla loro casa, il prima possibile. Non erano servite a nulla le notti sul materassino gonfiabile nell’appartamento di Harry a preoccuparsi più dei suoi problemi con l’alcolismo che del suo problema. Non era servito a nulla rifiutare le offerte di Mycroft di pagargli la metà dell’affitto che era stata di Sherlock e tagliare i ponti con tutti quei diciotto mesi della sua vita. Non rispondere alle telefonate e ignorare i messaggi in segreteria di Greg spesso e ogni tanto sorprendentemente di Molly, la stessa Molly che mesi prima ancora non ricordava il suo nome persa nella contemplazione degli zigomi di un certo consulente investigativo. Non era servito a nulla congedarsi con Ella. Non era servito a nulla rispondere scontrosamente, era diventato scontroso adesso? Era Sherlock quello scontroso come lui era quello educato, alle offerte d’aiuto che gli erano piovute dalle persone care e andarsene via in un posto dove il nome di Sherlock Holmes non avrebbe scatenato nessun tipo di commento. Non era servito a nulla andarsene da Baker Street per tornare al primo posto che era stato casa, una casa per una casa perché dopo Baker Street scegliere semplicemente un appartamento sarebbe stato troppo difficile, e rinunciare a Londra a favore della Scozia, di una piccola villetta ormai disabitata da anni che un tempo era appartenuta alla sua famiglia.

A John piaceva immaginarsi come un uomo coraggioso, come una di quelle persone che affrontano le cose, che le combattono. Maledizione era andato in Afghanistan in guerra, era sceso ogni mattina a combattere i criminali londinesi con Sherlock, non era sicuramente l’ultimo dei codardi. Se non fosse che forse lo era. Non in tutto, non nella vita di tutti i giorni, solo in certe occasioni. Solo per certe cose, per certe emozioni da cui era più facile scappare, da cui sembrava che allontanarsi fosse l’unica soluzione. L’aveva fatto dopo la piscina, dopo il suo rapimento, dopo che Moriarty l’aveva imbottito di semtex e l’aveva messo in mano a dei cecchini. Quella notte passata la sbronza da euforia, quando l’adrenalina aveva iniziato a scemare e Sherlock si era concentrato sul risolvere qualche punto del puzzle che gli era sfuggito (anche se non l’avrebbe mai ammesso) invece di fargli compagnia con il suono del suo violino aveva prenotato un volo per l’Australia per mettere più distanza possibile tra se stesso e Londra, tra se stesso e un giubbotto imbottito di semtex, tra se stesso e l’idea di essere il tipo d’uomo che è disposto a farsi saltare in aria per salvare il suo miglior amico (non che non fosse una bella persona quel tipo di uomo, solo che farci i conti implicava fare anche i conti con i sentimenti che potevano averlo mosso). Era tornato dall’Australia più povero, più abbronzato e senza una fidanzata. Ad accoglierlo aveva trovato una cassa di birra (ok due birre), dei film di James Bond e un coinquilino che non aveva fatto saltare in aria la sua stanza. Era già abbastanza, era abbastanza per lui. Durante il suo soggiorno in Australia aveva sempre sognato Baker Street. Come la sognava adesso. Come la sognava ogni notte quando il vento si calmava e finalmente riusciva ad addormentarsi. Baker Street. Sherlock. Casa. Non era mai un momento particolare, un qualcosa di particolarmente significativo che avessero vissuto insieme o che invece sarebbe dovuto succedere e non c’era stato il tempo di farlo succedere, mai. Era una sensazione, era un’idea, era una consistenza. La vestaglia di Sherlock appoggiata sulla poltrona quando Lestrade lo chiamava per un nuovo caso ed era così eccitato da iniziare a cambiarsi ancora prima d’aver raggiunto la sua camera da letto spargendo vestiti ovunque. Il suono del violino quando quel buffo uomo che era il suo coinquilino smetteva di suonare per indispettire il fratello e lo faceva per calmare i nervi di John. Il calore che provava quando rimanevano a vedere della televisione di merda fino a tarda notte stretti nei loro cappotti perché uno dei due, uno a caso, si era dimenticato un certo esperimento tossico sul tavolo della cucina e adesso erano obbligati a pernottare con le finestre aperte. Quello stesso calore che non gli faceva desiderare di passare la notte sul materassino di una delle sue ultime fidanzate, nemmeno per far indispettire Sherlock, e che faceva sembrare Baker Street l’unico posto al mondo dove valesse la pena di rimanere.

John Watson era bravo a scappare, anche se non gli piaceva ammetterlo, ma certe notti quando si svegliava di soprassalto come in preda al peggiore degli incubi si rendeva conto di quanto la Scozia non fosse abbastanza distante da Londra. E di quanto fosse impossibile scappare davvero da Baker Street.

 

 

 

 

Westhill è una bella città. No non è vero Aberdeen è una bella città. Nei pochi anni in cui hanno trascorso le estati nella villetta scozzese ha sentito Harry lamentarsi ogni giorno del pessimo gusto del padre nell’acquistare casa a dieci chilometri da una delle città più popolate (e quindi interessantissime per una ragazzina) della Scozia che però è un buco nel nulla, con pessimi collegamenti e dove da qualsiasi parte ti giri vedi unicamente brughiera, erba, verde, pecore, noia. Westhill non è una bella città ma nonostante sia solo a una decina di chilometri di Aberdeen, bella ed entusiasmante e contemporaneamente artistica, è persa nel nulla e per questo è perfetta. Non che John abbia davvero qualcosa contro le persone, se non sono persone legate al suo passato più recente, o che abbia davvero deciso consapevolmente d’isolarsi. È una cosa che avviene a livello quasi inconscio, come se una parte di lui ritenesse giusta una sorta di punizione, di autopunizione. Per non averlo salvato. Per non essere riuscito a dire la frase giusta. Dopo l’Afghanistan si è chiuso in una stanza nella provincia di Londra per giorni interi, per non essere stato abbastanza forte, per non essere stato il soldato coraggioso che sperava di diventare, per non aver salvato i suoi compagni. Settimane di semi isolamento, perché a Londra non è davvero possibile isolarsi, per non essere stato abbastanza per decine di soldati. Mesi d’isolamento, totale fatta eccezione per la spesa ogni due settimane, in una cittadina sperduta della Scozia per non aver salvato una singola persona, un’unica persona perché se pensa a Sherlock pensa sempre a lui come qualcosa di unico. Il suo migliore amico chiamava Irene Adler The Woman, la donna, e John pensa che se ci fosse una persona in grado di meritare quell’unicità sarebbe solamente lui. Gli anni d’isolamento, gli anni di autopunizione non sembrano nemmeno poi tanto. Non gli sembrano nemmeno abbastanza per quello che ha perso. Per quello che si è lasciato sfuggire.

 

 

Tre settimane dopo il suo trasferimento trova un piccolo alveare su un albero nella sua proprietà. L’albero non è molto vicino a casa, la villetta dispone di un discreto appezzamento di terra che negli anni è stato completamente abbandonato, e non ci sono rischi che le api possano colonizzare le grondaie ma il giorno dopo il ritrovamento passa un intero pomeriggio a scambiarsi mail con ditte di disinfestazione. Riceve preventivi, istruzioni, proposte di appuntamento per risolvere il problema. Cancella tutto, affronta un fastidioso viaggio ad Aberdeen (troppe persone e troppi pochi autobus di linea), torna con qualche nuovo acquisto e si reca in giardino. Non riesce ancora a capire perché l’associazione Sherlock ed api gli si sia così fossilizzata in testa. Non si ricorda esattamente di quando ne hanno parlato ma sa che c’è una connessione e che se fosse in grado di immagazzinare anche lui le informazioni in un palazzo della memoria, o almeno in un bungalow, nella stanza di Sherlock ci sarebbe un cassettino con un libro di apicoltura pieno di note a margine scritte con la calligrafia quasi infantile del consulente investigativo.

Fa a pezzi l’alveare con un bastone. Non prova niente, nemmeno sollievo. È già qualcosa.

 

 

Pensa a Sherlock tutto il tempo. Non è nemmeno che rimanga sdraiato sul divano a guardare la televisione e a compiangersi perché non è questo il suo modo di fare, non lo è mai stato, è che semplicemente il pensiero non lo abbandona mai. Risistemare la villetta lo impegna molto fisicamente, si tratta pur sempre di una casa rimasta chiusa per più di vent’anni, ma sembra che più le sue mani siano impegnate (a stuccare, riparare, lucidare) più la sua testa si rifiuti di concentrarsi di qualcos’altro che non sia il ricordo del suo miglior amico, di tutto quello che è stato e di tutto quello che non può essere più. Le prime settimane prova ad ascoltare la radio, per fortuna nei paesini scozzesi i giornalisti non sembrano così intenzionati a parlare di detective londinesi rivelatosi frodi, a lasciare in sottofondo un qualche stupido talk show, a mettere a ripetizione le sue canzoni preferite al pc ma nessun rumore esterno sembra riuscire a zittire quelli della sua testa (può essere il pensiero di qualcuno così rumoroso e contemporaneamente così silenzioso? È come se non gli smettesse mai di parlare e come se tutto intorno a lui fosse solo silenzio) così smette semplicemente di lottare.

Non ha tante sue cose dietro. Non vorrebbe avere nulla di Sherlock con se. Vorrebbe essere stato così forte, o così sgarbato, da rifiutare l’offerta di Mrs. Hudson di “prendere almeno queste cose, non gli sarebbe piaciuto che le avesse Mycroft o qualche persona normale. Sa quanto non gli piacevano le persone normali” (e allora che cosa ci faceva con me?) ma non ne è stato capace. Non ha preso nulla che gli ricordi qualcosa di particolare il che significa semplicemente che ogni oggetto gli ricorda qualcosa perché la sua vita è indissolubilmente legata a Sherlock Holmes e a tutto quello che era in Baker Street. Non si prende nemmeno lo scrupolo di nascondere lo scatolone da qualche parte, di allontanarlo dagli occhi (tanto io guardo ma non osservo, vero Sher? Non cambia niente per me. Ride mentre ci pensa) perché ritrovarsi nel cuore della notte a salire una scala a piedi scalzi per riprendere qualche oggetto è un’umiliazione, un’ammissione di debolezza che non è pronto ad affrontare. Piano piano ogni cosa trova un suo posto ricreando un ambiente totalmente diverso da Baker Street ma in cui riconosce una certa familiarità. Pensa a Sherlock tutto il tempo e quando non ci pensa gli oggetti glielo ricordano. Non lo trova nemmeno così male. Quando si rende conto per la prima volta di non trovarlo così male si chiede se non stia impazzendo.

 

 

 

 

È Mary a parlargli per la prima volta del Black mirror group 1. Mary ha i capelli castani, un fisico morbido e un sacco di nei su tutte le braccia. Ha un sorriso aperto e il tono di voce calmo e chiaro di chi è abituato a parlare con bambini ed animali e quindi parla a tutti come se si stesse rivolgendo a bambini o animali. È scattante, dinamica, il tipo di donna che se invece di girare con grandi maglioni da uomo e qualche attrezzo per il bricolage in mano vedessi in un completo giacca-pantalone potresti tranquillamente immaginarti nella city intenta ad andare al lavoro. Mary non è la prima persona che incontra a Westhill ma è la prima con cui parla per più di dieci minuti, non perché ne abbia davvero voglia sul momento ma perché l’incontra in aperta campagna ed è difficile fuggire da una donna che cammina più veloce di te quando sei in aperta campagna e senza una casa in cui rifugiarti. Mary parla e gli fa domande e non gli da la possibilità di scappare ed isolarsi nei suoi ricordi, nei suoi pensieri. Non le importa che lui risponda quasi a monosillabi e che per quanto si sforzi non riesca a farle uno straccio di domanda sulla sua vita o interessarsi a lei, sembra semplicemente interessata a conoscerlo ed eventualmente aiutarlo. Se fossero a Londra, se fossero a Londra e fossero passati anni e non qualche settimana dal suo lutto Mary sarebbe il genere di persona con cui uscire a bere un drink, con cui dimenticare il dolore. Sembra esserne capace, sembra essere il genere di persona capace di traghettarti da una vita a un’altra, di farti smettere di star male ed andare avanti, sembra essere il genere di donna con cui è possibile passare la vita. Ma non sono passati anni e lui non vuole qualcuno che lo faccia andare avanti, lui vuole rimanere indietro, vuole rimanere attaccato ai suoi ricordi. Se fosse possibile vorrebbe rimanere così tanto indietro da poter tornare a poche ore prima della caduta. Non vuole una ragazza, non vuole che nessuno lo traghetti da nessuna parte. Vuole rimanere dov’è e vuole rimanerci da solo (con lui).

“Posso farti una domanda?” si è perso nei suoi pensieri e non ha ascoltato una parola di quello che Mary gli ha detto “Hai perso qualcuno di recente?”

Com’è che negli ultimi anni sono diventati tutti acuti come Sherlock Holmes e lui è rimasto l’unico a non accorgersi delle cose. Annuisce.

“Stavate insieme?”

Che risposta c’è a questa domanda? Come può spiegare a una perfetta sconosciuta un rapporto che non ha spiegato nemmeno a se stesso? Non stavano insieme eppure stavano molto più che insieme. Non erano amanti eppure le rare volte che si è permesso di pensare a Sherlock in quel modo sembrano eclissare tutte le sue avventure di una notte (o forse è solo il potere dell’assenza a renderle ancora più perfette). Non stavano insieme eppure non è stato mai così profondamente legato a qualcuno.

“ Lo so che ti potrò sembrare invadente, quindi fermami pure se ti do fastidio…” Non la ferma, non ne vede nemmeno il motivo. Tutto quello che potrà dirgli non l’aiuterà ma forse farà sentire meglio lei. Più disponibile, più gentile, una persona migliore. “C’era questa mia amica il cui fidanzato era morto in un incidente d’auto e non riusciva ad andare avanti, non riusciva proprio. Lui le mancava tutto il tempo, come a te”

Sherlock gli manca tutto il tempo? Non più. Come fa a mancarti qualcuno che è mentalmente sempre con te. Se gli mancasse sarebbe molto più sano. Le rivolge un sorriso e annuisce ancora, è tutto quello che può offrirle.

“Non riusciva proprio ad andare avanti e diceva che c’erano così tante cose che avrebbe voluto dirgli”.

Glielo dica adesso, John.

No non posso.

“E così si è rivolta a questa società, la Black Mirror group1. Tu paghi un canone, non son se mensile o annuale non ci capisco niente di queste cose, e dai loro accesso a tutte le cose della tua fidanzata. Mail, messaggi in segreteria, fotografie. Tutto quello che ti viene in mente e dopo qualche giorno puoi parlarle di nuovo.”. Ride un po’ imbarazzata “No non prendermi per pazza, mica si tratta di fantasmi e cose simili! Con il supporto tecnologico ricostruiscono il tono di voce della tua ragazza, il suo modo di parlare e scrivere e tu puoi contattarla come se fosse ancora viva. Lo so che sembra un po’ raccapricciante, ma è un aiuto per andare avanti. La mia amica ha usufruito di questo servizio per un paio di mesi e in quei mesi piano piano si è staccata dal suo fidanzato ed è riuscita a dirgli addio. Adesso sta molto meglio, sai.”

John non dice nulla, non sa nemmeno come elaborarle queste informazioni. Non hanno senso. Come potrebbe qualcuno riuscire a staccarsi da Sherlock? Come potrebbero bastargli un paio di mesi? E come potrebbe esistere qualcosa di simile al suo migliore amico? Tutta la tecnologia del mondo non può servire a ridargli Sherlock Holmes perché Sherlock Holmes è praticamente impossibile. Non è mai esistito nessuno uguale a Sherlock Holmes e nessuno è in grado di ricostruire qualcuno di simile. Sherlock Holmes è unico, è impossibile e soprattutto non dovrebbe parlare di lui al presente perché non esiste più e nessuno è in grado di ricostruirlo.

Mary continua a parlargli e lui prova a concentrarsi sul dare le risposte giuste.

Quando torna a casa ordina la spesa online e non esce dalla villetta per dieci giorni. Le persone sono stupide e noiose pensa, e si sente un po’ simile a Sherlock.

L’undicesimo giorno si ritrova a sistemare dei vestiti di Sherlock in un armadio e a preparare due tazze di tè. Digita su google “Black Mirror group” e aspetta di sentirsi pronto per il passo successivo.

 

 

 

Il primo messaggio gli arriva alle 4.18 del mattino e gli sembra quasi che sia giusto così perché se volesse un messaggio a un orario normale lo vorrebbe da una persona normale e non da Sherlock Holmes.

Mi annoio. SH

Sherlock?

No, John, non sono Sherlock, sono il suo fantasma. SH

Chi vuoi che sia a scriverti alle 4.21 del mattino con il mio telefono? SH

Vorrebbe ridere. Vorrebbe urlare. Vorrebbe scoppiare a piangere. Non può essere (non puoi essere) eppure è. Quei messaggi sono così tanto Sherlock, tutto compreso il pessimo gusto di fare una battuta sul fantasma quando è morto, che spezzano il cuore.

Sei tornato.

Se quello a cui sta scrivendo non fosse un “clone” o una macchina che impersona, in maniera davvero credibile, il suo migliore amico non si lascerebbe scappare un messaggio così emotivo ma in questo caso può permettersi di lasciarsi andare.

Sono sempre stato qui John. SH

È vero.

È vero, sei sempre stato qui anche quando avrei voluto mandarti via, anche quando avrei voluto essere capace di andare avanti. Sei sempre stato qui, in questo punto particolare tra il cuore e lo stomaco che non ha mai smesso di far male.

Non constatare l’ovvio, John, non lo sopporto. SH

Non sopporti mai niente, ma quanto mi era mancato non sopportare te.

Sentimentale. SH

 

 

 

 

Sono semplici messaggi i primi giorni. Non si dicono nulla di particolare, nulla di troppo intimo, nulla di diverso da quello a cui erano abituati. John gli chiede di raccontargli di vecchi casi risalenti al periodo in cui non c’era e Sherlock gli scrive per sapere da cosa possano essere provocate delle ecchimosi sul collo di una donna trovata morta nel Tamigi. Non sono vere conversazioni, non è ancora pronto per quelle, sono semplici messaggi ma John si sveglia con la testa piena di Sherlock e si addormenta augurandogli la buonanotte. È come se fosse tornato, è come se non fosse mai andato via.

È come se non fosse mai morto.

È come se fosse semplicemente in vacanza, no Sherlock Holmes in vacanza non è credibile allora diciamo che è come se fosse semplicemente via per un caso, un caso per cui non è richiesta la presenza di John e che l’ha trattenuto per un tempo imprevisto. Un caso da cui può tornare.

Torna, torna da me.

Sherlock gli chiede di fare il tè anche per lui e John può permettersi di farlo senza pensare di essere impazzito perché ci sono degli sms a testimoniare che è ancora lucido. Ci sono delle prove, insomma. Parlano dei casi che affronteranno tornati a Londra e Sherlock lo prende in giro per la sua grammatica.

 

Le tue doti di romanziere migliorano costantemente, John. Fra un po’ sarai più bravo dell’autrice di Cinquanta Sfumature di Grigio. SH

Da quanto leggi la trilogia delle sfumature?

Dovevo essere preparato per apprezzare al meglio le mail che ti scambi con le tue fidanzate. SH

Non ci sono più fidanzate da quando sei andato via.

Lo so. SH

 

Non spegne mai il cellulare, John. Compra diverse custodie compresa quella che dovrebbe proteggerlo nel caso piovesse così può anche portarselo nella doccia. È ridicolo, è umiliante ma ha la convinzione che nel momento in cui quell’aggeggio si spegnerà si spegnerà contemporaneamente il suo ultimo legame con Sherlock.

Non è che ne sia dipendente eh, dal cellulare perché invece il discorso con la persona è ben diverso, non è che passi le giornate a fissarlo sperando di sentirlo squillare o che mandi in continuazione stupidi sms perché di base continua a fare la sua vita o almeno ci prova. Non vuole smettere di fare le cose, non vuole lasciarsi andare del tutto. Inoltre ogni cosa che fa è anche una cosa di cui può parlare con Sherlock quindi fa cose. Inizia a curare l’orto di fronte a casa, fa lunghe passeggiate fino alla scogliera e spesso anche fino alla spiaggia dove si arrampica su qualche scoglio e passa ore intere a pescare. Si tiene impegnato e continua a risistemare la villetta. Ordina su internet testi di medicina per non smettere di essere aggiornato e testi sulla criminalità, per avere qualcosa di cui scrivere con Sherlock, e libri gialli, per avere qualcosa su cui Sherlock possa prenderlo in giro.

Trentadue giorni dopo il primo sms ricevuto da Sherlock si reca ad Aberdeen per ritirare un pacco che la sorella ha sbagliato a indirizzare ed è finito nell’ufficio postale della città. Organizza con cura gli spostamenti in modo da poter rientrare in casa nel giro di poche ore e ovviamente porta con se il cellulare.

Lo capisce a metà del viaggio d’andata che la giornata non passerà liscia come spera. Traffico, una coda infernale alle poste per un qualche sciopero e in più grandina anche. A John la pioggia è sempre piaciuta, perché la pioggia è Londra, ma la grandine non piace davvero a nessuno soprattutto quando devi girare mezza città a piedi perché sembra che i mezzi pubblici ce l’abbiano con te. Ogni tanto scrive qualche messaggio a Sherlock per lamentarsi della stupidità di Harry e riceve risposte adeguate che lo riconciliano con il mondo.

Sulla strada del ritorno, quando è già salito sull’ultimo autobus si realizza il suo più grande incubo (in un contesto in cui i tuoi più grandi incubi si sono già realizzati visto che ti hanno sparato e hai visto morire il tuo migliore amico) e il motore fonde. Mezzo fermo nel nulla e il successivo che passerà solo dopo un paio d’ore ad essere generosi. Non solo, il cellulare di John che aveva un’autonomia di qualche ora e che è già provato dai diversi ritardi che ha accumulato durante la giornata inizia a lampeggiare. La batteria è praticamente scarica e a John prende un attacco di panico. Improvvisamente gli sembra che tutto il caldo del mondo si sia racchiuso dentro quell’autobus e che l’aria sia irrespirabile. Gli sembra che la sua testa stia per scoppiare e che le gambe inizino a tremargli. Non riesce a smettere di fissare la batteria del cellulare e non riesce nemmeno a stare fermo a fissarlo. Esce di corsa dall’autobus, allontana le domande dell’autista con un gesto infastidito (ok scortese più che infastidito ma gli sembra di non riuscire a comandare le sue mani) e si dirige a passo svelto, ok correndo, verso casa.

Non farà mai in tempo, lo sa benissimo. Mesi di assenza dai casi, dalle corse per Londra lo hanno reso pigro e il suo fisico ormai non è più in grado di affrontare otto chilometri di corsa sotto il diluvio senza dare qualche cenno di cedimento. Soprattutto non a un ritmo così sostenuto. Non è abbastanza veloce per quell’icona che lampeggia sul suo cellulare. Non farà mai in tempo.

Come non ha fatto in tempo quella volta, su quel tetto. Quando si è comportato da idiota, ha accusato il suo migliore amico di essere una macchina e non è tornato in tempo per salire su quel tetto e trascinarlo giù in strada tirandolo per un orecchio.

Come non ha fatto in tempo quando doveva salvarlo.

Prende il cellulare in mano e compone un sms.

Resta.

Non dovrebbe mandarlo ma invece lo fa. Lo fa perché è terrorizzato e pensa di nuovo di star impazzendo e ha appena avuto un attacco di panico per un cellulare che si sta scaricando e questo è talmente poco normale e poco da lui che allora fanculo può anche mandarlo un sms del genere.

Dove dovrei andare John?SH

Via, via da me. Di nuovo. Questo non lo scrive, lo pensa solamente.

Ho una cassa di birra e il tuo film di James Bond preferito, dove dovrei andare?SH

La batteria si spegne.

Arriva a casa zuppo, con i muscoli che iniziano già a farli male e la mano che trema per lo stress.

Compone il numero di Sherlock e chiama.

Nell’abbonamento che ha sottoscritto con la Black Mirror group il servizio di telefonate è compreso. In realtà non dev’essere nemmeno così difficile riprodurre la voce di un uomo come Sherlock che ha passato gli ultimi mesi della sua vita a fare apparizioni pubbliche e di cui c’è tantissimo materiale audio e video (materiale da cui si è ben tenuto alla larga) ma John non ha mai voluto usufruirne perché se già scriversi sms con Sherlock Holmes è destabilizzante non riesce a pensare a cosa possa provare a sentirlo parlare ma adesso non riesce proprio a farne a meno e preme il tasto verde sul suo cellulare.

Sherlock risponde al secondo squillo.

“ John, sei in ritardo?”

“ Non lo so, lo sono?”

“ Dipende se sei già a casa. Se non sei a casa, sei in ritardo.”

“Se non fossi a casa non pensi che te ne saresti accorto?”

“Non so, sei abbastanza basso per passare inosservato soprattutto quando penso”

È la loro prima conversazione da quando Sherlock se n’è andato (pensa proprio “se n’è andato” perché al suono della voce del consulente la sua mente non riesce più a registrare l’informazione sulla sua morte) e nulla di quello che stanno dicendo ha un qualche senso.

“Di solito chiami quando sei in ritardo” dice Sherlock.

“Sei ancora qui”

“Sono ancora qui, John.”

Quella notte spegne il cellulare e si addormenta con la testa piena della voce di Sherlock che ripete il suo nome. JohnJohnJohn. Sono ancora qui, John. JohnJohnJohn. Sono ancora qui, John. Non me ne vado, John. JohnJohnJohn.

Si addormenta felice per la prima volta da quando Sherlock se n’è andato.

Sei tornato da me.

JohnJohnJohn.

 

 

Riesce a inquadrare le telefonate e i messaggi a Sherlock all’interno della sua quotidianità. Vive ancora in simbiosi con il cellulare ma la notte riesce anche a spegnerlo per qualche ora. I sogni continuano, sempre gli stessi e sempre Baker Street, ma è cambiato il suo modo d’interpretarli. Sognare Sherlock non è più una persecuzione, un incubo, una pugnalata al cuore, adesso è solamente il continuo della sua giornata. Sogni l’ultima persona con cui hai parlato, l’ultima persona a cui hai scritto e non c’è nulla di anormale in questo. Quando i sogni sono particolarmente vividi e al risveglio avverte una forma di malinconia (per la fisicità di Sherlock, non per la sua persona visto che è con lui) schiaccia il tasto della chiamata rapida e la voce del suo migliore amico gli riempie le orecchie e la testa.

“Sherlock sono io.”

“Certo che sei tu, non farmi constatare l’ovvio. Hai avuto un incubo.”

“Come fai a saperlo?”

“Sono le due del mattino, non sto suonando il violino per te e sei sveglio non è difficile.”

“Nulla è difficile per te.”

“Vuoi che suoni qualcosa per te, John?”

Non è così stupido da rischiare e rispondere di sì. Morirebbe per ascoltare di nuovo il violino di Sherlock ma la paura che dal microfono del suo cellulare non esca alcun suono è troppo grande per osare. Non è pronto a una delusione, non è pronto a sapere che tutto questo è irreale.

“Raccontami di un caso, Sherlock. Raccontami di una tua brillante deduzione e io ti dirò che sei straordinario e poi mi addormenterò sentendo la tua voce.”.

“Tu dici sempre che sono straordinario”

“Io dico che le tue deduzioni sono straordinarie, non fare lo smargiasso!” gli scappa una risata.

“Lo sai che è la stessa cosa.”

Lo sa ma come potrebbe saperlo la persona dall’altro capo del telefono se quella persona non fosse davvero Sherlock? Non può essere eppure è.

 Sei tu.

Sei irrimediabilmente tu.

(e io sono così disperatamente innamorato di te da non riuscire quasi a respirare quando ci penso.)

“Ti ho mai raccontato di quando sono stato attaccato alla gamba da un cane e poi ho risolto uno dei miei primi casi?”

“Pensavo che il tuo primo caso fosse stato quello di Carl Powers.”

“Oggi sei meno lento del solito, John, direi che sei quasi scintillante nelle tue risposte.”

“Cos’avevi fatto al cane per farti attaccare? Anzi no non dirmelo, sei tu è ovvio cos’hai fatto. Che cane era comunque?”

“Un cocker. Sono finito in ospedale.”

“ Un cocker?!” non riesce più a trattenere le risa “Un cocker? Sono minuscoli, come hai fatto a farti attaccare da un cocker a tal punto di finire all’ospedale?”.

“Colpa di Mycroft, ti pare che ci sia andato di mia spontanea volontà?” Sherlock s’interrompe per qualche istante “Non avevo ancora conosciuto il mio dottore.”

“Non ero ancora un dottore.”

Sei sempre stato il mio dottore. Adesso mettiti a letto John, ti racconto il caso fino a quando non ti addormenti.”.

 

 

È più facile con questo Sherlock. Parlare, scriversi, tutto. C’è qualcosa di più umano in questo nuovo Sherlock. Razionalmente pensa che sia perché nessuna macchina è in grado di riprodurre uno Sherlock Holmes e quindi chi ha ricostruito il suo migliore amico deve aver aggiunto qualcosa di personale. È ridicolo pensare che una macchina (perché quella a cui sta parlando dev’essere tipo una macchina, vero?) sia più umana di una persona ma con Sherlock è sempre stato tutto insolito, unico e diverso ed è sempre andato tutto bene così. Razionalmente pensa questo, comunque, perché a livello emotivo è convinto che quell’aumento di umanità, quella maggiore dolcezza e capacità di empatizzare sia dovuta alla loro lontananza e a come questa possa aver cambiato Sherlock. Sicuramente ha cambiato lui. L’ha reso più dipendente dalla voce del consulente, dai suoi messaggi, dal suo pensiero ma anche più coraggioso. Il rapporto tra Sherlock e John è stato per diciotto mesi un rapporto fatto di così tante parole che sembra incredibile credere a quanto non detto ci fosse sotto la superficie. John affronta quel non detto. Lo fa un passo alla volta, ne è comunque terrorizzato, ma si sente in dovere di farlo perché durante l’assenza di Sherlock è quasi finito per uccidere anche lui. Non sono state solo tutte le cose che hanno vissuto insieme e che si sono detti a spingerlo sull’orlo del suicidio ma anche tutte quelle che non hanno fatto e che non si sono detti. Le dice adesso. Non tutte ovviamente ma le dice. Le dice, le scrive. Si sente una ragazzina pubescente, si sente fragile, stupido e infantile ma le dice e le scrive lo stesso. L’alternativa è molto peggio, l’alternativa è stata molto peggio.

Mi manchi.

Sentimentale. SH

Mi manchi lo stesso.

Mi manchi anche tu. SH

 

 

Da quando ha smesso di aggiornare il suo blog, prima perché non gli capita nulla e poi perché quello che gli capita è troppo difficile per essere spiegato e non è nemmeno sicuro d’aver voglia di provarci, usa molto meno internet e si disturba a controllare la sua casella di posta elettronica giusto un paio di volte alla settimana, quel tanto che serve a tranquillizzare Harry sul suo essere ancora vivo ed ignorare le mail dei pochi che non hanno ancora smesso di cercarlo (Greg, ogni tanto, e ancora Molly anche se non capisce il perché). Fa così poco caso a quello che succede umanamente intorno a lui da tanto è perso nel suo nuovo rapporto con Sherlock che un messaggio rimane ignorato nella sua casella per una decina di giorni prima di attirare la sua attenzione a causa del mittente: Blackmirrorgroup@gmail.co.uk . Ha sottoscritto un abbonamento annuale per il servizio e ricevuto la fattura durante il primo mese quindi quella mail è quantomeno inusuale.

 

From: Blackmirrorgroup@gmail.co.uk

To: Johnwatson@hotmail.com

Oggetto: Nuovi servizi per i nostri clienti

 

Gentile Utente,

Ringraziandola per aver sottoscritto il suo abbonamento, e sperando che sia soddisfatto dei nostri servizi, ci auguriamo di farle una gradita sorpresa offrendole un upgrade del suo pacchetto.

 

Sembra che abbia comprato l’abbonamento a una rete via cavo, non a un amico morto. John continua a leggere.

 

Il tuo caro in carne ed ossa.

 

Così recita l’allegato che si trova ad aprire.

 

Se sentirlo/a al telefono non è più sufficiente, se sei stanco di limitarti a qualche sporadico sms perché non scegliere di riavere con te il tuo defunto?

Sottoscrivendo il nostro speciale abbonamento a un prezzo scontato per i primi cinquanta aderenti all’iniziativa potrai avere a casa tua il clone della persona cara che hai perso. Grazie alla più potente tecnologia siamo riusciti a ricreare una persona in carne ed ossa e ci offriamo di instillare al suo interno tutti i ricordi e tutte le caratteristiche che la rendevano speciale per te!

Affrontare il lutto è troppo doloroso? Fatti accompagnare in questo processo dalla persona a cui non sei pronto a dire addio!

Scegli il Black mirror group e scegli di rinunciare alla sofferenza!

 

Seguono una serie d’informazioni tecniche sui prezzi (elevati, folli, altissimi a differenza del servizio sms e telefonate che era abbordabile anche per una persona comunque) e sulle caratteristiche del clone. John legge che acquistandolo, si può acquistare una persona, riceverà un soggetto inizialmente inattivo, senza ricordi e caratteri particolari che dovrà poi “accendere” (il termine non è ovviamente questo ma John cerca di capirci qualcosa) e in poche ore diventerà la persona a cui cara. Legge inoltre che il clone non necessita di alcun tipo di cibo o acqua, e in questo è già simile a Sherlock pensa e gli scappa un sorridere, che seguirà comunque le sue istruzioni pur rimanendo un soggetto con un suo carattere ben definito (del resto è quello che comprano) e che non potrà mai allontanarsi dal luogo dell’attivazione per più di cento metri a meno che non sia in compagnia di chi l’ha attivato (ci sono una serie di spiegazioni sul perché e il percome succeda questo ma le ignora). Sarà inoltre possibile disattivare il clone in qualsiasi momento e rispedirlo alla ditta per lo smaltimento tra i rifiuti, cosa che John pensa sia l’equivalente di una sepoltura o della cremazione per le persone reali.

Rilegge la mail diverse volte prima di riuscire a spegnere il computer. Questa volta almeno è abbastanza onesto con se stesso da non cancellarla sdegnato. Ci mette diversi giorni prima di accettare di essere il tipo di persona in grado di pensare anche solo lontanamente a una cosa del genere. Ci mette un’altra manciata di giorni prima d’iniziare a scarabocchiare dei conti su un blocchetto abbandonato in cucina. Ha qualche soldo da parte e da quando vive a Westhill non spende praticamente niente e riesce addirittura ad avanzare parte della sua pensione ma sa benissimo che non si tratta di abbastanza soldi. Che non avrà mai abbastanza soldi. O forse li avrà ma per allora sarà già andato avanti e sarà già riuscito a mettere Sherlock da parte e a un momento del genere non vuole nemmeno pensare (ridicolo visto che prima era tutto quello che desiderava). In realtà dei soldi per attivare l’upgrade del servizio, non riesce proprio a dirlo “comprare una persona” gli fa venir voglia di vomitare, li ha solo che non si sente in grado di usufruirne perché non sono soldi suoi. Sono soldi di Sherlock, risalenti a un qualche conto deposito o fondo fiduciario. Mycroft ha mandato una delle sue gentili assistenti a spiegargli tutto una settimana dopo il funerale e due giorni dopo la lettura del testamento a cui non si è presentato. Sherlock gli ha lasciato tutto (tutto tranne il permesso di salvargli la vita) e in questo tutto c’è anche un’ingente somma di denaro. Più che ingente potrebbe definirla sfacciata, una somma di denaro sufficiente da vivere per sempre senza problemi (non l’abbiamo usata prima per questo, Sher? Perché a te i problemi piacevano?) e poter comprare una persona. Solo che non può usarla perché sono i soldi del suo migliore amico morto e non può toccarli perché li odia.

Ma se possono ridargli il suo migliore amico non hanno improvvisamente senso?

Ci pensa giorno e notte, così tanto da trascurare sms e telefonate a Sherlock, e gli sembra di nuovo d’impazzire. Alla fine fa l’unica cosa che gli sembra possibile, si rivolge a lui.

Non può chiedergli “Ehi posso usare i soldi che mi hai lasciato quando sei morto per farti ritornare alla vita?” perché non funziona così, perché darebbe origine a una serie di conversazioni che non è ancora in grado di affrontare. Sta per comprare una persona, maledizione! Sicuramente non può parlare di corda in casa dell’impiccato.

 

Sherlock se avessi bisogno di del denaro, di molto denaro potrei chiederlo a te?

Odio quando fai domande ovvie, John. SH

Potrei chiederlo a te anche se questo volesse dire riaprire qualche fondo fiduciario e cose varie che controlla Mycroft?

Continui a fare domande ovvie. SH

Ti sei sempre fatto troppi problemi, John. Te l’ho detto uno dei primi giorni, quando sei tornato a casa senza la spesa dopo aver litigato con una cassa automatica: Usa la mia carta. SH

Fai sempre domande ovvie. Non è cambiato niente. SH

È cambiato tutto. O forse hai ragione e non è cambiato niente.

Io ho sempre ragione. SH

Sì ce l’hai.

 

Il pacco arriva il lunedì successivo. Lo porta in soggiorno e aspetta sedici ore, seduto sulle assi di legno del pavimento al freddo a fissarlo, prima di attivarlo.

 

 

Ci sono momenti nella vita della persona che si dilatano in maniera tale da renderli quasi eterni. Sono momenti che ricordi per tutto il resto della tua vita, che passi le giornate a cercare di rivivere prima di addormentarti dopo una brutta giornata o da cui invece cerchi di scappare dopo l’ennesima notte di incubi. Come quel giorno di fine gennaio in un laboratorio del Barts e un uomo chino su delle provette e un cellulare e un “Usi il mio” appena accennato. Come quella sera nell’androne di Baker Street con un signore che bussa alla porta per porgerti un bastone che hai dimenticato in un ristorante in un momento in cui pensavi di non poterne ancora fare a meno, di essere destinato a vivere da invalido tutta la vita. Come una mattina fuori da un cimitero nella brughiera con il tuo migliore amico che ti rincorre, dopo una notte passata a non dormire, a rigirarti nel letto facendoti sempre le stesse domande e non riuscendo mai a darti alcuna risposta, e ti dice che hai sbagliato tutto, che avete sbagliato tutto e che se è vero che non ha amici è anche vero che ha un solo amico e quell’amico sei tu (sono sempre stato solo questo per te, Sherl?). Come il giorno in cui davanti a un palazzo vedi l’unica persona che conti qualcosa nella tua vita lanciarsi di sotto e sfracellarsi al suolo e l’unica cosa a cui riesci a pensare è la sua voce che ti ripete “Addio John” e poi il rumore del suo corpo che si schianta sull’asfalto (dio, quel suono).

Come il giorno in cui l’uomo di cui sei innamorato torna da te.

È nella sua camera da letto e secondo l’opuscolo che si è finalmente deciso a leggere ci dovrebbero volere ancora una manciata di minuti perché il clone si attivi definitivamente ma Sherlock non sarebbe Sherlock se non ribaltasse le leggi della fisica, della scienza, del mondo ed uscisse dalla vasca dal bagno per entrare di nuovo nella sua vita e cambiarla di nuovo.

È nudo ma John non ci fa nemmeno caso, quante volte Sherlock è andato in giro per casa nudo e quante volte lui ha fatto finta di non accorgersene, di non indugiare per più di qualche secondo con lo sguardo sul suo corpo prima di borbottare una frase stupida come “Mrs. Hudson potrebbe entrare da un momento all’altro, non sta bene!”, perché potrebbe essere anche vestito con la pelle di una pecora o indossare un costume di guerre stellari e tutto sarebbe secondario rispetto al fatto che è Sherlock e che è lì davanti a lui e respira (sente il rumore del suo respiro) e si muove e lui ha seriamente paura di essere sull’orlo di un infarto.

Sei tornato.

Sei tornato.

Sei tornato da me.

E poi Sherlock sbadiglia. Non si vedono da mesi, la sua vita è stata spezzata per sempre dall’assenza di Sherlock, da quel momento in cui lui l’ha lasciato la prima cosa che il suo migliore amico riesce a dirgli è uno sbadiglio. Che non è nemmeno una parola vera e propria a pensarci bene. Non che si aspettasse delle scuse, Sherlock non è a conoscenza di tutta quella parte, del fatto di essere andato via per mesi (non pensa più “Sherlock non è a conoscenza del fatto di essere morto per mesi”) e quindi non può scusarsi e comunque probabilmente non lo farebbe comunque perché non sarebbe da lui, ma qualcosa di più illuminante, di più profondo di uno sbadiglio sì. Insomma di peggio cosa poteva esserci? Un colpo di tosse?

Improvvisamente non riesce a trattenere le risate. Non pensa di aver mai riso così tanto da quando Sherlock è andato via. Non si ricordava nemmeno più come si facesse a ridere in questo modo, così forte che sei costretto a sederti e a tenerti la pancia e le lacrime t’inumidiscono gli occhi.

Sherlock alza il sopracciglio come se avesse davanti il peggior idiota del mondo (dio come mi è mancato vederti fare anche questo, pensa) ma poi la risata di John è così contagiosa che non riesce a non abbandonarvisi anche lui. Così sono lì in una camera da letto, uno in piedi completamente nudo e con il corpo ancora umido (l’unico ricordo del liquido in cui è rimasto immerso per le ore necessarie all’attivazione sono le goccioline che gli cadono dai riccioli disordinati) e l’altro seduto su una poltrona vestito di tutto punto con il suo miglior maglione a ridere senza motivo. A ridere per uno sbadiglio. Non si vedono da mesi e si ritrovano a ridere come due idioti. Non è mai stato così felice nella sua vita. Non pensava che sarebbe potuto essere di nuovo così felice. Così felice da non riuscire nemmeno a controllare le sue gambe quando si muovono da sole e lo portano a pochi centimetri dal suo migliore amico.

Quando ripensa a tutti i momenti trascorsi insieme a Sherlock Holmes prima di Moriarty e prima della sua assenza prolungata riesce a contare sulle dita di una mano i loro contatti fisici. Le prime strette di mano, le pacche sulla spalla, i piedi che si sfiorano quando sono sul divano. Tutto sussurrato, tutto appena accennato, tutto quasi impalpabile per non spaventarsi troppo a vicenda, per non rischiare di perdersi.

Eppure adesso c’è qualcosa di assolutamente naturale, di familiare nel modo in cui si avvicina a Sherlock e lo stringe a sé. Non c’è nulla di accennato, non ci sono sussurri, non ci sono mezze parole, mezzi sfioramenti. Si era immaginato per il loro primo abbraccio un momento quasi eterno, in cui il tempo sembra perdere forma e consistenza e invece è tutto immediato, concreto, reale.

Sei qui.

Sei qui tu e sono qui io. Non è bellissimo?2

Sei tornato e sei vivo sotto le mie braccia ed è il tuo respiro quello che sento contro il mio e sei un blocco di ghiaccio, devi aver preso freddo in quella vasca, devi aver preso freddo là fuori senza di me, e impacciato ma ti sento, sei reale, sei vero, sei tu.

Sei vivo e mi stai abbracciando senza spezzarti nelle mie braccia e sembra che tu non l’abbia mai fatto e che al tempo stesso sia nato per farlo (il vero Sherlock lo avrebbe abbracciato? Non ha il coraggio di chiederselo, non adesso che lo stringe forte), sia nato per incastrarti a me. Io so di essere nato per questo, per incastrarmi tra le tue braccia, per proteggerti, per riportarti indietro come avrei dovuto fare quando ti ho visto su quel cornicione e come sono riuscito a fare adesso che sei di nuovo qui con me. È lo stesso anche per te? È sempre stato lo stesso anche per te? Mi sei mancato, mi sei mancato così tanto in questi mesi che sei stato via che quasi ti odio, che quasi vorrei non perdonarti. Ma non posso farlo, vero? Non posso scegliere di non perdonarti dopo che ho desiderato così ardentemente di riportarti indietro. Non è questione di scelte, non posso scegliere con te, posso semplicemente esistere e andare avanti.

Vorrebbe dirgli questo ma non può perché è troppo e non pensa che la sua voce sia in grado di reggere un vero discorso così lo stringe di più. Lo stringe così forte fino a quando l’unico suono nella sua testa è il cuore di Sherlock che batte e il suo respiro.

In quel momento, in una fredda camera da letto di una villa scozzese John Watson e Sherlock Holmes sono innamorati.

 

Si è chiesto tante volte cosa si potesse provare ad essere in una relazione con Sherlock Holmes, non ad esserne innamorati perché quello lo sa così bene da sentirlo fin dentro alle viscere, ma la sua mente si è sempre impantanata tra una serie di luoghi comuni risalenti ai suoi appuntamenti con le varie fidanzate e l’essenza di Sherlock. Ha provato a immaginare baci, tenerezze al mattino appena svegli, qualcuno che prepara il caffè per l’altro e uscite per andare al cinema e fare l’amore e le prime litigate per la gelosia o qualcosa di stupido da dimenticare subito dopo ma tutte questi flash mentali si sono subito scontrati con l’immagine reale di Sherlock, il suo essere così diverso da tutto quello che ha mai conosciuto, il suo essere diverso da tutto il resto.

Alla fine viene fuori che avere una relazione con Sherlock Holmes non è così diverso dal vivere con Sherlock Holmes. È surreale, è folle, è affascinante, è terrorizzante. Ed è soprattutto totalizzante. È un rapporto così intimo e profondo che non ammette interferenze del mondo esterno, non che John le cerchi dopo che è stato separato da lui per così tanto tempo, esattamente come la loro amicizia non le ammetteva prima. Anche quando c’erano le fidanzate, anche quando c’erano i vecchi compagni del rugby e il lavoro all’ospedale erano mere comparse nella vita di John, figure sullo sfondo di un qualcosa di inaccessibile. Sono sempre stati solo loro due, anche quando non lo sapevano e anche quando lo sapevano e non erano in grado di ammetterlo (quanto tempo abbiamo perso, Sherl? Chi me lo ridarà mai indietro?).

Non ci sono baci la mattina appena svegli, anche se c’è un considerevole aumento del contatto fisico, di un contatto che non è più solo sussurrato ma anche detto ad alta voce, cercato, sentito. C’è una persona che prepara la colazione per l’altra ed è sempre John a farlo e in quel gesto non c’è nulla del romanticismo che riservava alle fidanzate quando voleva fare colpo su di loro per ottenere un quarto appuntamento ma c’è una sensazione di familiarità e quotidianità nettamente migliore ( Sherlock non mangia mai, non può mangiare ma John è diventato abbastanza bravo ad ignorare quest’aspetto e non vederlo nemmeno più). Non vanno al cinema perché l’idea di Sherlock al cinema che spoilera il film a tutti gli spettatori alla visione della prima scena non lo invoglia particolarmente ma ci sono i film di 007 guardati sul divano con il suo migliore amico che gli appoggia la testa sulle gambe e gli permette di rimanere ore ad accarezzargli i capelli e sentirlo vivo (e reale) sotto le sue dita.  Non ci sono scenate di gelosia perché non vedono nessuno ma quelle non ci sarebbero comunque perché John è sicuro che anche se uscissero di casa per qualcosa di più di una passeggiata tra i boschi non vedrebbero nessuno. John non vedrebbe nessuno perché non c’è spazio in lui per qualcun altro, non c’è mai stato spazio in lui per qualcun altro da quando c’è stato Sherlock.

Non c’è spazio dentro me finché dentro ci sei tu3.

Non c’è nulla di perfetto nella loro relazione, come non c’era nulla di perfetto nella loro amicizia ma ogni cosa è perfetta per loro. John non si è mai sentito così vivo, non si è mai sentito così felice.

La notte fotte Sherlock fino a quando sente le ossa fargli male e l’unico suono che riempie la sua testa è quello dei loro gemiti che si fondono insieme. Non è solo sesso (come non è mai stato solo amore) è una necessità fisica di percepire Sherlock ovunque, di sentirsi dentro di lui, di affondare in lui, di lasciarsi avvolgere dal suo corpo. Non riesce ancora a concepire come il corpo sotto di lui che per mesi gli è sembrato così impenetrabile, quasi non umano sia in realtà morbido e pulsante e caldo. Vivo. Innamorato. Non è solo sesso, è come se Sherlock faccia davvero l’amore con lui, come se gli permetta di amarlo e se permetta a se stesso di lasciarsi amare. C’è un controsenso in tutto questo, c’è qualcosa che stride ed è il ricordo di un uomo incapace di farsi toccare fino in fondo dalle persone e in grado di riconoscere nell’amore un difetto chimico che così poco riesce a coincidere con lo Sherlock che adesso gli si stringe addosso, che lo bacia, che gli permette di affondare nel suo corpo e che si abbandona alle sue carezze. Qualcosa nella mente di John lancia un campanello d’allarme, qualcosa registra un’informazione che non funziona (da quando è diventato come Sherlock? Da quando ha bisogno di razionalità e prove?) ma scaccia quel pensiero e si stringe più forte all’uomo che ama fino a che tutto sfuma in quell’unione.

È felice, è innamorato. Va tutto bene.

 

 

 

 

Solo che non va davvero tutto bene. Solo che un pomeriggio quando sovrappensiero si china per lasciare un bacio sui capelli a Sherlock, impegnato in quel momento ad osservare qualcosa al microscopio (le sue cose ormai sono ovunque, come se non se ne fosse mai andato. Non se n’è mai andato davvero), non riesce a fare a meno di notare che il suo compagno non si ritrae per quel contatto. Da quando è tornato ha notato in Sherlock una crescente disponibilità a ricambiare i suoi sentimenti, a lasciarsi amare da lui ma è ancora un gattino selvatico che esige attenzioni immediatamente, poi lo ignora per ore perso nei suoi esperimenti e lo allontana scocciato quando è John a volere qualche coccola mentre è impegnato e quel pomeriggio la sua mancanza di ritrosia per quel contatto è quanto di più estraneo riesce a immaginare. Qualcosa nella mente di John lancia un campanello d’allarme.

La mattina dopo si sveglia e Sherlock è al suo fianco. Non dorme mai ovviamente (non può dormire, rimane solo sdraiato a fissare il soffitto con gli occhi spalancati, pensa sia un difetto del clone) ma non è nemmeno mai al suo fianco quando John si sveglia. Di solito deve girare per tutta la casa e poi lo trova fuori davanti all’orto intento a vivisezionare un qualche animaletto che ha appena catturato, non è certamente al suo fianco come il più comune dei fidanzati o degli amanti. Il campanello nella mente di John inizia a suonare in maniera forsennata. Ignorarlo è più difficile.

Una manciata di giorni dopo succede.

Non è che volesse dirglielo davvero. Gliel’ha detto per settimane nel periodo in cui sono stati lontani e qualche volta anche ad alta voce fissando la sua fotografia, dio quant’è grottesco, quanto è degno del peggiore degli harmony, ma mai ha pensato lasciarselo scappare davanti a lui. L’ha ammesso a se stesso dopo aver spento il cellulare dopo la loro prima telefonata e l’ha sussurrato al pacco che lo conteneva dopo aver acquistato l’upgrade del servizio ma non ha mai pensato di poterglielo dire davvero e adesso è terrorizzato. Non è pronto a perdere Sherlock, non è pronto a vederlo scappare via davanti a quei sentimenti così reali e così umani. Così dirompenti da essere troppi. Non è pronto ma sa che è il passaggio successivo perché da certe frasi non si torna indietro, perché è troppo presto, perché Sherlock è Sherlock e John lo conosce talmente bene da sapere che rimarrebbe meno traumatizzato dal sentirgli dire che ha ucciso una famiglia di dodici persone rispetto a questo.

“Ti amo anche io, John.”

Qualcosa nella mente di John si spezza.

Chi sei tu? Dov’è finito il mio Sherlock?

Sherlock non l’avrebbe mai detto. Sherlock non avrebbe mai risposto a quella sua confessione, non così. Sherlock si sarebbe arrabbiato, si sarebbe infastidito, l’avrebbe vista come una presa in giro e mai mai l’avrebbe ricambiato.

Sherlock non avrebbe mai fatto l’amore con lui. Sherlock non sarebbe mai rimasto a poltrire nel letto e condividere calore. Sherlock non gli avrebbe mai detto “Mi manchi anche tu”. Sherlock non si sarebbe mai mostrato così umano (Sherlock forse non sarebbe nemmeno mai stato così umano).

Chi sei tu? Dov’è finito il mio Sherlock? Io non ti voglio. Non voglio te. Rivoglio indietro lui. Voglio che mi trovi sentimentale, voglio che critichi la mia scrittura (l’ha fatto ma John sceglie d’ignorarlo come prima ha ignorato tutti gli altri segnali), voglio che m’ignori per un giorno intero perché anche le api sono più interessanti di me. Voglio che s’innamori di me e che non me lo dica mai. Voglio una vita in cui il nostro massimo contatto si riduca a due piedi che si sfiorano sotto il tavolo della cucina se in questa vita c’è lui con me.

Io non ti voglio.

Io non ti amo.

 

 

 

Rewind.

Se solo John avesse guardato tra le carte di Sherlock prima d’inviarle alla Black mirror group invece di prendere manciate di fogli e gettare tutto in una scatola le cose sarebbero così diverse. Se solo avesse avuto il coraggio di perdersi tra quei fogli invece di scappare (Sherlock odora d’inchiostro e tè tenuto troppo in infusione e il solo pensiero di quell’odore gli fa tremare le ginocchia) andrebbe tutto diversamente. Ci sono così tante cose che non si sono detti, ci sono così tanti messaggi che non si sono mandati. Ci sono così tanti modi in cui sarebbe potuto andare diversamente il loro rapporto e così tante volte in cui entrambi hanno scelto di farlo tornare sui soliti binari. Entrambi. Entrambi come testimoniano frasi smozzicate all’interno di appunti sui casi, come testimoniano sms che qualcun altro non ha mai avuto il coraggio di mandare. Non sono dichiarazioni d’amore, sono l’equivalente di una dichiarazione d’amore per Sherlock Holmes. Pezzi di frase, il suo nome che si ripete come una nota a margine ogni tot di pagine (JohnJohnJohn). Una stampa del primo post del blog dedicato a loro con sottolineata la sua descrizione. Un appunto sul suo film di James Bond preferito. Un foglio con l’atto di proprietà di una casa nel Sussex la cui proprietà non è più solamente di Sherlock ma di entrambi. Non sono dichiarazioni d’amore normali, sono frasi incomprensibili che quell’amore lo danno quasi per scontato. Sono la parte più umana di Sherlock e sono tutte riferite a lui.

“Ti amo anche io John.”

 

 

 

John non riesce a stare in casa, non riesce a stare nello stesso luogo con il clone (non più Sherlock adesso ma il clone), anche solo l’idea di condividere la stessa aria gli fa venire la nausea. Non può guardarlo in faccia, non può affrontarlo (per dirgli cosa poi? Non è nemmeno reale) senza sentirsi male. Deve andare via. Prende la porta e si allontana nei boschi in direzione della scogliera vicino a casa. Non ci va da quando il clone è arrivato, non ha praticamente mai sentito il bisogno di uscire di casa perso com’era in quella relazione con una persona che nemmeno esiste, ma in quel momento gli sembra il posto più lontano da casa che possa raggiungere e deve andarsene. Deve andare via. Deve andare via da lui.

Non fa in tempo a prendere una boccata d’aria, a sentire l’odore del mare riempirgli il naso e la testa che una voce chiama il suo nome.

L’ultima volta che ha sentito Sherlock (di nuovo Sherlock, maledizione sta impazzendo) chiamare il suo nome con un tale affanno stavano facendo l’amore e adesso non riesce nemmeno a guardarlo in faccia. Non riesce nemmeno a pensare di essere sulla sua stessa isola, perdio.

“John!”

“Sono solo uscito per una passeggiata, Sherlock te l’ho detto non dovevi seguirmi” Un tempo usciva per andare dalle sue fidanzate e lui manco si accorgeva della sua assenza, perché adesso sente il bisogno di seguirlo?

“Devo essere massimo a cento metri da te, John. Dovevo seguirti.”

Se non fosse così disgustato dalla situazione, e da se stesso, gli verrebbe quasi da ridere. Non c’è amore in Sherlock (perché continua a chiamarlo con quel nome che non gli appartiene?), in quel gesto, è solo un bug del sistema.

“E se mi buttassi da questa scogliera dovresti seguirmi anche in quel caso?” Alla fine scoppia a ridere sul serio. Si odia. Ha comprato il clone di una persona, come ha potuto ridursi in questo stato?

“Non essere ridicolo, John, tu non ti butterai da nessuna scogliera. Non essere melodrammatico.”

In quella voce, in quella frase John riconosce qualcosa che sa ancora di casa, della persona di cui è innamorato, di una persona che non esiste. Ha un’esitazione.

“Perché non dovrei buttarmi? Tu l’hai fatto.”

Nessuna risposta. Il clone non è a conoscenza di quelle informazioni. Dio cosa sta facendo, com’è arrivato a questo punto?

“Tu l’hai fatto Sherlock. Tu ti sei buttato davanti ai miei occhi. Davanti a me. Non mi hai fatto perdere un secondo di quello spettacolo, perché non dovrei farlo io?”.

“Perché non puoi. Perché non è più un tuo diritto.”

Perché sei mio. Vuole dirgli questo? Sherlock gliel’avrebbe voluto dire o è solo l’ennesimo bug di una macchina, di un qualcosa che non è reale?

“E tu non hai diritto di chiedermi di non farlo. Non puoi. Non puoi chiedermi niente” la sua voce è quasi stridula mentre gli parla “perché tu non sei niente. Non sei mai stato niente, quindi perché non ti butti? L’hai già fatto una volta, perché non ti butti?”.

“John”

Non lo ascolta, non sente niente e continua a parlare. “ Pensi che non sopravviverei? Sono già sopravvissuto una volta. Ti ho già visto cadere una volta. Perché non ti butti?”

Il clone si avvicina alla scogliera. Può quasi toccarlo adesso, potrebbe farlo se lo volesse ma ha paura che se lo facesse finirebbero abbracciati e il suo cervello andrebbe definitivamente in tilt (come se non fosse già impazzito).

“Perché non ti butti? Perché vedi io non potrò mai spingerti di sotto, io non potrò mai entrare in casa e digitare qualche codice in un computer e disattivarti. Io non potrò mai scegliere di rinunciare a te e tu mi stai facendo impazzire e ti odio. Non potrò mai ucciderti, non potrò mai disattivarti, non potrò mai spingerti di sotto. Sei solo una macchina ma non potrò mai rinunciare a te.”. Lo scuote come se sperasse in una qualche reazione, come se sperasse in qualcosa che non può avere. Niente di nuovo alla fine. “Buttati. Buttati. Perché non ti butti?”

Perché non mi lasci in pace? Io non ti voglio. Voglio lui. Ho sempre voluto solo lui. Attento a quello che desideri, John.

Il clone mette un piede sul precipizio senza guardare giù, come se non avvertisse nulla (non è reale, non può avvertire nulla. Non si accorgerebbe di nulla se John lo spingesse), come se stesse semplicemente obbedendo all’ordine del suo padrone.

Gli viene da ridere e piangere insieme. Ride.

“Sai, lui non l’avrebbe mai fatto. Sherlock non si sarebbe mai buttato da una rupe, da una scogliera solo per me, solo per non farmi impazzire. Maledizione Sherlock si è lanciato da un palazzo solo per i suoi comodi e mi ha fatto impazzire. Cosa c’è di meno da lui di questo sacrificio? Quanto sono stato stupido, maledizione.”

Se solo sapesse. Se solo avesse ascoltato quella conversazione sul tetto del Barts. Se solo in questo momento John fosse in grado di riacquistare un minimo di lucidità e di vedere Sherlock come l’ha sempre visto prima della caduta, come nessuno l’ha mai visto. Come il più umano degli umani che si getta da un palazzo per salvarti la vita (salvo poi farti desiderare di non avercela più quella vita, salvo poi farti impazzire).

Le gambe gli cedono, gli sembra che gli stia mancando la terra sotto i piedi (e in realtà è proprio così) ed è costretto ad appoggiarsi all’albero più vicino alla scogliera per cercare un sostegno. L’ultima volta che è quasi svenuto era imbottito di semtex in una piscina londinese e aveva appena rischiato di farsi saltare in aria per salvare il suo migliore amico, dio cosa darebbe per tornare a quel momento anche con un diverso finale.

Non sa quanti minuti rimane appoggiato a quell’albero con gli occhi chiusi cercando di concentrarsi solo sul suo respiro e sul farlo tornare regolare. Ha già affrontato attacchi di panico ma questo sembra non voler passare mai. Si sente sfinito. Respira respira respira. Concentrati sul tu respiro. Ora tornerete a casa e non digiterai nessun tasto su nessun computer ma continuerete con la vostra vita insieme perché non ci sono alternative. Perché l’hai voluto così tanto e adesso sei obbligato a tenertelo. Perché questa copia sbiadita di Sherlock è la tua punizione e forse va anche bene che a porti alla pazzia sia proprio lui.

È così concentrato sul suo respiro, sul calmarsi che è come se fosse in una bolla e il mondo esterno non lo toccasse (maledizione, quanto vorrebbe rimanere così per sempre) e l’unica cosa che lo riporta alla realtà è il rumore di un corpo che si schianta contro gli scogli. Dio, quel suono.

Ha già sentito quel suono, quel rumore, anche se in maniera diversa davanti al marciapiede del Barts. Il suono del corpo del suo migliore amico che si schianta al suolo e della sua vita che va in pezzi. Non gli ha nemmeno detto addio stavolta.

Cos’è successo?

“Addio John.”

Ci sono momenti nella vita della persona che si dilatano in maniera tale da renderli quasi eterni. Sono momenti che ricordi per tutto il resto della tua vita, che passi le giornate a cercare di rivivere prima di addormentarti dopo una brutta giornata o da cui invece cerchi di scappare dopo l’ennesima notte di incubi.

Come quando l’uomo di cui sei innamorato torna dal regno dei morti per te.

“John” se non stesse guardando il corpo del clone abbandonato contro gli scogli non crederebbe nemmeno fra un miliardo di anni al fatto che la voce che sente alle sue spalle appartenga a Sherlock Holmes. C’è un’incertezza nel modo in cui quel John esce dalle sue labbra, un qualcosa che non riconosce e che per motivi che non riesce a capire gli scalda il cuore. Sta impazzendo. No peggio, è letteralmente impazzito.

“Tu non sei reale.” Vorrebbe urlare ma poi si sentirebbe ancora più pazzo e allora cerca di razionalizzare, cerca di mantenere un certo contegno nel suo tono di voce. È un militare, alla fine.

“John.”

L’uomo davanti a lui, con i riccioli più lunghi dell’ultima volta che l’ha visto e una piccola cicatrice sulla fronte che non conosceva, non è poi così diverso dal cadavere che giace abbandonato sugli scogli e da quello che ha trovato sul marciapiede del Barts.

“Tu sei morto.” Tu sei morto, due volte. Tu non puoi esistere. Tu non puoi essere qui.

Ti ho aspettato così tanto.

Come settimane prima una forza che non riesce a comprendere sembra muovere le sue gambe e attirarlo a lui. È la storia della sua vita. Sherlock Holmes, in qualsiasi forma, arriva e lui è portato naturalmente a seguirlo, è irrimediabilmente attratto da lui.

Sherlock non si ritrae mentre lo vede avvicinarsi ma alza solo brevemente gli occhi al cielo e sospira. “Sì l’avevo preventivata tutta la faccenda del pugno in faccia” sbuffa allontanando la faccenda con un gesto della mano “risolviamola e poi passiamo a cose serie, tipo il tuo ritorno a Londra il prima possibile…” c’è un’esitazione adesso, la stessa fragilità che prima non ha riconosciuta come sua (sei umano) “e poi le mie spiegazioni su come ho fatto a salvarmi, perché le ascolterai vero, John? Le devi ascoltare.”

Sei tornato.

Spiegazioni, certo, deve ascoltare le sue spiegazioni. E magari dargli anche un pugno perché non c’è ombra di dubbio sul fatto che se lo meriti e dannazione perché adesso gli sembra che tutto sia così facile, adesso che le sue gambe lo spingono verso Sherlock, quando prima, quando solo una manciata di minuti prima tutto sembrava irrimediabilmente compromesso? C’è un cadavere, sempre che si chiamino cadaveri anche i corpi dei cloni, su degli scogli e non sa nemmeno come sia finito lì, e ci sono persone che ritornano dalla morte dopo averti rovinato la vita e questo non dovrebbe sembrare facile. Dovrebbero esserci delle urla, dei pugni, dovrebbero esserci valanghe di recriminazioni e rancori. Non dovrebbe essere facile. Nulla di questo ha senso. Nulla dovrebbe essere.

Non dovrebbe essere ed eppure è.

Lo abbraccia. Lo abbraccia come ha abbracciato il clone nella sua camera da letto quel giorno e contemporaneamente lo abbraccia in maniera totalmente diversa. L’uomo stretto a lui è impacciato, è gelido e caldo e vivo e tossisce un po’ imbarazzato ed è la cosa più reale che abbia mai sentito.

“Sei tornato.” Ti ho aspettato così tanto, ti ho continuato ad aspettare anche quando ho creduto di aver smesso di farlo, anche quando ho cercato un’alternativa, anche quando credevo di essere impazzito.

“Sei tornato da me.”

“Non sarei tornato da nessun altro.”

 

 

 

“Non riesco a credere che una persona così piccola accumuli così tante cose” si lagna Sherlock davanti all’ennesimo scatolone.

“Ha! Ha appena parlato quello che non viveva nemmeno a Baker Street che la casa era piena di carte ed esperimenti ovunque. Tu arrivi da qualche parte e sei come un blob, ti espandi dappertutto senza lasciare spazio a nient’altro.” Come hai fatto anche nella mia vita, potrebbe dirgli. “E in ogni caso perché mi stai tenendo il muso visto che sei sdraiato sul divano con una rivista, che so benissimo che hai finito di leggere almeno due ore fa, e non hai messo via un oggetto che sia uno.”

“Mettere via è noioso, John.”

“Anche rimanere sdraiato sul divano a fare i capricci.”

“Sto pensando, John. Dovresti provare ogni tanto, lo troveresti un cambiamento della tua routine davvero stimolante. Potresti inserirlo tra la sveglia delle 8.30 e la sega sotto la doccia delle 9.15”

“Ma poi dovrei rinunciare al piacere della tua compagnia quando sei appena sveglio e ancora prima di lavarti i denti senti il bisogno di riempirmi di coccole e soprattutto di lamentarti di quanto io abbia russato per tutta notte, come potrei farne a meno?”

“Touchè.”

John gli assesta un pizzicotto sul sedere e si abbandona sul divano vicino a lui. Piedi contro piedi, tutti incastrati. Al caldo, al sicuro.

“Torniamo a casa, oggi?”

“Torniamo a casa.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autore: Liberamente ispirata alla puntata 2x01 di Black Mirror che ha appunto il titolo Be right back e che è bellissima, come sono bellissime tutte e sei le puntate della serie che vi consiglio di recuperare, e riuscita molto meglio di questa fanfiction.

Un parto. Questa cosa è stato un parto per me che sono abituata a shot di massimo sei o sette paginette di word ma non mi andava di spezzarla in due quindi =) La verità è che non mi divertivo a scrivere qualcosa così tanto da molto tempo.

Chiedo venia per Sherlock un po’ OOC, per me era funzionale alla trama visto che per la maggior parte della storia beh non è Sherlock, e per John con il premestruo nel finale, meno funzionale ma è scappato così. Sono riuscita ad avere una doppia Reichenbach, yay! Ps:Giuro che rispondo alle recensioni arretrate è che mi sono un po' persa a sfornare biscotti al caramello salato nelle ultime settimane e mi sono rincoglionita =)

Buon Natale(?!).

 

 

 

 

1 Il Black mirror group è una citazione della serie a cui mi sono ispirata per scrivere questa ff.

2 Questa è una citazione, più o meno sono andata a memoria visto che l’avevo in testa, di Bleeding di Fusterya perché è una delle mie scene preferite non solo nelle ff ma tipo in tutto il mondo.

3 Varanasy Baby, Afterhours. Una delle canzoni post fall e più Johnlock di sempre, dovevo citarla prima o poi.

 

  
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