2002.
“It’s
not much of a life you’re living,
It’s
not just something you take, it’s given”
Non
sapeva di
preciso dove si trovava, qualcuno l’aveva portata fino a
lì in una macchina
rossa decapottabile e ricordava solo che le era piaciuto quando il
vento le
aveva scompigliato i lunghi capelli biondi. Dopo aver bevuto una birra
aveva
sentito della musica e, malferma sulle gambe, si era avvicinata sempre
di più
alla fonte di tutto quel rumore. Riusciva a vedere che c’era
parecchia gente,
l’una ammassata sull’altra, che saltava, che alzava
le mani, che sorrideva, che
piangeva. La ragazza a cui era appena passata di fianco piangeva e
sorrideva
contemporaneamente. Non ne capiva il motivo, ma trovò la
cosa troppo buffa per
non scoppiare a ridere. Rise
tantissimo,
tanto che il petto cominciò a farle male, sempre
più male, aveva male ovunque
ora, non riusciva più nemmeno a pensare. Si girò
e vomitò. Si passò una mano
sulla bocca e fece una smorfia: l’effetto della droga se ne
stava già andando,
lo sentiva. Imprecò, parlando ad alta voce. Ma tanto nessuno
poteva sentirla
con tutta quella confusione, no? Ma tanto nessuno la stava mai a
sentire.
«Non
è una gran vita quella che stai vivendo», disse il
cantante a qualche metro da lei. Sebbene
avesse la vista offuscata, dalla posizione in cui si trovava, e grazie
alla sua
altezza poco femminile, riusciva a vederlo bene: i capelli biondo
chiaro tinti
– si poteva notare un piccola ricrescita castano scuro
– gli arrivavano al
mento, e si arricciavano all’insù sulle punte;
aveva la vita stretta e sembrava
spaventosamente magro, se non si fossero notate le braccia e le spalle
decisamente muscolose; era, dalla testa ai piedi, vestito di bianco, a
partire
dalla giacca a maniche lunghe, fino ai pantaloni non troppo adenti.
Aveva una
voce bassa, profonda, molto sensuale, ma la canzone che stava cantando
ora
assomigliava tanto ad una ninna nanna, e lei, che aveva ancora la testa
leggera
per la droga e l’alcool e tutto il resto, cominciò
ad ondeggiare a ritmo.
Non
è una gran vita quella che stai vivendo. Quel verso
continuava a rimbombarle dentro le
pareti del cervello, a rintoccare dentro di lei come un monito, secondo
dopo
secondo. Lo sapeva bene anche lei, che la sua vita faceva schifo. Era
proprio
un disastro. Era vita? Il suo era uno stare in vita, un sopravvivere,
ma no,
non era vita. Mangiava, quando le capitava, quando aveva qualche
spicciolo che
le avanzava, quando qualcuno le offriva qualcosa. Dormiva quelle poche
ore
sufficienti a farla rimanere in piedi durante il giorno, soprattutto in
letti o
divani di persone che nemmeno conosceva. Sorrideva, come spasmo
involontario
dei suoi muscoli facciali. Non era vita.
Si fece
spazio fra
la gente, grazie alla sua figura sottile e slanciata, e si
ritrovò in prima
fila, davanti a lui che ancora la cullava dolcemente con la sua voce.
Chiuse
gli occhi. Si sentiva svuotata, come se, dentro di lei, non ci fosse
rimasto
niente se non pace. Non c’era più paura, non
c’era più la stanchezza di una
vita vissuta nel modo sbagliato, non c’era più
l’astinenza dalla droga, il male
fisico (i polpacci che cominciavano a tremarle, le braccia senza forza,
i denti
che digrignavano fra loro e che mordevano forte le pareti molli della
bocca, le
unghie conficcate nei palmi delle mani), era come se non ci fosse
più nemmeno
lei, come se, finalmente, fosse riuscita ad annullarsi. Sorrise e
aprì gli
occhi, trovandosi quelli del cantante a pochi centimetri di distanza:
erano
grandi, di un blu intenso che sembrava infinito, e l’avevano
ferita. Sentì le
gambe vacillare e svenne, cadendo a terra senza farsi male. E poi fu
tutto
nero.
Jared, le
spalle
rigide e gli occhi dilatati per lo spavento, se ne stava inginocchiato
lì
vicino. Non troppo vicino per paura di rubarle l’aria, ma
abbastanza vicino da
notare che, sebbene il suo petto si alzasse e si abbassasse ad un ritmo
abbastanza regolare, gli occhi non le si aprivano, le mani non si
muovevano.
Era immobile di fronte a lui, e sembrava quasi morta. Era pallida, in
parte per
il brusco svenimento da cui ancora non si era svegliata, in parte per
la pelle
chiarissima, del colore della luna. Aveva le ciglia lunghe, che, con
gli occhi
chiusi, le sfioravano gli zigomi ossuti e pronunciati. Era magra, forse
fin troppo,
tanto che da così distesa le costole sembravano volerle
perforare la pelle e la
maglietta tutto in una sola volta. Le labbra, leggermente dischiuse,
erano di
un rosso scuro, sebbene non ci fosse traccia di rossetto. Non era
truccata,
nessuna traccia di mascara, ombretto, fard o fondotinta. Nessuna
maschera. Le
unghie, appena accennate, erano insanguinate, come anche i palmi delle
mani,
sui quali piccole mezzelune bianche risplendevano sotto le luci a neon
della
stanza bianca e anonima dove l’avevano portata. I capelli
biondo scuro le
incorniciavano il volto, e subito lui si mise a pensare alle
rappresentazioni
delle dee greche nei libri di miti che mamma gli regalava sempre
quand’era
piccolo.
Perché
non si
svegliava? Ricordava di averla guardata negli occhi e di aver sentito
una morsa
allo stomaco: erano tristi, persi in un vuoto che sembrava non finire
mai,
immensi, impauriti, freddi. C’era qualcosa che non andava nei
suoi occhi, erano
morti, e lei era troppo bella. Si era illuminata poi, quando i loro
sguardi si
erano incontrati. Anche lei lo trovava bello, lo sapeva bene. Poi
l’aveva vista
crollare, davanti a sé, fino a non vedere più
niente se non un uomo nerboruto
che la trascinava via, fuori dalla folla che incurante aveva continuato
a
stringersi attorno a lei. Finì la canzone e
scappò dal palco di corsa, sotto
gli sguardi confusi dei suoi compagni. Non aveva voglia di dare delle
spiegazioni, voleva solo ritrovarla. Chiese in giro, e lo indirizzarono
in una
stanzetta in cui lei era adagiata su un tappeto, un bicchiere di acqua
affianco, e un uomo che le metteva una pezza di stoffa sulla fronte. Si
inginocchiò
affianco a lei e aspettò.
«Perché
non ti
svegli?», sussurrò dopo un po’, in preda
all’ansia. Doveva rivedere quegli
occhi, doveva porre loro delle domande, doveva capire. Le
sfiorò le vene del
braccio, di un colore scuro che bene conosceva, e sentì di
nuovo quella morsa
allo stomaco. Da quanto tempo si drogava? Avrebbe voluto saperlo.
Perché lo
faceva? Che cosa era successo nella sua vita di tanto tragico da farla
rifugiare in quello schifo? Perché voleva uccidersi? Aveva
bisogno di risposte.
«Svegliati, ti prego», disse in un sospiro, il naso
appoggiato sul suo polso.
Aveva un buon profumo, pesca forse.
«Non
è per la
droga, sai? Non mangio da due giorni buoni, è per quello che
sono svenuta».
Jared alzò la testa bruscamente e vide i suoi occhi aperti
in due fessure, una
smorfia appena accennata. «Sono una stupida».
«Hai
fame?»,
chiese lui. Lei annuì, mordendosi le labbra imbarazzata.
Jared le sorrise.
«Aspetta qui».
Quando fece
per
alzarsi e andare a cercare qualcosa di commestibile da portarle, lei lo
fermò
prendendogli il braccio debolmente, ancora sfinita dopo lo svenimento. «Non
c'è solo da prendere, bisogna anche dare».
Jared la guardò confusa, e lei sorrise. «La
canzone
che stavi cantando prima». Lui scosse la testa: non capiva.
«Credo sia arrivato
il momento per me di dare qualcosa», disse, alzandosi
cautamente a sedere.
Jared le si avvicinò con l’intento di aiutarla, ma
lei lo allontanò e si alzò
in piedi. «Dopo che mi avrai dato quel cibo,
perché ne ho davvero
bisogno, sparirò, perché non puoi diventare anche
tu
qualcuno a cui strappo via le cose e da cui poi scappo,
perché adesso l’ho
capito, che devo uscire da questa merda. Sto diventato tutto quello che
non ho
mai voluto essere, che ho sempre disprezzato perché mi
faceva male. Ha finito
per farmi così male da sovrastarmi, vincermi,
dominarmi».
«Non
so di cosa tu stia parlando», sospirò Jared,
stropicciandosi gli occhi. Voleva
risposte e aveva ottenuto solo altre mille domande. «Non so
nemmeno come ti
chiami».
«Non
ha importanza come mi chiamo», sorrise lei avvicinandosi a
lui. Posò le mani
sul suo petto e si alzò sulle punte per lasciargli un bacio
sulla guancia
liscia. Lui la guardò, e le sembrò che da quella
prospettiva sembrasse ancora
più bella. Non ebbe il coraggio di toccarla in nessun modo,
e lei si allontanò.
«Io
mi chiamo Jared», sussurrò lui, la voce roca.
«Jared.
È un bel nome», sorrise lei. Puntò poi
un dito sulla sua giacca, sfiorando
appena la freccia rossa applicata sulla sua spalla. «Che cosa
significa?»,
chiese, la testa inclinata di lato, la curiosità negli
occhi.
«Provehito in altum, punta in alto,
sempre».
«Punta
in alto», ripeté lei, muovendo appena le labbra.
Poi gli lanciò un’occhiata.
«Grazie Jared». Lo sorpassò e
varcò la soglia della porta sparendo dalla
visuale di Jared, che, dopo alcuni attimi in cui non poté
far altro che rimanere
immobile, corse fuori dalla porta e la fermò. «Non
ti ho ancora portato quel
cibo che ti ho promesso».
«Torno
a casa, Jared. Va tutto bene ora».
Lo
disse con una tale serietà da far tremare le mani di lui,
che in ogni caso, si
limitò ad annuire. «Buon viaggio,
allora». Lei gli sorrise, e se ne andò.
Non sapeva il suo nome, non sapeva dov’era casa, chi era casa, non sapeva se avrebbe smesso di drogarsi, o se non le importava, non sapeva come interpretare il suo discorso, non sapeva più niente, se non che avrebbe cercato quegli occhi ancora, ancora e ancora, perché li vedeva ancora, dietro alle sue palpebre chiuse, scuri e malati, tristi e impauriti.
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Primo:
ho ipotizzato che Stay fosse
una canzone dei Mars composta nell’era del primo album. So
bene che non avrebbero mai potuto comporre qualcosa di simile, visto lo
stile molto diverso che avevano, ma non importa, avevo solo bisogno
delle parole della canzone perché sono state loro ad
ispirare la storia.
Secondo:
il Jared che mi sono immaginato è quello del 2002,
all’incirca. Insomma, siamo nel periodo Old School quando
ancora c’era Matt, per intenderci. In quel periodo, se non
sbaglio, lui stava insieme a Cameron Diaz, ma ovviamente non nella mia
storia.
Terzo:
storia nata durante una delle tante notti passate a contemplare il buio
della mia cameretta. Dovrebbe essere composta da pochi capitoli, anche
se non so ancora quanti. Spero di riuscire a postarli in fretta, avendo
del tempo durante la vacanze natalizie.
E niente, fatemi sapere se avete apprezzato. Un bacino sul naso, Deb.