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Autore: sleepingwithghosts    22/12/2013    1 recensioni
«Perché non ti svegli?», sussurrò dopo un po’, in preda all’ansia. Doveva rivedere quegli occhi, doveva porre loro delle domande, doveva capire. Le sfiorò le vene del braccio, di un colore scuro che bene conosceva, e sentì di nuovo quella morsa allo stomaco. Da quanto tempo si drogava? Avrebbe voluto saperlo. Perché lo faceva? Che cosa era successo nella sua vita di tanto tragico da farla rifugiare in quello schifo? Perché voleva uccidersi? Aveva bisogno di risposte. «Svegliati, ti prego», disse in un sospiro, il naso appoggiato sul suo polso. Aveva un buon profumo, pesca forse.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2002.

 

“It’s not much of a life you’re living,

It’s not just something you take, it’s given”


Non sapeva di preciso dove si trovava, qualcuno l’aveva portata fino a lì in una macchina rossa decapottabile e ricordava solo che le era piaciuto quando il vento le aveva scompigliato i lunghi capelli biondi. Dopo aver bevuto una birra aveva sentito della musica e, malferma sulle gambe, si era avvicinata sempre di più alla fonte di tutto quel rumore. Riusciva a vedere che c’era parecchia gente, l’una ammassata sull’altra, che saltava, che alzava le mani, che sorrideva, che piangeva. La ragazza a cui era appena passata di fianco piangeva e sorrideva contemporaneamente. Non ne capiva il motivo, ma trovò la cosa troppo buffa per non scoppiare a ridere.  Rise tantissimo, tanto che il petto cominciò a farle male, sempre più male, aveva male ovunque ora, non riusciva più nemmeno a pensare. Si girò e vomitò. Si passò una mano sulla bocca e fece una smorfia: l’effetto della droga se ne stava già andando, lo sentiva. Imprecò, parlando ad alta voce. Ma tanto nessuno poteva sentirla con tutta quella confusione, no? Ma tanto nessuno la stava mai a sentire. 

 

«Non è una gran vita quella che stai vivendo», disse il cantante a qualche metro da lei. Sebbene avesse la vista offuscata, dalla posizione in cui si trovava, e grazie alla sua altezza poco femminile, riusciva a vederlo bene: i capelli biondo chiaro tinti – si poteva notare un piccola ricrescita castano scuro – gli arrivavano al mento, e si arricciavano all’insù sulle punte; aveva la vita stretta e sembrava spaventosamente magro, se non si fossero notate le braccia e le spalle decisamente muscolose; era, dalla testa ai piedi, vestito di bianco, a partire dalla giacca a maniche lunghe, fino ai pantaloni non troppo adenti. Aveva una voce bassa, profonda, molto sensuale, ma la canzone che stava cantando ora assomigliava tanto ad una ninna nanna, e lei, che aveva ancora la testa leggera per la droga e l’alcool e tutto il resto, cominciò ad ondeggiare a ritmo.

Non è una gran vita quella che stai vivendo. Quel verso continuava a rimbombarle dentro le pareti del cervello, a rintoccare dentro di lei come un monito, secondo dopo secondo. Lo sapeva bene anche lei, che la sua vita faceva schifo. Era proprio un disastro. Era vita? Il suo era uno stare in vita, un sopravvivere, ma no, non era vita. Mangiava, quando le capitava, quando aveva qualche spicciolo che le avanzava, quando qualcuno le offriva qualcosa. Dormiva quelle poche ore sufficienti a farla rimanere in piedi durante il giorno, soprattutto in letti o divani di persone che nemmeno conosceva. Sorrideva, come spasmo involontario dei suoi muscoli facciali. Non era vita.

Si fece spazio fra la gente, grazie alla sua figura sottile e slanciata, e si ritrovò in prima fila, davanti a lui che ancora la cullava dolcemente con la sua voce. Chiuse gli occhi. Si sentiva svuotata, come se, dentro di lei, non ci fosse rimasto niente se non pace. Non c’era più paura, non c’era più la stanchezza di una vita vissuta nel modo sbagliato, non c’era più l’astinenza dalla droga, il male fisico (i polpacci che cominciavano a tremarle, le braccia senza forza, i denti che digrignavano fra loro e che mordevano forte le pareti molli della bocca, le unghie conficcate nei palmi delle mani), era come se non ci fosse più nemmeno lei, come se, finalmente, fosse riuscita ad annullarsi. Sorrise e aprì gli occhi, trovandosi quelli del cantante a pochi centimetri di distanza: erano grandi, di un blu intenso che sembrava infinito, e l’avevano ferita. Sentì le gambe vacillare e svenne, cadendo a terra senza farsi male. E poi fu tutto nero.

 

 

Jared, le spalle rigide e gli occhi dilatati per lo spavento, se ne stava inginocchiato lì vicino. Non troppo vicino per paura di rubarle l’aria, ma abbastanza vicino da notare che, sebbene il suo petto si alzasse e si abbassasse ad un ritmo abbastanza regolare, gli occhi non le si aprivano, le mani non si muovevano. Era immobile di fronte a lui, e sembrava quasi morta. Era pallida, in parte per il brusco svenimento da cui ancora non si era svegliata, in parte per la pelle chiarissima, del colore della luna. Aveva le ciglia lunghe, che, con gli occhi chiusi, le sfioravano gli zigomi ossuti e pronunciati. Era magra, forse fin troppo, tanto che da così distesa le costole sembravano volerle perforare la pelle e la maglietta tutto in una sola volta. Le labbra, leggermente dischiuse, erano di un rosso scuro, sebbene non ci fosse traccia di rossetto. Non era truccata, nessuna traccia di mascara, ombretto, fard o fondotinta. Nessuna maschera. Le unghie, appena accennate, erano insanguinate, come anche i palmi delle mani, sui quali piccole mezzelune bianche risplendevano sotto le luci a neon della stanza bianca e anonima dove l’avevano portata. I capelli biondo scuro le incorniciavano il volto, e subito lui si mise a pensare alle rappresentazioni delle dee greche nei libri di miti che mamma gli regalava sempre quand’era piccolo.

Perché non si svegliava? Ricordava di averla guardata negli occhi e di aver sentito una morsa allo stomaco: erano tristi, persi in un vuoto che sembrava non finire mai, immensi, impauriti, freddi. C’era qualcosa che non andava nei suoi occhi, erano morti, e lei era troppo bella. Si era illuminata poi, quando i loro sguardi si erano incontrati. Anche lei lo trovava bello, lo sapeva bene. Poi l’aveva vista crollare, davanti a sé, fino a non vedere più niente se non un uomo nerboruto che la trascinava via, fuori dalla folla che incurante aveva continuato a stringersi attorno a lei. Finì la canzone e scappò dal palco di corsa, sotto gli sguardi confusi dei suoi compagni. Non aveva voglia di dare delle spiegazioni, voleva solo ritrovarla. Chiese in giro, e lo indirizzarono in una stanzetta in cui lei era adagiata su un tappeto, un bicchiere di acqua affianco, e un uomo che le metteva una pezza di stoffa sulla fronte. Si inginocchiò affianco a lei e aspettò.

«Perché non ti svegli?», sussurrò dopo un po’, in preda all’ansia. Doveva rivedere quegli occhi, doveva porre loro delle domande, doveva capire. Le sfiorò le vene del braccio, di un colore scuro che bene conosceva, e sentì di nuovo quella morsa allo stomaco. Da quanto tempo si drogava? Avrebbe voluto saperlo. Perché lo faceva? Che cosa era successo nella sua vita di tanto tragico da farla rifugiare in quello schifo? Perché voleva uccidersi? Aveva bisogno di risposte. «Svegliati, ti prego», disse in un sospiro, il naso appoggiato sul suo polso. Aveva un buon profumo, pesca forse.

«Non è per la droga, sai? Non mangio da due giorni buoni, è per quello che sono svenuta». Jared alzò la testa bruscamente e vide i suoi occhi aperti in due fessure, una smorfia appena accennata. «Sono una stupida».

«Hai fame?», chiese lui. Lei annuì, mordendosi le labbra imbarazzata. Jared le sorrise. «Aspetta qui».

Quando fece per alzarsi e andare a cercare qualcosa di commestibile da portarle, lei lo fermò prendendogli il braccio debolmente, ancora sfinita dopo lo svenimento.  «Non c'è solo da prendere, bisogna anche dare». Jared la guardò confusa, e lei sorrise. «La canzone che stavi cantando prima». Lui scosse la testa: non capiva. «Credo sia arrivato il momento per me di dare qualcosa», disse, alzandosi cautamente a sedere. Jared le si avvicinò con l’intento di aiutarla, ma lei lo allontanò e si alzò in piedi. «Dopo che mi avrai dato quel cibo, perché ne ho davvero bisogno, sparirò, perché non puoi diventare anche tu qualcuno a cui strappo via le cose e da cui poi scappo, perché adesso l’ho capito, che devo uscire da questa merda. Sto diventato tutto quello che non ho mai voluto essere, che ho sempre disprezzato perché mi faceva male. Ha finito per farmi così male da sovrastarmi, vincermi, dominarmi».

«Non so di cosa tu stia parlando», sospirò Jared, stropicciandosi gli occhi. Voleva risposte e aveva ottenuto solo altre mille domande. «Non so nemmeno come ti chiami».

«Non ha importanza come mi chiamo», sorrise lei avvicinandosi a lui. Posò le mani sul suo petto e si alzò sulle punte per lasciargli un bacio sulla guancia liscia. Lui la guardò, e le sembrò che da quella prospettiva sembrasse ancora più bella. Non ebbe il coraggio di toccarla in nessun modo, e lei si allontanò.

«Io mi chiamo Jared», sussurrò lui, la voce roca.

«Jared. È un bel nome», sorrise lei. Puntò poi un dito sulla sua giacca, sfiorando appena la freccia rossa applicata sulla sua spalla. «Che cosa significa?», chiese, la testa inclinata di lato, la curiosità negli occhi.

«Provehito in altum, punta in alto, sempre».

«Punta in alto», ripeté lei, muovendo appena le labbra. Poi gli lanciò un’occhiata. «Grazie Jared». Lo sorpassò e varcò la soglia della porta sparendo dalla visuale di Jared, che, dopo alcuni attimi in cui non poté far altro che rimanere immobile, corse fuori dalla porta e la fermò. «Non ti ho ancora portato quel cibo che ti ho promesso».

«Torno a casa, Jared. Va tutto bene ora».

Lo disse con una tale serietà da far tremare le mani di lui, che in ogni caso, si limitò ad annuire. «Buon viaggio, allora». Lei gli sorrise, e se ne andò.

Non sapeva il suo nome, non sapeva dov’era casa, chi era casa, non sapeva se avrebbe smesso di drogarsi, o se non le importava, non sapeva come interpretare il suo discorso, non sapeva più niente, se non che avrebbe cercato quegli occhi ancora, ancora e ancora, perché li vedeva ancora, dietro alle sue palpebre chiuse, scuri e malati, tristi e impauriti.

___________

Primo: ho ipotizzato che Stay fosse una canzone dei Mars composta nell’era del primo album. So bene che non avrebbero mai potuto comporre qualcosa di simile, visto lo stile molto diverso che avevano, ma non importa, avevo solo bisogno delle parole della canzone perché sono state loro ad ispirare la storia. 
Secondo: il Jared che mi sono immaginato è quello del 2002, all’incirca. Insomma, siamo nel periodo Old School quando ancora c’era Matt, per intenderci. In quel periodo, se non sbaglio, lui stava insieme a Cameron Diaz, ma ovviamente non nella mia storia. 
Terzo: storia nata durante una delle tante notti passate a contemplare il buio della mia cameretta. Dovrebbe essere composta da pochi capitoli, anche se non so ancora quanti. Spero di riuscire a postarli in fretta, avendo del tempo durante la vacanze natalizie.
E niente, fatemi sapere se avete apprezzato. Un bacino sul naso, Deb.

  
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