«Non
è mai, mai, MAI successa una cosa del
genere qui, MAI.»
Mia
sorella mi fissa come se mi fosse appena spuntato un corno tra le sopracciglia.
Beh,
se proprio dovessi scegliere un’appendice da farmi crescere, preferirei
somigliare a una renna piuttosto che a un rinoceronte, ma comunque...
«Mai,
mai... io non capisco, mai...»
Alzo
gli occhi al cielo, mentre mi tolgo la canottiera grondante d’acqua e la
ripongo nel cesto dei panni sporchi. Shannon non la finisce di borbottare
imprecazioni contro il cielo, ficcandoci cinque o sei “mai” per sicurezza.
«Io
te lo dico che porto sfiga, tu non mi credi.» Ridacchio, tamponandomi i capelli
con un asciugamano. Kylie, mia nipote, sta togliendo la tovaglia zuppa dal
cestino del picnic.
«Nemmeno
una portatrice sana di sventura come te potrebbe causare un acquazzone il ventitré
dicembre. In Australia. AUSTRALIA. Noi siamo come il Brasile, capisci? Qui non piove. È tassativo. È un must. Non capita-»
«Fammi
indovinare, mai?» Sorrido,
starnutendo subito dopo. Evviva! Il mio primo raffreddore australiano! Speravo
in effetti che un mese qui mi facesse dimenticare cose come fazzoletti per il
naso o spray alle erbe, ma evidentemente mi sbagliavo. L’Australia ha deciso di
accogliermi facendomi sentire a casa.
«D’accordo,
vorrà dire che gusteremo i miei tramezzini super squisiti al chiuso, mentre
fuori piovono goccioloni grandi quanto la mia testa e mia figlia sogna il mare
col moccio appeso. Che tristezza.»
«Oh,
santo cielo, Shan! È una pioggia ridicola, Kylie al
mare ci VIVE e i tuoi tramezzini saranno ancora più buoni senza essere conditi
con la sabbia. D’accordo?» Mia sorella è sempre stata la melodrammatica della
situazione. Fortunatamente non l’ha trasmesso a Kylie, che sgambetta per la
cucina portando sabbia bagnata ovunque. Ha finito di svuotare i cestini ma ora
sta assumendo un’espressione a dir poco sgomenta. Vedo i suoi occhi spalancarsi
e la boccuccia schiudersi, e prima che possa portarmi le mani alle orecchie sta
già gridando come un’ossessa.
«La
mia bambola nuova! La mia bambola!» Ora sta girando intorno al tavolo
sollevando tutti gli oggetti per trovare la sua Barbie-Surfista-Onde-del-Mare.
Come se si potesse surfare su un fiume. «Maammaaa! La mia BAMBOLA!»
La
sirena – come la chiamo io – ormai è
attivata e Shannon, già sull’orlo di una crisi di nervi, cerca di tappare la
bocca a sua figlia, ma riesce a malapena a tenerla ferma tra le braccia. Kylie
strepita allungandosi verso la porta, le fauci spalancate e l’ugola in pieno gorgheggio
da soprano. Se fosse per lei, correrebbe a piedi fino alla spiaggia anche in mezzo
a un ciclone per recuperare la sua amata surfista di plastica.
«La
andiamo a prendere quando smette di piovere, okay? Nessuno la porterà via,
tranquilla! Al massimo le si rovineranno i capelli, ma se vuoi la mamma la fa
tornare come prima con un po’ di olio di argan, va
bene? Sì?» Shannon guarda speranzosa la piccola Kylie, ma lei interrompe l’urlo
di Tarzan solo per riprendere fiato.
Prima
che mia sorella decida di chiuderla nel ripostiglio o ficcarle un tramezzino
nella gola, prendo una t-shirt e mi avvicino a mia nipote.
«Aspetta
senza piangere, d’accordo? Ti prometto che tornerò appena possibile con la tua
bambola.» Infilo la maglia al volo e le do un bacio sulla fronte, prima di
correre in auto.
La
casa di mia sorella si trova praticamente sul mare, ma per festeggiare il mio
arrivo avevamo deciso di pranzare in una baia poco frequentata a una trentina
di chilometri da Launceston, con un’acqua da urlo. L’unica acqua “da urlo” che abbiamo
visto è stata, ahimè, quella della pioggia. E l’urlo, ovviamente, quello di mia
nipote.
«Vero
che abito a Londra e ci sono abituata, ma effettivamente sembra di stare in una
foresta pluviale qui...» Borbotto tra me mentre scendo dall’auto e mi dirigo in
spiaggia. Come metto piede nella sabbia, la pioggia si fa un tantino più
leggera, lontanamente simile a quella a cui sono avvezza da anni nella mia
bella metropoli britannica.
Mi
riparo il viso con un braccio e proseguo cercando di ritrovare il luogo in cui
ci eravamo posizionate per il nostro picnic. Avanzo oltre alcuni cespugli,
ricordando di averli superati, e quel che vedo non è quello che mi aspettavo di
trovare.
C’è
un uomo, in piedi sul bagnasciuga, rivolto verso il mare. Ha le mani in tasca,
e il capo leggermente reclinato all’indietro, come a voler porgere tutto il
viso alla pioggia. A giudicare da quanto è bagnato, deve stare in quella
posizione da un bel po’.
Mi
avvicino, titubante, senza sapere cosa fare. Avrà bisogno d’aiuto? Non sembra.
Di un ombrello? Nemmeno. Eppure, qualcosa mi spinge ad avanzare ancora…
«Mi
scusi, si sente bene?» Esclamo, a pochi passi da lui.
L’uomo
si volta, schermandosi il viso con la mano per guardarmi meglio.
«Cosa?»
Accidenti,
e se fosse un serial killer? L’ho disturbato nel suo momento catartico e ora mi
ammazzerà a sangue freddo! La prudenza non è mai troppa, diciamocelo…
Indietreggio
appena e tutti i buoni propositi da crocerossina svaniscono nel momento in cui
lui mi presta seriamente attenzione.
«Ehm,
ho visto che era da solo, sembrava triste, io... credevo avesse bisogno d’aiuto.
Mi dispiace averla disturbata.» Mentre parlo, porto le braccia al petto e la
pioggia batte libera sul mio viso, impedendomi di vedere bene.
L’uomo
mi si avvicina ancora, sembra stia sorridendo.
Quando
è a poco più di tre passi da me, lo riconosco. Un sorriso che difficilmente
potrei non riconoscere, io come la metà della popolazione femminile del
pianeta.
«Oh.
Tu sei... lei è... oh. Salve.» Capacità espressiva davvero eccellente per una
giornalista. Laureata con trecento e lode, vero?
«Salve.»
Simon Baker continua a sorridermi, i capelli fradici gli incorniciano il viso,
tanti ricciolini ribelli in contrasto con l’azzurro spaventoso dei suoi occhi.
«Perché
sorridi?» Gli chiedo, senza pensare.
«E
tu perché non lo fai?» Risponde semplicemente lui. Questa domanda mi fa
automaticamente curvare le labbra in un sorriso meravigliato.
«D’accordo.»
Scuoto la testa, incredula. «Hai bisogno d’aiuto?» In definitiva posso dire che
il mio cervello ha deciso di chiudere le connessioni e i risultati si vedono.
Simon
guarda la sua camicia sgualcita, completamente attaccata alla pelle del petto e
del torace, poi guarda il cielo, che si sta rasserenando.
«No,
e tu?»
La
situazione è talmente surreale che vorrei premere il tasto pausa e scoppiare in
una risata isterica.
Mi
passo una mano tra i capelli, mentre Simon Baker aspetta una risposta. Da me.
Su una spiaggia deserta. Bagnati fradici.
«Io... beh, in realtà sì.»
Simon
non distoglie lo sguardo dal mio. Allarga appena le braccia e sorride ancora.
«Sono qui.»
Ridacchio,
annuendo. «Sì, lo vedo.» Inizio a guardarmi intorno per cercare di orientarmi.
L’incontro con colui che mi sta di fronte mi ha scombussolata del tutto, e ora
inizio anche a sentire freddo.
«Dal
tuo sguardo deduco che tu abbia... perso qualcosa?»
Lo
guardo sorpresa: ha davvero intenzione di aiutarmi?
Annuisco
lentamente. «Esatto. Ehi, sei un po’ mentalista anche nella vita reale allora.»
Lo prendo in giro per la sua brillante deduzione.
Rieccolo
di nuovo, il sorriso per cui dovrebbe essere ammanettato e spedito in galera
seduta stante. O ammanettato e basta, magari...
No.
Kat, basta.
«Non
ci voleva una laurea per interpretare i suoi segnali, milady. A meno che lei
non si stia guardando intorno per cercare aiuto, il che farebbe di me un uomo
terribile.»
La
sua faccia esageratamente accigliata mi rende impossibile non ridere. Quando
vede che non rispondo, si fa serio e mi scruta attento. «Non stai pensando cose
terribili su di me, vero?» Scuoto la testa, continuando a ridere. «È vero che
sono poco presentabile e molto più affascinante in uno smoking che in una... camicia stropicciata, ma...» Lascia cadere la frase e io mi accingo a rispondere.
«No,
no. Ridevo per il tuo accento. Caspita, a volte faccio fatica a capirvi, voi
australiani... eppure sono londinese, che diamine. Ma tu, proprio... hai una voce totalmente diversa dalla tv! Santo
cielo, scusa, ora la smetto di ridere.» Mi passo una mano sulla bocca e torno
seria, come farebbe un mimo.
«Se
preferisci, posso parlare così.» Occcielo, sta parlando con l’accento
americano. Con quel dannatissimo mezzo sorriso e l’occhio ammiccante e sto
certamente per morire tra meno di un minuto.
Apro
la bocca per rispondere – o, magari, far sgorgare il fiume di bava che si sta
accumulando – quando improvvisamente, la pioggia cessa.
Alziamo
entrambi il viso e vediamo il banco di nuvole natalizio diradarsi, per fare
spazio a qualche raggio di sole.
«Etciùùù!»
E
certo, Katherine, starnutisci pure in faccia all’uomo più sexy del pianeta.
«Scusa.»
Dico, strizzando gli occhi per alleviare l’orribile sensazione di secondo
starnuto in arrivo.
«Oh.
Accidenti.» Simon si tasta la camicia e scuote la testa. «Vorrei avere qualcosa
da metterti addosso.»
«Dod
fa diedte, sto bede.» Altro starnuto, ora mi sento quasi meglio. «Spero di dod
mischiarti.» Provo ad allontanarlo, ma quando la mia mano tocca il suo petto la
paura di un contagio si attenua vertiginosamente. Che buon odore che ha.
«Mischiarmi?
Ti sei presa un raffreddore per stare qui a parlare con me.»
Tiro
su col naso – da vera signora – e rifletto sulle sue parole. «Non è
propriamente vero, ma se la metti così, allora... potresti aiutarmi a cercare una
bambola.»
L’espressione
di Simon è a dir poco impagabile.
«Okay,
non guardarmi come se fossi scema, d’accordo? È la bambola di mia nipote. L’ha
persa prima del diluvio australiano di benvenuto e sono tornata a cercarla.»
Simon
sbatte le palpebre e preme le labbra trattenendo a stento un sorriso.
«Non
osare ridere, piuttosto dammi una mano a setacciare la spiaggia!» Esclamo e gli
afferro un polso trascinandolo verso sinistra. No, mi sembra che stavamo a
destra. Sì, meglio a destra. O forse era a sinistra sul serio?
«Probabilmente
sarebbe meglio dividerci...» Dico, pentendomene all’istante. Per tutti i capelli
di Odino! Ma come ti salta in mente, Katherine?! Come?!
Simon
si stringe nelle spalle. «Certo, come vuoi. Dimmi com’è questa bambola. Spero
non sia di porcellana, perché mi fanno una discreta paura.»
Mi
mordo l’interno della guancia mentre mi torturo le dita dietro la schiena.
«Ehm, veramente non intendevo dire che dovremmo dividerci.» Arriccio il naso.
Ora mi prende per una decerebrata. «Nel senso che mi farebbe piacere cercarla,
ecco, insomma… insieme. Però potremmo metterci più tempo.» Simon, batti un
colpo se hai capito qualcosa di quello che ho detto. Sembro un’abitante
dell’Uzbekistan che cerca di parlare inglese. Accidenti, cervello! Ho capito
che è difficile resistere a tanto fascino e al contempo sembrare vagamente
intelligente, ma almeno provaci!
«Io
non ho nulla da fare.» Dice Simon, accompagnando la frase con un occhiolino.
Katherine,
hai trentun anni suonati. Non puoi svenire per queste cose.
Credo
di essere arrossita a tal punto che i miei vestiti si saranno praticamente
asciugati per evaporazione.
«Oh.»
Non sono capace di dire altro e faccio un passo in avanti, verso il mare.
«Prima
però dimmi almeno come ti chiami. Sai, non vado in giro con le sconosciute.»
Altro sorriso sghembo, altro piccolo infarto al miocardio.
«Mi
chiamo Katherine, ma puoi chiamarmi Kat.»
«Io
mi chiamo Simon. Credo che tu possa chiamarmi soltanto Simon.»
«Me
lo farò bastare.» Stavolta sono io a fare l’occhiolino, sperando di non
sembrare una spastica in preda a un tic facciale.
Ci
incamminiamo verso un’insenatura familiare, dove sono sicura di essere passata
stamattina. Lo so, ho la memoria di una caffettiera. È che ero impegnata a
guardare il mare. D’accordo, ero impegnata a guardare un surfista che
somigliava tantissimo a Stephen Amell.
«Dunque,
sei inglese.» Mi domanda, anche se non è esattamente una domanda, e io annuisco
lo stesso. Ho il cervello talmente in pappa che potrebbe chiedermi l’alfabeto e
io glielo reciterei solennemente. Ma non giurerei di ricordare tutte le lettere
nell’ordine giusto, ve lo dico.
«Già.
Vivo a Fulham da… tutta la vita. Però sono nata qui.» Sgancio la bomba,
aspettando una reazione che non tarda ad arrivare.
«Sei
australiana? E hai rinnegato il tuo paese per Londra?!» Pronuncia la mia città
sgranando gli occhi e curvando le sopracciglia fino a formare una V rovesciata.
Ha portato una mano al viso e se lo sta lentamente tirando verso il basso. È
esilarante.
«Già,
mio caro. Non hai fatto lo stesso tu per... cosa, Santa Monica?» Anch’io alzo un
sopracciglio e lui mi scruta attentamente.
«Beh,
vuoi mettere Santa Monica e Londra? Il risultato si vede. Baciato dal sole,
pallida come Voldemort.» Indica entrambi mentre ci menziona e io gli tiro uno
spintone.
«Ma
per favore!»
Simon
ride e mi affianca di nuovo assicurandomi che non mi sia offesa.
«Certo
che non mi sono offesa. Il bianco mi dona.» Mi accarezzo il viso con due dita in
modo teatrale, sollevando il mento per lasciarmi ammirare in tutto il mio
splendore. Scoppiamo a ridere insieme.
«Beh,
su questo hai ragione.» Il mio cuore che stava ballando un tango adesso ha
fatto un casqué e dev’essere precipitato al suolo. «Comunque, io non ho
rinnegato il mio Paese. Sono di nuovo qui, finalmente. E ci resterò per un po’.»
Rifletto sulle sue parole e su quello che possono significare.
«Ti
prendi una pausa da Hollywood?» Che peccato. Non guastava vederlo sul grande
schermo ogni tanto. Ora che The Mentalist
è finito, saremo costrette a guardare le repliche fino allo sfinimento.
«Già.»
Annuisce lentamente. «Credo sia giusto ritrovare un po’ di tempo per me,
adesso.»
Aggrotto
la fronte. Dovrei sapere di cosa sta parlando, vero?
Oh,
cielo. Forse della rottura con Rebecca. Ma quella risale a due anni fa… la mia mente fa due calcoli veloci e poi rispondo.
«Hai
dovuto aspettare che finisse lo show.» Commento, e lui annuisce. «Mi sembra
cosa buona e giusta. Abbiamo dovuto sudare sette camicie e otto cappotti per
far mettere insieme Jane e Lisbon! Non ho mai seguito una serie così... sfibrante!»
Esprimo tutta la mia frustrazione di fan gesticolando mentre parlo, cosa che lo
fa ridere parecchio.
«Questa
è la mia più grande soddisfazione.» Ammette, smagliante. Lo guardo
interrogativa, così lui si spiega. «Il fatto che tu e tanti altri
telespettatori abbiate continuato a guardare la serie per otto stagioni senza
un accenno di storia d’amore, significa che sono troppo bravo a tenervi incollati allo schermo.» Eccolo che gonfia
il petto e marcia col portamento di un palo della luce.
«Ti
mancano solo le piume e il collo blu, pavone!» Lo prendo in giro, alzando gli
occhi al cielo. «E comunque sei credibile quanto Rocky in gonnella, così
spavaldo. Timidone.» Gli do di gomito e lui, in effetti, mostra quello sguardo
timido che ho visto in qualche intervista.
«Touchè.»
Alza le mani, in segno di resa. «È Patrick Jane che mi ha reso un po’ più
sicuro di me. Solo un po’.» Mostra il “po’” tra pollice e indice e io lo ignoro
completamente.
«Certo.
Povero strepitoso uomo biondo che trasuda fascino da ogni cellula, è così ovvio che tu non possa permetterti uno
straccio di autostima.» Dico, portandomi la mano al petto, affranta.
Simon
non fa in tempo a rispondere, perché io inciampo in qualcosa. Anzi, ci finisco
col piede sopra e urlo dal dolore.
«MA
POR- oooh!» Prima di esibire il mio sobrio
vocabolario davanti a chi non dovrebbe proprio conoscerne l’esistenza, ho il
buon senso di guardare giù e vedere che non è stato un riccio marino a
infilarsi nella pianta del piede. No, è stata la mano infame della Barbie di
Kylie.
Sono
sicura che a tutte noi piccole e innocenti bambine sia capitato di giocare con
le Barbie. Magari sul pavimento di casa, magari a piedi nudi. E magari di
calpestarle accidentalmente. MA COS’HANNO AL POSTO DELLE BRACCIA, GLI ARTIGLI DI WOLVERINE?!
Fine
dello sfogo sul trauma infantile.
«Infima
donnaccia ossigenata.» Sibilo, tirandola fuori dalla sabbia bagnata. Ormai è
diventata una Barbie del Biafra, ma con un bel bagno e un po’ di sapone
dovrebbe tornar come nuova.
«Oh,
e così è lei la signorina in questione.» Simon incrocia le mani dietro la
schiena e si china in avanti come se stesse per fare le presentazioni con una
bambola vera. Il gesto gli tira la camicia sul petto e non posso fare a meno di
fissarlo imbambolata – appunto – per qualche istante.
«Già,
è proprio lei. Si scusa per l’aspetto un po’ grottesco, ma dice che la sabbia
ha potenti proprietà esfolianti.»
«Mi
sembra giusto. Avessero insegnato a me, questo trucchetto, magari avrei meno
rughe oggi.» Si indica le magnifiche rughe d’espressione che gli vengono quando
ride e davvero non so se tirargli in testa la bambola o affogarlo nel Pacifico.
«Ehi.
Non ci provare con la Barbie di mia nipote, sai. Anche se ti piacerebbe. È una
surfista.» Dichiaro, e lui fischia colpito. «A proposito! La tavola da surf!»
Rivolgo lo sguardo al piccolo cumulo di sabbia sorto dopo il dissotterramento
della bambola, e mi abbasso sui talloni per cercare il suo dannato accessorio. Non
posso riportarla incompleta, per il bene dei nostri poveri timpani.
«Aspetta,
ti aiuto.» Conficco la surfista nella sabbia e con quattro mani, iniziamo a
scavare per cercare la tavola da surf.
«Eccola!»
Esclamo trionfante. Tiro fuori quel che ho afferrato ed è… la mano di Simon.
«Ops.»
Sussurra lui, agitando un dito nella mia mano in segno di saluto. Ridiamo, io
imbarazzata fino al collo e lui anche, o almeno così sembra.
«Trovata.»
Stavolta è lui a dirlo e a recuperare la cosa giusta. Anche la tavola, come la
sua proprietaria, è un po’ marrone, ma Simon la pulisce come meglio può e torna
ad essere guardabile. «Veramente bella. Mi manca, di questo colore.» Dice,
commentando il rosa acceso tipico delle Barbie col quale è dipinta la tavola.
«Certo,
fatti fare anche una muta in tinta e vedrai che avrai tutta l’attenzione della
spiaggia e dintorni.»
«Sarei
carino?» Domanda, sbattendo le ciglia e attorcigliandosi un ricciolo attorno al
dito.
Fingo
di avere un attacco di vomito e lui replica con un «Ehi!», tirandomi all’indietro
fino a farmi cadere sulla sabbia umida.
Spalanco
la bocca e sibilo, con aria di sfida: «Ora ti sporchi anche tu, signor
surfista!»
Lo
afferro per le spalle e cerco con tutte le mie forze di farlo cadere, ma come
potrete immaginare la mia forza è, tipo, un decimo della sua. Che speranze ho,
da uno a dieci? Esatto.
«Eddai,
fai finta almeno! Mi sta venendo il colpo della strega!» Strepito, mentre cerco
di buttarlo giù tra le risate.
«D’accordo.»
Acconsente lui, e prima che possa dosare la mia forza mi ritrovo a cadere
nuovamente. Su di lui, stavolta. Sposto le mani sporche di sabbia dal suo petto
a terra, accanto ai suoi capelli. Sì, avete capito bene cosa ho intenzione di
fare.
Anche
lui intercetta il mio sguardo assassino e scuote la testa. «Non farlo, Kat. Te
ne pentirai. Non farlo.»
Mentre
parla, prendo una manciata di sabbia e sto per versarla sulla sua chioma bionda
quando, abilmente, capovolge la situazione – mooolto abilmente, wow! – e mi precede, ricoprendomi di sabbia. Ogni.
Singolo. Capello.
«Maledetto!»
Dopo una breve lotta nella quale schizza sabbia ovunque – e non chiedetemi come faccia la sabbia a schizzare. Forse
è un nuovo super potere acquisito dal connubio con la pioggia – riesco a
vendicarmi e a ficcargli la sabbia non solo nei capelli ma anche nella camicia,
scappando via prima che possa rialzarsi.
A
una quindicina di passi da lui, lo vedo sollevarsi lentamente e guardarmi con
aria di sfida. «Perché vuoi morire?»
Inizio
automaticamente a ridere. «Non voglio morire, no, affatto. Devi aver frainteso.
Ora, per favore, vieni avanti lentamente e con le mani in alto. Anzi, già che
ci sei, recupera la mia bambola, l’ho lasciata lì.» La indico innocentemente e
lui sembra soppesare la cosa. La prende, insieme alla tavola da surf, e avanza
verso di me a passi lenti e misurati.
«E
perché dovrei risparmiarti?»
Se
voi poteste solo immaginare che spettacolo è tutto sporco di sabbia, con quello
sguardo malizioso e quel mezzo ghigno beffardo, vi meravigliereste della mia
lucidità. Davvero.
«Beh,
perché… sono dolce. E amo i caldi abbracci. Come Olaf!» Sorrido a centosettanta
denti, allargando le braccia a confermare la cosa. Inaspettatamente, Simon
annuisce e accetta di mettere da parte i cattivi propositi.
«Okay,
ti perdono solo perché ho adorato quel cartone.» Mi intima, con un dito puntato
contro il mio viso. «Ma non posso prometterti un caldo abbraccio al momento. Solo
ruvido e bagnato, a quanto pare, grazie al tuo attentato.» Conclude, premendo
il dito sul mio naso. Poi, apre le braccia anche lui e aspetta una mia
reazione. Che non arriva, perché sono leggermente sotto shock e sto metabolizzando
la cosa. «Avanti, non sarà un caldo abbraccio ma è pur sempre un abbraccio. E gli
abbracci rilasciano ossitocina!»
È
talmente tenero che, nonostante lo shock, mi scopro ad avvicinarmi e ad
abbandonarmi tra le sue braccia, come se lo conoscessi da anni.
«Dobbiamo
fare qualcosa per il tuo raffreddore.» Esordisce, ancora stretto a me,
sentendomi tirare su col naso. No, giuro che non sto piangendo dalla gioia. «Ti
va una cioccolata calda? Non fa ancora così caldo come dovrebbe.»
Mio
malgrado, mi allontano leggermente da lui e rispondo: «A dire il vero, dato che
vivo a Londra, sono venuta qui con un solo proposito: mangiare un gelato
GIGANTE.»
Il
suo sorriso mi fa sciogliere completamente. «Beh, Kat, sei una ragazza
fortunata.»
«Non
diresti che dovremmo cambiarci?» Sto dicendo, qualche minuto dopo, mentre
torniamo verso l’auto di mia sorella, dove è posteggiata anche la sua
bicicletta.
Simon
non mi risparmia uno sguardo attento e meticoloso, facendomi avvampare di
nuovo, per poi decretare che no, non dovremmo cambiarci.
«Mia
sorella mi ammazzerà se scopre che sono entrata nella sua auto così.» Mormoro,
mentre lui carica la bicicletta nel bagagliaio.
«Avanti,
le donne non ci tengono così tanto come gli uomini.» Replica lui, scoccandomi
un’occhiata divertita mentre prende posto sul sedile del passeggero.
«Hai
ragione.» Ammetto, nascondendo come meglio posso due buste di patatine vuote.
Guido
fino a casa, fermandomi a lasciare la bambola sotto la porta. Su suggerimento
di Simon, busso e scappo via, sgommando a tutta velocità mentre ridiamo come
matti. Subito dopo mando un messaggio a mia sorella dicendo che sono andata a
prendere un gelato col mio Indiana Jones personale, e che non deve preoccuparsi
se rientro tardi.
Sempre
su suggerimento di Simon.
Il
che, care signore, mi fa tremare dall’emozione proprio come state facendo voi
in questo momento.
Simon
mi indica la strada fino a farmi parcheggiare di fronte a Chubby Cheeks, una
gelateria poco lontana dalla spiaggia e fortunatamente poco frequentata. Scendiamo
come due disastrati, specchiandoci nei vetri dell’auto per darci una sistemata
ma abbandonando l’idea subito dopo. Simon mi accompagna con una mano sulla
schiena, leggera e quasi impercettibile, ma che mi fa rabbrividire. Ovviamente è
anche colpa della canottiera bagnata. È questo che mi ripeto prima di entrare
per non arrossire fino al midollo.
«Hey,
Liam, vecchia volpe!» Simon saluta quello che credo sia il proprietario con una
stretta di mano e una pacca sulla spalla. Roba da uomini.
«Smiley!
Che piacere rivederti!» Non posso fare a meno di sorridere sentendo come lo ha chiamato
Liam. Smiley. Questo dice tutto di
lui. «Qual buon vento?»
«La
signorina qui non ha mai assaggiato uno dei tuoi gelati. Dovevo rimediare, per
forza, ti pare?» Spiega, come se la questione fosse di vitale importanza. Liam
rivolge il suo sguardo a me e ammicca sornione.
«Lo
puoi dire forte, Smiley. Signorina, lei è fortunata. Sono in pochi a
condividere questi piaceri della vita.» Mi dice, Liam, correndo dietro il
bancone per prepararmi un cono gigante. Simon mi fa avvicinare al vetro e mi
invita a scegliere tre gusti. Ho l’acquolina in bocca. Oltre a tutta la bava
accumulata.
ATTENZIONE:
PERICOLO TSUNAMI. PERICOLO.
«Oddio,
guarda quanti ce ne sono!» Ho l’imbarazzo della scelta. Intanto che prendo la
grande decisione, Simon sceglie i suoi, o meglio, il suo: triplo cioccolato. Santo
cielo!
«Ci
vai giù pesante!» Commento, sbalordita.
«Sono
un tipo zuccheroso.» Sorride sghembo lui, ricevendo un altro spintone dalla
sottoscritta.
«Io
prendo liquirizia, menta e... anice.» Scelta azzardata, forse, ma questi gusti
non li troverei mai a Londra!
Simon
fa una faccia compiaciuta. «Ma allora sei un tipo raffinato... e chi l’avrebbe
mai detto.»
Rivolgo
un’occhiata disperata a Liam, che ci fissa sorridente. «Gli piace troppo
prendermi in giro, si nota?»
«Giusto
un po’. Ecco a lei.» Per concludere il tutto lo ha ricoperto di Smarties e
panna su un lato. Io questo tizio lo amo.
Usciamo
dalla gelateria e, gustando i nostri coni, ci dirigiamo verso una panchina sul
lungomare. Potrei dirvi che sto per svenire dal piacere, tanto è squisito
questo gelato.
«Ti
piace?» Simon sorride e sembra davvero attendere la risposta con apprensione, come
se potesse non piacermi!
«Mi
piace?! Io quell’uomo lo sposo!» Commento, in preda all’estasi. Questa liquirizia
è... è... indescrivibile.
«Cosa?!
È questo il ringraziamento per averti portato a mangiare il gelato più buono
della tua vita?» Simon scuote la testa, facendo cadere qualche granello di
sabbia.
«Certo
che no. Ecco il mio ringraziamento.» Affondo le labbra nel gelato e poi gli
stampo un bacio sulla guancia, premendo forte per assicurarmi che gli si appiccichi
tutto sulla barba incolta di qualche giorno.
Lo
so, sono impazzita.
Ma
lui lo è almeno quanto me, perché mi prende il viso e lo strofina contro il
suo, mentre tra un gridolino e una risata lo imploro di lasciarmi.
«Ben
ti sta, pasticciona ingrata.» Mi fa la linguaccia come un bambino e torna a
leccare il suo gelato. Guardo i suoi capelli arruffati, la macchia tra il verde
e il marroncino sulla guancia, le labbra sporche di cioccolato. È bellissimo.
«Posso
assaggiare il tuo?» Gli domando piano.
Lui
annuisce, e io mi protendo verso di lui. Quando mi avvicino, lui sposta
leggermente il cono, mettendomi davanti il suo sorriso appena accennato. Lo guardo
negli occhi, cercando una conferma, che lui mi dà portando la mano libera sul
mio viso e attirandomi a sé.
Ed
è così che mi bacia Simon Baker. Con una camicia stropicciata, i capelli
sporchi di sabbia e un sorriso che non andrà più via dalle mie labbra.
~
Note
Non
so cosa sia. Cioè, ovvio, è una One Shot su Simon Baker.
Senza
capo né coda, probabilmente, ma l’ho amata dal primo momento in cui ho visto questa gif e ho capito che dovevo
scrivere di un Simon in riva al mare con un’espressione triste.
Io
spero davvero che vi sia piaciuta, in qualche modo.
È
stato un piacere e un onore scrivere di quella meraviglia che è Simon. Mi dispiace
di averlo fatto rompere con Rebecca, naturalmente non vorrei che accadesse (anche
se, se proprio dovesse succedere... insomma, sarei disponibile).
Smiley è il suo vero soprannome, e
credo gli si addica perfettamente. Il suo sorriso dovrebbe essere bandito. Vero?
Passiamo
alle cose importanti: questa storia, come leggete dal titolo, fa parte del
progetto “Daydreamers’ Carol”,
ovvero una sorta di contest indetto sul mio gruppo Facebook (del quale, se
volete, potete fare parte chiedendo l’amicizia qui) che riguarda un attore a scelta + il periodo di Natale +
il gelato.
Per
scoprire le altre One Shot, vi invito a visitare, da qui al 2 gennaio, le
sezioni dedicate agli attori di seguito riportati, e cercare “Daydreamers’
Carol” nel titolo.
Vi
aspetteranno storie meravigliose su:
Robert Downey
Jr (già pubblicata)
Sam Claflin
Chris Evans (già pubblicata)
Jared Leto
Neil Patrick Harris
Liam Hemsworth
Chris Hemsworth
Christian Bale
Josh Hutcherson
Orlando Bloom (già pubblicata)
Matthew Fox.
E
questo è quanto, bella gente. Naturalmente ringrazio le ragazze meravigliose
che fanno parte del gruppo, che mi sopportano e supportano in ogni momento,
anche quando non aggiorno da millenni (ogni riferimento ad About
Wayne è sempre puramente casuale).
Un
particolare ringraziamento va a lei, sempre lei: Costanza. Sei quanto di più
dolce possa esistere e non so come, riesci sempre a tirarmi su. E mi fai
scrivere e completare tutto, hai visto?!
Un
caldo abbraccio a tutti (w Olaf! Se non avete visto Frozen, CORRETE A VEDERLO!),
Sara.