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Autore: TheUnknownDevice    24/12/2013    4 recensioni
“La convinzione fotte la gente”, disse qualcuno.
Honey, dopo aver passato dieci dei suoi diciotto anni su una sedia a rotelle, è convinta di non avere nulla: non ha un paio di gambe funzionanti, non ha dei genitori, non possiede alcun amico né un qualche animale domestico.
Dylan, lo scapestrato e fin troppo attraente ragazzo che irrompe nella sua vita e le propone un patto a doppio senso, invece, sembra essere contento e fiero della propria vita.
Ma non è tutto come sembra, dipende solo dai punti di vista. E quando gli antipodi si scontrano, ogni cosa è davvero possibile, perché tutto passa, ma niente cambia davvero. Forse, solo se ne sei profondamente convinto.
È come in una guerra, come un accordo di mutuo soccorso tra Paesi alleati. Il primo a cadere perde, ma può contare sull’aiuto dell’altro.
Una solida alleanza, un tacito patto a doppio senso, un appiglio per salvarsi dalla fredda ed esigente realtà.
And nothing else matters - E non importa nient'altro.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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Capitolo primo


Amara consolazione
 

 

9 novembre 2013
 


«Dai, Cedric, c’è compito di algebra oggi! Non farmi arrivare sempre in ritardo, per favore!», urlai dall’ingresso, giocherellando con la lampo del mio zaino blu, poggiato sulle mie gambe.
Ci avevo preso gusto, ormai, a chiamarlo solo per nome. Faceva tanto da coinquilini novelli e non mi veniva nemmeno tanto difficile, visto e considerato che aveva solamente trentatré anni – e ne dimostrava sì e no una ventina.
«Arrivo, tesoro! Scusami, ma non riuscivo a trovare gli occhiali da vista», si giustificò zio Cedric, comparendo con un pacchetto di Marlboro in mano e scendendo a due a due le scale.
«Ah sì? Erano quelli gli occhiali che cercavi? Sbaglio o mancano le lenti?», domandai con tono pungente, scoccandogli un’occhiata abbastanza eloquente.
«Okay, va bene. Ma lo sai che queste sono la seconda cosa senza la quale non potrei vivere, no?», mi sorrise, spingendo la carrozzella verso la sua monovolume grigia.
«Ma dai? E la prima quale sarebbe, scusa?», chiesi divertita. Almeno mi stava facendo passare l’ansia per l’imminente verifica.
«Bè, tu ovviamente. Che domande!», ammiccò, per poi prendermi in braccio di peso e posarmi sul sedile del passeggero.
«Oh, ne sono commossa, zio. Pensavo che mi rispondessi con qualcosa tipo: “Non vivrei senza una palla da calcio” o roba simile. Lieta d’essermi sbagliata», conclusi con una linguaccia, mentre ci avviavamo verso la Kennedy High School.
«Oh, ma per chi mi hai preso? Per uno che non fa altro che guardare partite di calcio, oltre al fatto che magari insegna anche come si corre dietro a un pallone a dei marmocchi troppo vivaci o a dei liceali troppo fatti di marijuana?» stava ghignando, segno evidente di quanto si stesse divertendo in quella conversazione mattutina.
«Ma zio! Questa è esattamente la tua vita; renditene conto», lo presi in giro.
«Ma sentila! Come se non mi adorassi nonostante questo.»
«No, Cedric. Io ti adoro soprattutto per questo», risposi, mostrandogli uno dei miei sorrisi più sinceri, «Anche se prima o poi ti farò togliere il brutto vizio di fumare!» Gli scoccai un’ultima linguaccia, prima di aprire il portello dell’auto ed essere rimessa sulla sedia a rotelle.
«Certo, certo. Sogna pure, principessa» Mi fece un occhiolino, «E in bocca al lupo per il test, eh!», mi gridò quasi, mentre mi allontanavo, sola, verso lo scivolo dell’entrata.
Sorridendo, gli risposi di rimando: «Crepi!»
 

- - -
 

Tre ore e tanti, troppi numeri dopo, mi trovavo fuori, nel cortile della scuola, intenta a divorare – letteralmente parlando, sì – il mio sandwich.
Al mio fianco, nessuna migliore amica con cui spettegolare, nessun compagno di classe in pena per me, nessun amico gay a farmi compagnia nel suo essere solo ed incompreso; solamente un platano leggermente spennacchiato, a causa del corrente autunno.
Non che fossi una ragazza poco socievole, tutt’altro; ero sempre stata una bambina piena di voglia di vivere, di curiosità e gaiezza. Forse col tempo le mie migliori qualità erano andate scemando e, quasi sicuramente, la colpa era da dare a tutto il caos che mi aveva travolta peggio di un uragano.
Insomma: avevo passato un intero decennio costretta su una sedia a rotelle – e ancora non si vedevano segni di miglioramento,una amara consolazione -, perciò il mio indice di vitalità era drasticamente sceso a zero. Niente contatti col mondo esterno, solamente la solita e monotona routine che prevedeva, come risultato finale, un riscontro positivo almeno per quanto riguardasse le mie gambe. Le poche amiche che avevo a scuola erano ovviamente scomparse, per opera dei rispettivi genitori, propinandomi la tipica scusa del “sono troppo piccole per capire com’è successo”, nemmeno fossi rimasta incinta!
E poi tutto era filato liscio come l’olio: la scuola, i bei voti, la ginnastica quotidiana, tanta musica e tanti disegni – avendo ereditato la vena artistica di nonna Grace –, completati dall’immenso ed incondizionato affetto dello zio Cedric. Praticamente, lui era stato – ed era ancora, naturalmente – una specie di padre/madre/zio/cugino/fratello/sorella/amico/babysitter che non avevo mai avuto. All’occorrenza, egli aveva saputo tirar fuori il meglio di sé e rendermi contenta. Aveva tanti difetti, Cedric, forse raramente si trovava un pregio in quel ragazzone ribelle e sconquassato; ma quando era con me, tutto perdeva importanza, perché riuscivo a leggerglielo negli occhi che mi voleva bene e voleva vedermi felice. E si sforzava, Dio se lo faceva; ogni giorno, ogni momento, aveva fatto i salti mortali per assicurarmi cure e benessere.
E io, io gli volevo un bene dell’anima per questo.
Lo vedevo come si comportava – con le donne, specialmente – mentre io non ero nei paraggi: era frenetico, impacciato, a volte arrabbiato con se stesso. Era mezzo bambino ancora, lo si capiva da come si relazionava con i bambini che allenava. D’altronde, quel passatempo che avevo imparato anch’io ad amare – il calcio, sì – era divenuto per lui un hobby a tempo pieno; infatti, oltre al suo lavoro come impiegato bancario, aveva la passione sfegatata per il calcio, che aveva imparato a coltivare allenando quotidianamente la squadra del paese. Ci avevo assistito, delle volte, ai suoi allenamenti; oltre ad essere ammirato da molte mamme – single e non -, irradiava un carisma così travolgente che mi sono sempre ripromessa di imparare, un giorno, a giocarci.
E poi, era bello. Non attraente, sensuale o affascinante; ma bello.
Con quegli occhi ipnoticamente metallici – così simili ai miei, tra l’altro –, il suo sorriso accattivante e l’aria da playboy ribelle, era, per lui, assolutamente semplice ed elementare abbordare una ragazza e portarsela a letto, senza troppi complimenti. Me lo aveva confessato apertamente, di non volere nessun legame a lungo termine, spezzando quell’attimo di serietà con una delle sue battute gratuite e dicendo che ero io, il suo legame a lungo termine, la donna della sua vita. Ci avevo riso su, comprendendo la sua difficoltà a trovare le parole giuste per non farmi sentire propriamente un peso per lui.
Era quella l’unica cosa che mi faceva andare avanti, senza che l’istinto di fuggire via mi accompagnasse. Il fatto che ogni sabato sera ci fosse una donna diversa nel suo letto e che fosse perpetuamente col sorriso mi rincuoravano almeno un po’, portandomi a pensare che forse, in fondo, non ero una palla al piede, come temevo.
Amara consolazione.
Mi riscossi in fretta dai miei strani pensieri, controllando lo schermo del cellulare che ora fosse.
Ero seduta sulla mia onnipresente sedia a rotelle, adagiata su un tappeto di foglie secche e fruscianti. Un leggero venticello andava a scompigliarmi costantemente i capelli, così decisi di farne una sottospecie di treccia, così, giusto per tenerli a bada.
Ero in attesa di Matilda, la mia tanto fidata fisioterapista, che mi veniva a prendere ogni giorno – sì, ogni santo ed infinito giorno – per la mia ginnastica quotidiana, la quale prevedeva un minimo di due ore di esercizio fisico per far “sgranchire” le mie gambe mosce.
Già, mosce.
A quanto pareva, l’intervento da poco eseguito era andato a buon fine; ciononostante, le mie gambette gracili e mosce – per l’appunto, come io amavo definirle – non ne avevano voluto di muovere un passo e nemmeno di farmi stare dritta, in piedi. Nulla di nulla, proprio.
Per farmelo capire in una maniera più carina, praticamente, era come se fossi ritornata una poppante. Anzi, meglio: era come se avessi appena compiuto un anno – e non diciotto – e dovessi imparare a imporre i primi passi. Ecco perché lo zio Cedric – che prima o poi avrebbero fatto santo, me lo sentivo – aveva fatto arrivare direttamente dalla Svezia degli attrezzi specifici per il mio problema.
 Sperai ardentemente che Matilda non facesse tardi, altrimenti avrei perso anche l’ultima ora di lezione e non potevo proprio permettermelo, già che ne saltavo due ogni giorno, con il dispiacere dei miei professori.
Persa nei miei confusionari pensieri, non m’accorsi che un corpo in corsa mi era appena sfrecciato accanto, spostando la carrozzella e facendola mantenere in bilico su due ruote.
Ammazza alla delicatezza!
Fortunatamente il mio peso la fece inclinare nel verso giusto, riportandola nella posizione giusta.
Ovviamente, la fortuna non era nemmeno di strada – non tanto di casa – per me, a vedere che il cellulare era inavvertitamente caduto sulle foglie.
«Merda» Imprecazione poco fine, lo so, ma non c’era anima viva in giro che potesse aiutarmi, poiché tutti erano rientrati a lezione. Cercai, così, di provare a piegarmi per raggiungere il letto di foglie sottostante, naturalmente invano.
Quel disgraziato non poteva andare più piano, santo cielo? E se mi avesse chiamato Matilda, magari per avvisarmi di un suo contrattempo? Come avrei fatto a rispondere?
Come se lo stessi invocando, un nuovo colpo e una nuova folata di vento mi colpirono, stavolta con meno energia.
«Ma brutto imbecille!», gridai, cosicché potesse sentirmi, invece di correre da una parte all’altra del cortile, nemmeno avesse un piranha attaccato al sedere.
L’urlo sortì l’effetto desiderato, perché il maratoneta si voltò di scatto, guardandomi disorientato.
Pure stupido è, andiamo bene.
Il tale mi raggiunse – correndo, ovviamente – piazzandosi di fronte a me con cipiglio divertito.
«Ehm, ciao», asserì come se non avesse altro da fare, tipo andare a lezione, magari.
Ciao? Ma stiamo scherzando?! Mi investe, non se ne accorge, lo chiamo e lui che dice? Ciao?!
Honey, controllati.
«Sì, ciao. Dato che, come puoi notare, non ho le tue stesse doti da corridore – per ovvi motivi – potresti, per favore, recuperare il cellulare che hai fatto involontariamente cadere?», chiesi con il tono più acido che potessi usare.
«Uhm, okay», disse solo, chinandosi e porgendomi il telefono. 
«Grazie», risposi di rimando, vagando con lo sguardo altrove; anzi, diciamo ovunque, tranne che sull’individuo stante ancora davanti a me. Non che non l’avessi già pienamente osservato, ma emanava un non so che di pericoloso, di strano.
E poi, bè, se mi fossi soffermata troppo sui capelli appositamente scompigliati, sugli occhi verde prato dal taglio deciso, sul quel velo di barba che gli stava da Dio, o magari sulle spalle larghe o sul suo più che abbondante metro e ottanta di altezza, avrei avuto la bava alla bocca, senz’altro.
E, no. Non ce l’avevo la bava alla bocca.
Non ancora, almeno.
Era senza dubbio un bel ragazzo, nulla da dire in merito.
Ciò che mi dava fastidio, però, era la consapevolezza di quello, come se fosse un dato di fatto e lo andasse a sbandierare ai quattro venti. Sì, ce lo vedevo proprio uno come lui davanti ad un povero studente di primo anno a dirgli:  “Ehi tu, guardami: sono bello, vedi? E ora posso anche sputarti in faccia, perché la migliorerei sicuramente”.
I tipi così spavaldi mi avevano sempre dato fastidio, peccato solo che non potessi non pensare che quegli occhi fossero proprio la fine del mondo.
Avevano un che di sconvolto, burrascoso ma rassicurante.
Lo conoscevo bene quel tipo di occhi, perché erano le stesse emozioni che leggevo in quelli azzurri dello zio Cedric.
E poi i pensieri galoppanti fermarono la loro corsa, poiché il ragazzo parlò a pochi centimetri dal mio viso, abbassandosi alla mia altezza: «Io vado o i prof mi linciano. Ci vediamo...», spostò per un attimo lo sguardo verdeggiante sul mio zaino, sul cui bordo era inciso il mio nome, «...Honey», soffiò, per poi allontanarsi, con tanto di mani in tasca e tracolla sulla spalla – tracolla che non avevo nemmeno notato prima, tra l’altro.
Prima che potessi anche pensare di girarmi e rispondergli con un saluto poco felice, lo schermo rigorosamente touch del mio cellulare s’illuminò, mostrandomi la foto buffa dello zio Cedric.
«Pronto, zio Cedric?»
«Ciao, Honey. Ascolta, credo che tu stia aspettando Matilda, giusto?»
«Sì, ma stranamente non è ancora arrivata.»
«Appunto di questo volevo parlarti. Matilda non verrà, è dovuta partire stamattina presto per il Canada; da quel che ne so, sua madre ha avuto un infarto ed è ovviamente dovuta correre da lei, capisci, no?»
«Sì, certo, capisco. Ma ora che si fa, zio?» Iniziavo a preoccuparmi.
«Bè, dovremo trovare al più presto un sostituto. Matilda non tornerà prima dell’anno nuovo
«Oh, capisco.»
«Tranquilla, principessa. Penserò a tutto io.» Come  sempre, zio Cedric aveva preso il toro per le corna, come si suol dire, senza mostrare segni di cedimento davanti a quel piccolo problema.
Amara consolazione.
«Grazie, zio. Sei il migliore», risposi soltanto, consapevole che le parole non sarebbero servite a tanto.
«Figurati, tesoro. Ti voglio bene, ricordalo
«Ti voglio bene anch’io.»






UnknownVoice:
Ciao! Rieccomi col primo e vero capitolo! Niente di sconvolgente, lo so, ma siamo ancora agli inizi e voglio prima che la storia prenda forma, dopodiché passerò a colorarla ;)
Spero con tutto il cuore che come inizio sia piaciuto, perché vorrei prima vedere come la "prendono" i lettori e poi agire di conseguenza.
Quindi fatemi sapere cosa ne pensate, ne va del mio lavoro :)
Alla prossima (si spera presto xD),
UnknownDevice
  
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