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Autore: Andy Black    25/12/2013    12 recensioni
"Mamma.
La mia mamma. La nostra mamma. Samuel dorme ancora.
Non ha visto.
Samuel non ha visto quello che è successo. Ma io si.
E non riuscirò mai a dimenticarlo. Tutto rimarrà dentro di me, quell’aquila di metallo dovrà pagarla. Perché la mia mamma è sparita via con lei.
Odio l’aquila di metallo.
Odio tutto.
Ho fame. Non so come devo fare. Morirò, perché non so volare. E Samuel dorme e non so come fare. E mi sento perso.
E...e chi è questo qui?"
______________________
Il piccolo Armony, un Rufflet dalle penne dorate, si ritrova orfano per via di un bracconiere. Comincia il suo lungo percorso per vivere una vita giusta, condita dal desiderio di vendetta
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: N, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Anime
- Questa storia fa parte della serie 'Pokémon Courage'
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Sulle ali del coraggio
Angolo Autore.
Piccola Nota! I Braviary sono tutti maschi, ma io ho voluto un transgender X) Piccola licenza poetica =). Spero la storia vi piaccia.




  
 

La amavo. Amavo quel brivido, quando sentivo battere da lontano le sue ali, quando sentivo i suoi gridi. Quando la percepivo, mentre si avvicinava.
Mia madre. Amavo mia madre, ed amavo starle accanto. Amavo il fatto che amasse me, che amasse mio fratello. Amavo il fatto che amasse, ed amavo il fatto che non avrebbe smesso.
Amavo perfino quel posto, così pieno di vento, e di rumori strani. Di tanto in tanto quelle enormi aquile di ferro volavano rumorose sopra le teste nostre.
Quella di mamma, quella di Samuel e quella mia.
Piccoli ancora, con le nostre piume spelacchiate, mi sono sempre chiesto il motivo per cui Samuel ed io fossimo di colori diversi.
“Tu sei speciale” mi ricordava in continuazione mamma. Io lo sapevo già di essere speciale, ma un po’ mi dispiaceva il fatto che Samuel avesse gli stessi colori della mamma mentre io...beh, mentre io avevo i colori del sole sulle mie piume.
Samuel no, era grigio, come la mamma. Samuel non si lamentava mai, stava sempre zitto.
Ero io quello che faceva confusione, casino se vogliamo metterla così. Me ne stavo ore ed ore intere a blaterare su quanto bello sarebbe dovuto essere volare, proprio come faceva la mamma.
Librare nell’aria fresca, sentire il vento trapassare le mie piume, ed il becco raffreddarsi picchiando contro il muro d’aria.
Samuel mi ascoltava sempre, sorrideva sempre.
E mi diceva che un giorno sarei diventato l’aquila più forte. Mi diceva che nessun Braviary sarebbe stato alla mia altezza.
 
Il ticchettio dell’orologio sfondava i suoi timpani, ma J quella mattina doveva rimanere lucida. Avrebbe incontrato la nuova cliente. Una cliente particolarmente ricca.
E J lo sapeva. Sapeva che quando ci andavano di mezzo i soldi, nulla doveva contare più.
Ecco come doveva funzionare: un cliente entrava, gli diceva che Pokémon gli serviva, J glielo procurava dopo aver stabilito un prezzo spropositato, e tutto finiva lì.
Ma stavolta era diverso.
La regione di Unima. La regione dei ponti, sorrideva a pensarlo.
Dietro la sua scrivania, con la fastidiosa costrizione delle bretelle del reggiseno, tamburellava il piano con la matita di legno, cercando di ottenere un ritmo differente da quello del ticchettio, ma alla fine si ritrovava con quel trapano a scatto nella testa, che gli perforava i timpani.
Era davvero così schiava di quell’orologio?
Le sarebbe bastato salire su di una sedia e levare quell’orologio dalla stanza. Semplice, rapido ed indolore.
Ma poi come avrebbe fatto a sapere che ore fossero? Ebbene sì, l’uomo è schiavo del tempo, delle sue sfumature, delle sue sfaccettature, e prega, quasi desidera di poterlo controllare, in quanto ha in sé un’incoerenza di base. Delle volte vorrebbe farlo andare così veloce da fare in modo che sei ore passino in un battito di ciglia.
Ma poi, in quanto essere intelligente, rifletteva, e pensava che se il tempo fosse andato così veloce, si sarebbe perso non solo i momenti brutti e noiosi della vita, bensì anche quelli belli.
E allora no.
Avrebbe fermato le lancette dell’orologio, incollandole tra di loro, per bloccare il tempo, per godersi i momenti fantastici, memorabili, divertenti, indipendentemente dal fatto che il tempo, essendo relativo, può essere prezioso più per me quanto per te.
Un po’ complicato come concetto, ma è presto spiegato. In effetti mettiamo caso che ci siano due fratelli. L’uno lo chiameremo Calem, l’altra Serena.
Ebbene, i due sono cresciuti insieme, poi ad un certo punto della loro vita si sono separati, perseguendo le loro vite.
Capita che un giorno X, in un’ora Y, Calem e Serena si trovano in due situazioni agli antipodi.
Creeremo una situazione simile.
Calem, per esempio, in quel momento riceve il proprio primogenito tra le braccia.
Tutto è perfetto, la situazione è ideale per restare impressa nella memoria. I rumori dei macchinari, con i loro bip instancabili, e poi sua moglie, la madre di suo figlio, stremata sul letto. L’ostetrica che pone tra le braccia del padre il nascituro. In quel momento Calem decide che suo figlio si chiamerà Christopher, e la gioia lo inonda come il mare sul bagnasciuga.
Un momento che vorrebbe non finisse mai.
E invece Serena si trova in una situazione che definire agli antipodi è restrittivo.
È anch’ella al cospetto di un dottore, stesa su di un letto. In quel momento esatto, il medico le sta dicendo che il bambino che stava aspettando è perso.
Serena doveva abortire un corpo morto dal suo corpo.
La paura, il terrore, la rabbia e lo sconforto si erano unite tutte insieme nel corpo femmineo di Serena, tanto da farle tremare le mani.
Avrebbe voluto cancellare tutto, far passare tanto tempo che la sua testa avrebbe dovuto ricordare quel momento come una piccola virgola nella pagina della sua vita.
Andare avanti, e dimenticare, perché quella virgola era indelebile.
Ora poniamo in mano a Calem un particolare orologio, in grado di controllare il tempo.
Indipendentemente da quanto accaduto a Serena, lui avrebbe fermato il tempo, fatto durare ogni secondo una settimana, per godersi appieno quel momento. Il momento in cui la voce di suo figlio entrava per la prima volta nelle sue orecchie.
Ma se fosse così davvero, allora Serena avrebbe dovuto vivere nel suo dolore per anni, prima che Calem, ove mai si fosse deciso, avesse portato il tempo al regolare scorrimento.
Nel caso opposto, quello in cui quel particolare orologio fosse nelle mani di Serena, il momento che Calem avrebbe mantenuto in braccio Christopher, sarebbe durato meno di un decimo di secondo. Ciò perché Serena aveva bisogno di andare avanti velocemente.
E allora un solo risultato ne esce da questo ragionamento.
L’uomo è egoista, e pensa prima a sé e poi agli altri, per natura.
 
La porta di J si aprì all’improvviso, sorprendendo la donna mentre si crogiolava nel suo bisogno di alcool, e una strana luce illuminò la stanza, accecandola.
Era una luce troppo particolare, come se il sole fosse stanco, ed avesse ridotto la sua luce al minimo. Una strana luce bianca.
La luce del sole è gialla.
Il nonno le ricordava sempre che se la luce era bianca quel sole sarebbe stato presto rimpiazzato da nuvole di pioggia. E volente o nolente, il suo ufficio era aperto con sole e pioggia.
Del resto il suo lavoro non era facile da attuare.
Una caviglia femminile entrò nell’ufficio cupo, ricco di quell’odore esotico proveniente da quei sigari cubani che non saltuariamente J aspirava.
La caviglia di quella donna era stretta in un paio di decolleté, preziosi solo a guardarli.
Una abito rosso si poggiava come la Sacra Sindone sul corpo di quella, velando le forme eleganti di quella giovane donna.
Capelli lunghi, castani, occhi puliti, ma con un qualcosa che diceva che non lo erano sempre stati. Labbra pittate di rossetto, ed un sorriso consapevole sul volto.
“Buon pomeriggio, signora J”
“Salve” fece la donna, evidentemente più anziana e segnata dalla vita di quella dolce rosa. Ma poi mica tanto dolce.
“Mi fa molto piacere conoscerla. Lei è un’istituzione tra i cacciatori. Molto affidabile”
“La ringrazio. Chi le è venuto a parlare di me?”
“Il marchese di Ceneride, quel brav’uomo”
“Ricordo quel signore...aveva bisogno di dodici Houndoom”
“Le porto i suoi saluti”
“Benissimo. E lei?”
“Io? Beh, io sono la duchessina Frida Von Mark, e se sono da lei non è per parlarle del marchese...”
“Di che Pokémon ha bisogno?” tagliò corto impazientemente la cacciatrice.
“L’altra sera ero ad una festa esclusiva. Ebbene, entra la principessa di un posto sperduto del centro Europa con un cappello meraviglioso, fatto con le piume di un Braviary. Come ben sa, i Braviary sono Pokémon...”
“Altamente territoriali e difficili da catturare. Ne avrà uno per ventimila dollari”
La duchessina sporse le labbra ed inarcò le sopracciglia. “Beh...un po’ cara, ma va bene”
“Perfetto. Mi metterò subito all’opera”
“Aspetto sue notizie”
“Vada pure”
 
J si stava preparando per quell’operazione. Catturare un Braviary non era per niente facile. I Braviary sono dei Pokémon vendicativi, che non sopportano intrusi nel proprio territorio, e che stampano nelle loro menti i fatti significativi.
Uscita dalla doccia, rimise quella trappola per i seni, finì di vestirsi e si fermò davanti allo specchio.
Nonostante stesse per entrare in quella sezione che inizia dai cinquant’anni e che termina con la dipartita, J si sentiva fresca ed atletica. Il suo viso era disteso, ma qualche cicatrice di troppo attestava come una laurea le sue esperienze andate storte.
Quella più profonda era la firma di un Aggron, dei suoi artigli.
I capelli grigi, corti, ed il viso smunto, pulito dal trucco, mascolino.
Infilò il lungo soprabito nero, ed in quella giornata di forte pioggia decise di prendere il suo speciale aeroveicolo e di uscire.
Era particolare, quello, perché volava ad una velocità altissima, ed in più era grande, e conteneva gabbie capaci di contenere grandi Pokémon, come tre Tyranitar.
Quel giorno la sua truppa era stanca. Il sonno aveva segnato le notti senza riposo di quelli, che, mercenari ben pagati, avevano seguito il capo stakanovista alla ricerca di un Mismagius.
J si sedette al suo posto, accanto ai piloti, e velocemente si diressero verso Unima, ai piedi della vecchia Via Vittoria.
 
Mamma ancora deve tornare. Beh, è strano, anche se pensandoci non lo è poi così tanto. Piove moltissimo. Quando piove così è difficilissimo trovare il cibo, e lei si impegna sempre così tanto per farci crescere.
Quasi mi spavento ogni volta che vedo quelle luci nel cielo, con quei rumori forti, ma mamma mi ha spiegato che i fulmini sono cose naturali, e che fin quando sono nel mio nido, al riparo dall’acqua, non devo avere paura.
Samuel dorme. Dorme sempre, e mi chiedo spesso come faccia.
Io aspetto la mamma sveglio. Voglio vederla, ho fame, voglio stare accanto a lei, riscaldarmi tra le sue piume ed asciugare l’acqua che si è annidata tra le mie.
Le mie piume.
Anche Samuel ha le piume ora.
Samuel parla poco, però, e non ha le piume gialle come le mie. Ho chiesto a mamma per quale motivo io le avessi gialle e Samuel blu, e mi ha risposto che già me lo aveva detto, ma io non mi ricordo.
Mi ha detto: “Harmony, tu sei speciale. Proprio come il tuo papà”
E quando gli ho chiesto cosa fosse un papà, lei mi ha risposto con un sorriso, e poi è volata via.

Allora l’ho chiesto a Samuel, ma non mi sono accorto che dormiva.
E poi ho dimenticato di domandarlo. Quando la mamma tornerà a casa, gli domanderò cos’è un papà.
I rumori sono strani. Delle volte sono forti, altre volte sono piccoli, bassi e sottili, e quasi bisogna impegnarsi per sentirli. Ma io li sento. Io sento tanti rumori. Quando Samuel è sveglio, giochiamo a chi sente più rumori ed io vinco sempre. E non imbroglio, che dico di aver sentito un rumore ed invece non è così! No! Io li sento davvero! E mamma è fiera di me per questo, ma poi Samuel si dispiace e mamma bacia Samuel sulla testa.
Ma anche io voglio i baci da mamma.
 
“Capitano J” fece uno degli uomini della cacciatrice.
Quella mosse lentamente il capo verso lui. “Si?”
“Siamo quasi arrivati. In questa zona montuosa è molto facile incontrare dei Braviary”
“Bene. Cerchiamo un bell’esemplare e catturiamolo”
“Con questa pioggia però non sarà un giochetto...”
“Tranquillo. Ci penso io”
 
Un rumore!
Si è proprio un rumore!
Samuel! Lo senti questo rumore?! Samuel?!
Uff...Samuel sta dormendo. Quando mamma non è nel nido dorme sempre. È davvero di pessima compagnia.
Comunque è un rumore quello che sento! E non parlo di quello della pioggia! No! Questo è il rumore che fanno le aquile di metallo!
E poi quello è il grido di mamma!
Mamma! Mamma! Siamo qui!
Ma...mamma sta volando troppo veloce...mamma! Mamma!
 
“Dobbiamo prenderlo! Dobbiamo catturare quel Braviary!” urlava J, alzatasi improvvisamente dalla sua sedia, infoiata. “Usate il liquido adesivo!”
Dall’aeroveicolo di J partirono due spruzzate di un liquido rosa, viscoso, ma il volo di Braviary si modificò, in modo da non essere colpito.
Dopodichè virò, cercando di allontanarsi il più possibile dal nido. Non voleva che quei cacciatori potessero trovare Samuel ed Harmony.
“Dannata aquila! I laser!”
Due raggi incandescenti, rossi, ruppero la monotonia della tranquillità montana. Quello sparato dal cannone di destra si infranse sulla montagna, ma per via della forte pioggia, l’incendio sarebbe stato domato velocemente dai Blastoise.
Ma Braviary non fu colpito neanche dal sinistro. Volteggiava in aria, modificando la propria traiettoria di volo, cercando di non farsi beccare. Si avvitò su se stesso, urlando ai figli di stare tranquilli, di non muoversi e soprattutto non urlare, perché semmai si fossero fatti sentire, Harmony sarebbe stato in forte pericolo. Harmony era dorato.
Harmony era speciale.
Virò verso l’alto, continuando ad evitare i fendenti luminosi incandescenti lanciati dalla nave madre della disfatta, e prese a volare in verticale.
“Si vuole nascondere in una nuvola!” disse J, arrabbiata. “Ma noi ti seguiremo anche lì! Levitiamo!”
La aeronave prese ad alzare la quota di volo, senza modificare l’inclinazione del veicolo.
I cannoni puntavano in cielo, miravano l’aquila e colpivano le nuvole, che per tutta risposta piovevano più forte di prima.
“Non è possibile! Dobbiamo prenderlo! Usate il muro!”
Il capitano dell’aeroveicolo sbarrò gli occhi. “Il muro?! Ma è impazzita?! Ad alta quota potremmo schiantarci tutti!”
“Non è il momento di andare contro le mie decisioni! Voi siete pagati per lavorare! Ed ora attivate il muro!”
Il capitano ingoiò un grosso malloppo di terreno, quindi giostrò con le manopole che aveva davanti.
Il resto lo fece automaticamente l’aeronave.
La zona tra i due cannoni si aprì, creando un fossato di pochi metri al di sopra del veicolo.
“Ora!” urlò J, che vide un enorme muro di luce laser partire verso il cielo.
Il sistema della nave ne risentì. D’improvviso la barca prese a perdere quota, e a scendere velocemente.
“Stabilizziamoci con le eliche d’emergenza!”
“Non so se c’è abbastanza energia!”
“Disabilitate i cannoni laser”
“Non dobbiamo più catturare Braviary?” chiese sgomento il capitano. Certo, non aveva voglia di morire, ma i paracadute erano già stati inventati.
J levò gli occhiali scuri dal volto, e ghignò.
Davanti alla nave stava cadendo il corpo esanime del Braviary che stavano inseguendo.
“...perfetto” fece il capitano, e cominciò la manovra di atterraggio e di recupero del “premio”.
 
Mamma! No! Mamma! Mamma, perché vogliono farti del male?!
Mamma, ti prego, torna qui da noi!
Perché vogliono farti male? Perché non ti fanno tornare qui da noi?!
E...e perché adesso stai cadendo giù?
Mamma...
Mamma.
 
“Toh...ma guarda tu...” fece Zack, camminando per quelle montagne. Certo, era anche lui in cerca di un Braviary, si sarebbe accontentato anche di un Rufflet, ma almeno lo avrebbe catturato in modo canonico.
Aveva sempre sognato di possedere un Braviary. Era un Pokémon che lo affascinava, e che lo portava in alto, prima con la fantasia e poi con le sue ali.
Un Pokémon regale, pieno di orgoglio e forza. Un Pokémon che voleva per la sua squadra.
Camminava per quelle montagne, ed aveva visto quella scena, nascondendosi dietro ad un cespuglio.
Quel povero Braviary aveva dei cuccioli, lui li sentiva pigolare, ma probabilmente i cacciatori, all’interno di quel trabiccolo infernale pieno di bip ed attrezzi ipertecnologici, non erano in grado di fare altrettanto.
Attese che la cattura fosse avvenuta, per poi cominciare a scalare la montagna, e quando vide l’aeronave sparire nel cielo, mise mani e piedi sulle rocce, per cominciare a salire.
E farlo sotto alla pioggia non era per niente semplice.
Sentiva i piccoli Rufflet pigolare, li sentiva piangere.
O forse sbagliava. Forse era solo un Rufflet. Ma urlava come se fossero due, quindi questo lo spinse a salire ancor più velocemente.
Piede sullo spuntone, mano nell’insenatura. Per testare provò a fare forza, ma non si muoveva.
Aveva imparato a scalare sul Monte Argento. Non ne aveva una bella esperienza, gli ospedali non ne potevano più di vederlo, a Johto.
Ma aveva affinato la sua tecnica, ed aveva un movente forte per riuscire nella scalata: qualunque fosse il numero di Pokémon che stava pigolando, nel nido che riusciva ad intravedere una decina di metri più in alto, sotto l’enorme masso che li riparava dalla pioggia, una treccia di legnetti e paglia.
“È il nido”
Ancora stessa tecnica. Testare prima di usare.
Afferrò lo spuntone in mano, e lo tirò, e quello venne via. Zack aveva tirato con troppa foga la roccia, e quasi stava per destabilizzarsi e cadere giù. Ma Fortunatamente quel giorno la roccia fece l’effetto calamita e lui passò mentalmente dal letto dell’ospedale al continuo di quella scalata.
“Pochi metri ancora...” soffrivano le mani sotto la roccia tagliente e bagnata, mentre lui si insudiciava di polvere e fango.
Era una cosa da folli. Totalmente.
E lui era stato abbastanza folle da riuscire a salire fin sopra, dove gli occhi di quei Rufflet potevano vederlo.
 
Mamma.
La mia mamma. La nostra mamma. Samuel dorme ancora.
Non ha visto.
Samuel non ha visto quello che è successo. Ma io si.
E non riuscirò mai a dimenticarlo. Tutto rimarrà dentro di me, quell’aquila di metallo dovrà pagarla. Perché la mia mamma è sparita via con lei.
Odio l’aquila di metallo.
Odio tutto.
Ho fame. Non so come devo fare. Morirò, perché non so volare. E Samuel dorme e non so come fare. E mi sento perso.
E...e chi è questo qui?
 
A Zack bastò poggiare due Pokéball sulle loro teste per catturarli. Non opposero nemmeno resistenza. Zack intascò le Pokéball e decise che doveva fare in modo di svezzarli.
Si presentò al centro Pokémon di Boreduopoli, e si avvicinò all’infermiera.
“Buonasera...vorrei che visitasse questi due cuccioli”
Quando l’infermiera fu in grado di vedere Harmony spalancò gli occhi.
“Santo cielo! Ma è rarissimo!”
“Lo so davvero molto bene. Ma...ma non è questo che conta”
 
Samuel si era svegliato, ed in un modo o in un altro sono riuscito a spiegargli quello che è successo.
Samuel ha pianto.
Samuel era triste. Gli ho detto che sarei stato in grado di trovare la mamma, e di vendicarla.
E poi Zack, si chiama così? Comunque ci ha messi su un tavolo, e ci ha guardati. Carezzava Samuel, che sembrava meno spaventato di me.
Io avevo paura. Mamma diceva che le persone come lui abitano nelle aquile di metallo. Lui mi farà del male?
No. Non mi farà del male, perché adesso ci sta facendo mangiare. Samuel mangia con velocità, voracemente: ha molta fame.
Io però non riesco a mangiare. Io ho negli occhi quelle immagini, che non si staccano dalla mia mente. Non riesco ad andare avanti.
Non riesco a dimenticare.
E non riesco a capire perché Zack (sembra chiamarsi così) mi stia fissando così profondamente.
Smettila. Mi infastidisci.
 
“Che farai con due Rufflet adesso?” chiese l’infermiera, mentre Zack guardava Harmony.
“Di due Rufflet non me ne faccio niente. E non costringerò uno di loro a vivere in una sfera se non lo userò”
“E quindi?”
“Quindi ne libererò uno”
“Ne libererai uno?!”
“Già...libererò questo cromatico”
“Eh?! Zack, ma sei completamente rincretinito?!”
Zack sorrise, e carezzò la testa di Harmony, fissandolo nei suoi piccoli occhi, vispi e contemporaneamente spenti.
“Probabilmente è così, sono rincretinito. Ma questo Rufflet...questo qui non può stare rinchiuso in una sfera. Sarebbe come tagliargli le ali. Nei suoi occhi sventola la bandiera della libertà, e la brama di qualcosa che noi non riusciamo a capire. No, infermiera...terrò questo normale, e libererò quello dorato”
“Oh...come...come vuoi”
“Infermiera, ora devo andare...può assicurarsi di liberarlo nella zona adatta?”


Samuel è andato. L’ho salutato con un po’ di dispiacere, e con un pizzico di gelosia. Vivrà mille avventure ora, ma apprezzo molto Zack.
Ha capito.
Ed anche io ho capito. Ho capito che finchè non diventerò più forte non potrò andare avanti.
Ho capito che dovrò volare.
 
L’incedere del tempo è lento, ma inesorabile. E così le stagioni passavano, le foglie nascevano dalle piccole gemme sugli alberi, quindi crescevano, ingiallivano e cadevano, e quindi si spezzavano sotto la morsa del gelo.
E le ali di Harmony si allungarono, diventando più forti; le sue piume più folte, il suo orgoglio più radicato. Ma la sua mente era tesa al raggiungimento di un solo ed unico scopo.
Capire.
Capire il motivo per cui un organismo debba volutamente fare del male ad un altro organismo, e non si tratta di virus e di batteri, ma di esseri pensanti, in grado di prendere decisioni.
Perché quella cacciatrice aveva bisogno di sua madre?
Harmony sostava dove c’era il suo nido.
Delle volte gli mancava Samuel, ma forse era meglio che fosse andato con Zack. Avrebbe vissuto una vita migliore.
Lui invece scrutava il cielo, aspettando quell’aquila di metallo che passasse.
Ma nel frattempo qualcosa successe.
Sentiva dei passi rompere il silenzio della montagna. Il fogliame ed il sottobosco distrutti dai passi di qualcuno.
Passi umili, passi innocenti, vogliosi solo di godersi lo spirito e l’aria della natura.
Un ragazzo, un giovane ragazzo, camminava con le mani nelle tasche dei pantaloni, mentre l’aria pungente gli passava tra i lunghi capelli, quelli di quello strano colore tendente al verde, coperti dal suo berretto bianco e nero.
Nella testa qualche pensiero strano, molta confusione, ed una strana ed inspiegabile felicità di essere in quel posto.
Gli alberi lo tranquillizzavano. La natura lo faceva stare bene.
Sistemò meglio i capelli, che tendevano sempre a finirgli davanti agli occhi verdi, quindi sospirò, continuando a camminare.
Uscì dal bosco, alla fine il tappeto di foglie, rami e terreno fece posto alla parete di una montagna.
Quello si fermò, ed alzò gli occhi. Sentiva che quella montagna era il nascondiglio di una grande sofferenza.
“Vieni” disse poi. “Di me puoi fidarti”. La voce di quello era soave, gentile, ma allo stesso tempo autoritaria e sicura.

Cosa vuoi?
 
“Voglio solamente parlarti. Sento che stai male, avverto la tua sofferenza, e voglio curarti dai tuoi mali”
 
Sono affetto da un male che non scompare
 
“Come mai lo dici?”
 
Perché il male è capitato davanti ai miei occhi, e si è impresso nella mia mente, come se fosse stato scolpito. Il male non può andare via così.
 
“Fatti vedere. So che hai fame, e qui ho qualcosa per te”
Quello bastò per vedere un’aquila gettarsi dalla parete della montagna, e librarsi dolcemente fino a poggiare le zampe per terra.
Gli artigli arpionarono il terreno umido.
“Ciao. Io mi chiamo N”

Io sono Harmony.
 
“Sei un Braviary bellissimo, e pieno di forza interiore. Ma anche pieno di rabbia”
La voglia di rivalsa che mi perseguita fa di me quello che sono.
N sospirò, e sorrise dolcemente. Levò lo zaino, ed affondò le mani, fino a cacciarne dei poffin.
Harmony non sapeva cosa fossero, ma, diffidente, li assaggiò dalle mani gentili di N.
La fame chiamava, lui rispondeva, ed N era un buon interlocutore.
In qualche modo il principe cercò di conquistare la fiducia di Harmony, e sembrò esserci riuscito.
 
Il pallido tramonto si manifestò stanco, quasi come se stesse facendo notare a tutti che il sole stava smontando da lavoro, e colorava di un rosso smorto i visi di Harmony ed N.
“Vuoi parlarmi di quello che ti è capitato?”
 
In realtà non vorrei. Non vorrei per niente ricordare quelle scene, ma più respiro e più ricordo che se lo faccio è grazie a mia madre.
 
“Tua madre ha fatto qualcosa di male?”. N voltò lo sguardo verso Harmony, quindi cercò con pazienza di attendere il verdetto, il risultato vano delle sue parole. Ma quello continuava a fissare il sole
 
Mia madre non avrebbe mai potuto fare niente di male. Ha messo al mondo me e Samuel, ci ha sfamato, ha lottato con tutte le sue forze per non morire e per far sì che non ci succedesse niente, ed anche quando stava per essere sconfitta dai cacciatori, si è allontanata dal nido, per tenerci protetti e al sicuro. Il problema non è mia madre. Niente di ciò che ha detto o ciò che ha fatto, no.
Il problema sono i cacciatori.
 
N deglutì un boccone amaro, quindi si chiese cosa sarebbe successo se la madre di Harmony fosse andata in casa di quel cacciatore ed avesse ucciso una persona.
No, non è la stessa cosa, per niente.
Non quando si tratta di difendere i diritti degli esseri umani. Gli umani possono tutto, questa terra è stata creata soltanto ed esclusivamente per loro, e sono loro a decidere se un’altra specie animale può o non può viverci.
“Mi spiace molto...eri già grande?”
 
Avevo poco più di un mese, N. Poco più di un mese. E non dimenticherò mai quelle immagini, quelle scene. Stampate, marchiate nel mio petto.
 
“Stai vivendo di vendetta”


Sì, può essere. Ma anche di rivalsa, di voglia di farmi sentire.
 
“Delle volte vendicarci di qualcosa di male che abbiamo subito può non essere la via giusta”


Le mie vene sono ricolme di sangue nero per l’odio. Devo liberarmi da questo peso, e vendicarmi. Uccidere il cacciatore.
 
“Harmony...se fai della tua vita un mezzo per l’odio e la vendetta non potrà che portarti verso l’autodistruzione. Non voglio convincerti di nulla, sei abbastanza giudizioso da poter andare avanti da solo, con le tue scelte. Ma presta bene attenzione a quello che ti dico. Ove mai, tu, un giorno, arrivassi a vedere nel cielo l’aquila di metallo, e ci piombassi a capofitto sopra, attaccandola, facendola schiantare ed ammazzando tutti i cacciatori che ci sono dentro, saresti felice?”
N guardò fisso il volto di Harmony, che indugiò guardando il sole.
 
Non sarei di certo felice, ma sarei libero dai pensieri.
 
“Ma questo non porterà di certo indietro tua madre”
 
No, non lo farà. Ma io devo far capire a quel cacciatore che ha sbagliato. E se non lo fermerò io, potrà fare lo stesso con qualche altro Pokémon, che non avrebbe la fortuna di essere catturato da un allenatore subito dopo.
 
“Cacciare i Pokémon è molto sbagliato. Per me è sbagliato anche catturarli, pensa te...”


In effetti se adesso ci fosse Samuel con me mi sentirei meno solo, e potrei stare con lui. Mi manca molto.
 
“Parlami di lui”
 
Non siamo stati molto assieme. Ma era un tipino nella norma. Dormiva quasi sempre, aveva spesso fame, ed era più serio di me. Ricordo che si impaurì molto quando vide la mamma, l’ultima volta. Io fermo immobile e lui irrequieto. Poi è venuto Zack e da lì abbiamo girato pagina.
 
“E perché Samuel è con Zack e tu no?”


Che avrebbe dovuto farsene di due Rufflet?
 
N sorrise, carezzandolo. Sentiva di voler bene a quell’aquila.
“Sei proprio sicuro, Harmony, che non ti sentirai in colpa una volta levato a dei bambini il padre, o la madre, ove mai esso sia un cacciatore?”
 
Lui ha pensato a me?
 
“No. Ma tu non sei lui. Tu sei tu”
 
Io sono io. E penso da me...grazie di tutto N, ma adesso devo andare. L’allenamento mi aspetta.
 
“Grazie della tua compagnia. Un giorno verrò a cercarti”
 
Grazie a te, e scusami se sono sembrato irragionevole. Anzi, mi ha fatto molto piacere parlare con te. Se questa vicenda finirà bene io sarò qui, ad aspettarti.
 
J guardava il suo orologio, continuava a farlo, convinta che prima o poi l’avrebbe fatto esplodere con il suo sguardo.
Alla sua parete le teste dei Pokémon catturati, di cui solo le pellicce erano state utilizzate. Un Tauros, uno Stantler ed un Ursaring.
Guardò la casella mail, ma niente di nuovo. L’ultima mail risaliva ad una commissione da parte di un agricoltore arricchitosi con la vendita delle bacche che cercava un Espeon.
I soldi fanno davvero male alle persone.
A lei invece avevano fatto bene. J aveva un ufficio davvero ben arredato, con i gusti minimalisti dei più alti designer. Aveva speso fior di quattrini, ma era felice di stare in quel posto.
Sentiva il suo ego smisurato trovare pace, affogato dalla luce delle lampade di vetro con luce bianca.
Per lei tutti i Pokémon che aveva catturato erano solo un buco in più da inserire nella cintura smisurata delle efferatezze di cui non le importava.
Mors tua vita mea, era questo il dettame che la portava a fare quello che faceva, e poco importava se quel “tua” era riferito alla madre di un numero indefinito di cuccioli, perché quella madre aveva potenzialità economiche assurde, e più raro era il Pokémon, maggiore era il guadagno.
Ma un Pokémon raro è raro, lo dice la parola, e levare la madre ad un Pokémon di una specie già rara di per sé non farà altro che impoverirla di esemplari.
J fissava lo schermo del pc, leggendo di improvvise migrazioni di Pokémon.
“Niente di interessante...”. Niente che poteva vendere al mercato nero.
Il telefono poi squillò, donando linfa a quel momento di vita spenta.
“Si?” chiese J, cercando di sembrare più professionale possibile.
“Parlo con J, la cacciatrice?”
“Chi la cerca?”
“Sono la duchessa Frida Von Mark”
“Ne è passato di tempo...”
“6 anni, cacciatrice. Spero che lei sia ancora in campo”
“Sempre in campo, duchessa”
“Beh, mi fa piacere. Se non altro mi sono trovata bene la prima volta, e non vedo perché cambiare. Il suo lavoro è stato impeccabile”
“Come sta il suo piumino?”
“Oh, bene. Di tanto in tanto lo indossavo, ma era quasi sempre mia figlia ad usarlo, giocando a fare la diva del cinema, con tanto di sigaretta tra le labbra”
J cercò di sembrare più divertita possibile, senza riuscirci. Odiava quei comportamenti forzati.
“Diceva?”
“Diceva che mia figlia di sei anni utilizzava il piumino fatto con le piume di quel Braviary, ma l’ha deteriorato tutto, ed io necessito di un piumino di piume di Braviary la settimana prossima, per un importante convegno. Lei conosce per sommi capi il mio mondo, quindi non le sto a spiegare, ma devo fare la mia figura, ed ho bisogno di un piumino fatto proprio con le piume di un Braviary”
“Quindi le serve un altro Braviary...certo, poteva prendere un appuntamento...”
“Oh beh, mi conosce, quindi ho preferito evitare il colloquio...e per il disturbo arrecato ci sarà anche un piccolo incentivo, vicino alla somma che lei mi dirà”
“Benissimo”
“Di quanto parliamo?”
“Cinquantamila”
“L’altra volta me lo fece pagare la metà...” fece, con tono quasi lamentoso, la duchessa.
“Ora è così. I Braviary stanno migrando, e per raggiungerli c’è bisogno di più tempo, quindi di più denaro. Dovrò acquistare del carburante per la navetta, pagare cibo e stipendi alla ciurma. Ma entro la settimana prossima avrà il suo piumino”
“Ci conto”
“La chiamo io”
 
Manca una parte al mio cuore, qualcosa che hanno tutti e che nessuno apprezza. I genitori sono qualcosa di prezioso. Io mio padre non l’ho mai conosciuto, ma sicuramente mi ci sarei affezionato tantissimo. E poi mia madre, che era il mio cuore, e stravedeva per me, è scomparsa, lasciandomi qui, a vegliare il cielo, in cerca di una speranza, a tentare di colmare il vuoto che la rabbia mi ha creato dentro.
Forse le parole di N vanno oltre il significato più ovvio. Forse c’è un significato più profondo nelle sue parole.
Mi manca la voce di N.
Mi diceva di riflettere. Di essere coscienzioso, di pensare al fatto che potrei fare a qualche cucciolo di umano la stessa cosa che è successa a me.
Lui poi vivrebbe con la voglia di vendicarsi di me...ma in questo modo la cosa non finirà mai.
La vendetta non è la strada giusta, N ha ragione.
Ma proprio adesso mi sto rendendo conto che non posso rilassarmi, né chiudere gli occhi, prima di aver sporcato i miei artigli di quel sangue.
Il sangue che calmerà la mia anima, e pulirà la mia coscienza.
 
“Capitano J, signora, siamo arrivati nella zona di cattura di Braviary. Ci mimetizziamo col territorio circostante per non farci individuare”
“Perfetto, Coulder...attendiamo in silenzio e pazientemente, prima o poi uscirà fuori”
Ma niente accadeva, e dopo tre ore passate a scrutare il cielo, girando i pollici, J si chiese se tutti i Braviary di quella zona non fossero morti sotto la neve di quei giorni.
 
Il freddo è terribile. Vorrei essere a dormire adesso, nel mio nido, tranquillo e caldo, coccolato da mamma e da Samuel, ma non posso. Devo vedere, guardare il cielo, controllare il passaggio dell’aquila di metallo.
Devo controllare l’aquila di metallo.
L’aquila...l’aquila di metallo.
L’aquila di metallo!
 
J non sopportava la neve. Le ricordava i momenti da bambina quando tutti fuori giocavano con la neve. C’era Ellie, la ricordava, Ellie Scott, che appena nevicava usciva fuori a giocare con i fratelli.
J avrebbe sempre voluto avere dei fratelli.
E poi subito dopo usciva il papà di Ellie Scott, e giocava con loro, lanciandosi le palle di neve.
J avrebbe sempre voluto avere un padre. O una madre, ma dal buio della sua stanzetta dell’orfanotrofio era in grado solo di vedere casa Scott, e casa Scott era come la casa delle pubblicità dove l’alito di chi si sveglia è fresco ed i capelli già pettinati.
La famiglia Cuore.
Odiava la neve. Sì, perché le faceva ricordare del fatto che non avesse una famiglia.
E questa cosa la stizziva, perché tutti bambini avevano una famiglia.
Tranne lei, ovviamente.
Quel giorno, di neve, ne stava cadendo proprio tanta. E la nave invisibile viaggiava a velocità di crociera tra le montagne, cercando di avvistare un Braviary da portare alla pretenziosa duchessa Frida von Mark.
Quella donna le stava antipatica fin sui capelli.
D’un tratto, mentre la neve scendeva lenta e copiosa, un urlo di aquila si espanse nella valle.
J spalancò gli occhi, quando poi sentì un tonfo sordo provenire dal soffitto dell’aeronave.
“Cosa succede?!” urlò a Coulder.
“Non lo so, capitano”
“Ho sentito il grido di un Braviary”
“È un Braviary, signora” disse uno dei macchinisti, indicando uno schermo. Questo schermo trasmetteva le immagini che una telecamera posizionata sul tetto acquisiva.
“È un Braviary cromatico! Salirò sopra, disattiva la mimetizzazione!”
 
Non so il motivo per cui l’aquila di metallo sia prima apparsa e poi sparita, ma non mi sono potuto lasciar perdere l’occasione. Probabilmente si sa mimetizzare, come i Keckleon, ma io devo riuscire a sconfiggerla! E non saranno questi raggi di luce a fermarmi!
Il cacciatore non sa che io ho vissuto con questo ricordo nella mia testa per tutta la vita!
Non sa che ho benissimo a mente le capacità dell’aquila di metallo!
Non sa che so tutto!
 
Una botola che portava sul tetto si aprì, e J mise piedi sulla superficie fredda e colma di neve. Il Braviary cromatico era lì davanti, a schivare i raggi laser, e quando la macchina andava i sovraccarico e doveva ricaricarsi per colpire con altri fasci di energia, Braviary usava Troppoforte su uno dei motori.
Come se sapesse già tutte le cose da fare, tutte le debolezze ed i punti nevralgici dell’aeronave.
“Fermati! Uccellaccio che non sei altro!” urlò J.
 
Fermarmi?! Tu non hai idea di quanto io sia lontano dal fermarmi!
 
I raggi laser continuavano a colpire l’aria, mentre Harmony volava valorosamente, riuscendo ad evitare i fendenti di luce. Quella luce che scottava.
J lo vedeva, mentre si librava nell’aria, con quella grazia inarrivabile, con l’eleganza e la voglia di guardarlo, portato anche dal fatto che avesse dei colori diversi.
J pensò che era il figlio di quel Braviary. Lo immaginò da piccolo, un Rufflet dorato, spaventato.
Ora era un Braviary blu, che stava tentando di affondare un’aeronave.
Quasi non avrebbe voluto catturarlo, J. Quasi avrebbe voluto tenerlo per sé, tra i suoi beneamati Pokémon cacciatori.
“Galvantula! Vai!”
 
Ora che hai mandato il ragnetto pensi che mi riuscirai a sconfiggere? Io i ragnetti li mangio!
 
“Galvantula, usa la tua ragnatela e cerchiamo di immobilizzarlo!”
 
Prova a prendermi!
 
E così Galvantula cercò di sparargli la ragnatela addosso. E nonostante non fosse un Pokémon lento, trovava enormi difficoltà anche solo nel mirare.
Harmony riusciva a schivare i laser con grazia, quindi attaccava con forza il motore di destra, ed intanto lottava contro Galvantula.
“Galvantula! Vai con Fulmine!”
E dalle nuvole di neve partì un enorme fulmine, che però non colpì Harmony, che intelligentemente si era nascosto sotto il motore che stava colpendo, posto sotto l’ala destra.
Quando il fulmine lo colpì, il sistema di equilibratura dell’aeronave si spense immediatamente, ed il veicolo aereo perse il bilanciamento, cominciando a girarsi sul proprio asse.
J si allarmò.
“Dannazione!”
In quel modo sarebbe caduta dal tetto della nave. Avrebbe dovuto volare con un suo Pokémon, ma aveva un Salamence, e non poteva utilizzarlo sotto la neve. Ipoteticamente, anche quel Braviary avrebbe dovuto risentire dello sforzo e del gelo, ma pareva non curarsene. Continuava ad attaccare con furia il motore di destra, che sembrava stare per cedere.
“Coulder! Fai qualcosa!” urlò J, più arrabbiata di sempre. “E tu Galvantula! Vai e catturalo nella tua ragnatela!”
 
È fredda la neve. La neve è troppo fredda, ma io devo continuare. Devo attaccarti, devo sconfiggerti, devo distruggerti. Devo fare in modo che tu veda la morte e che essa ti abbracci.
Devo sconfiggerti, perché sei un fantasma del mio passato.
E sono stanco di sentirti ridere nella mia testa.
Odio la neve. Si è incastrata tra le piume.
E mi fanno male le ali, il becco e gli artigli, per via degli attacchi sul motore, ma devo continuare. Non posso perdere quest’occasione.
Ma... ma questo odore io lo conosco. È quel dannatissimo Galvantula! Odio quel Pokémon!
 
Galvantula camminava senza alcun problema sulla superficie della nave resa gelida dal freddo, e molto agilmente arrivò verso Braviary.
Autonomamente, senza il bisogno dei comandi di J, prese ad attaccare Harmony, utilizzando Fulmine e Tuono, ma ciò non faceva altro che rallentare la fine di quella vicenda. Harmony era troppo veloce per lui, e tutti gli attacchi andavano a finire sul motore danneggiato.
Galvantula capì che avrebbe dovuto cambiare approccio, altrimenti non sarebbe riuscito a catturarlo.
Allora si avvicinò velocemente, cercando di immobilizzarlo con la ragnatela, ma Braviary si allontanò improvvisamente arrivando a distanza di sicurezza, circa tre metri dal ragno.
La navetta continuava a ruotare lentamente sul proprio asse, ora la rotazione aveva raggiunto i novanta gradi, e sembrava che Galvantula non avesse alcun problema a stare in equilibrio sul motore.
Harmony si era alzato in volo, ed un grosso tuono riempì le orecchie dell’aquila. La neve scendeva impetuosa, e Galvantula sembrava risentirne.
 
Attaccarlo...devo attaccarlo...
 
Prese a sbattere le ali nel modo più forte che poteva, fino a formare del vento. Era un attacco Raffica, ma lui non conosceva i nomi degli attacchi, li eseguiva e basta.
Galvantula si sforzava di rimanere saldo, su quel ferro scivoloso, mentre il vento e la neve lo investivano massicciamente.
 
Cadi! Dannazione, cadi!
 
Fendette l’aria con l’ala destra, ed una lama tagliente si abbattè su Galvantula.
Eterelama.
Quello perse la presa, sbattè contro l’aeronave e poi cadde giù, nel vuoto.
Se solo non fosse stato un ragno...
Sparò un filo, lungo sei metri, poi la situazione sembrava quasi stabilizzarsi. Galvantula appeso guardava Harmony.
 
Pensi di esserti salvato...non oggi...
 
Harmony partì veloce, e con un Attacco d’ala tagliò la doppia ragnatela del Pokémon della cacciatrice, per poi vederlo cadere nella valle, e schiantarsi.
Galvantula era morto.
Harmony ora non aveva più problemi, tranne che i laser, e tornò a distruggere il motore di destra.
 
Voi...dovete...morire...e i vostri figli soffriranno...come ho sofferto io!
 
L’ultimo attacco Troppoforte non bastò, perché Coulder, dalle sue spalle, lanciò una rete con un fucile enorme, che lo catturò.
Harmony urlava, con la rabbia che lo assaliva, e mentre veniva issato su da Coulder stesso, sentiva la voce di J, mentre rideva malignamente.
“L’abbiamo preso! L’abbiamo preso!”
 
Che tu sia maledetta! Io ti fermerò! Non farai più del male a nessuno!
 
Coulder lo aveva issato, e gli occhi di J e di Harmony si erano incontrati. Quelli dell’aquila parevano bruciare.
“Sei mio!” urlò la donna, leggermente sudata, impaurita e fiera.
Harmony continuava a gridare, e l’odio l’assalì così tanto che prese a sbattersi, a muoversi con ferocia, per liberarsi da quella rete. Quell’aquila blu non demordeva, afferrò le maglie della rete con gli artigli e col becco, e sbattendo le ali, in una danza di piume blu che volavano via stanche, stracciò quella rete resistentissima, e si avventò su Coulder, che inciampò, perdendo l’equilibrio, e si ritrovò a fluttuare nel vuoto, fino a diventare poltiglia sul duro manto nevoso del terreno.
 
Cacciatrice...ora sei solo mia!
 
Harmony si gettò con foga sulla cacciatrice. J sospirò. Quella giornata era durata troppo, e forse la sua vita anche.
Guardò giù, era un bel salto, ed in ogni caso non si sarebbe potuta salvare, perché, stupida lei, aveva lasciato le Pokéball giù, in coperta, credendo che una volta catturato, quel Braviary, sarebbe stato semplice sopraffarlo, ed immobilizzarlo.
Sbagliava, e fu quello il momento in cui si rese conto che l’uomo è sulla Terra per modificare, sfruttare e creare, ma la natura, grande padrona, lentamente si riprende tutto, e con gli interessi.
J decise che gli artigli di quel Braviary sarebbero stati troppo dolorosi per la sua morte.
Allargò le braccia, e prima che l’aquila potesse raggiungerla, si lasciò cadere giù dall’aeronave, in cerca di una nuova morte, stavolta definitiva.
 
Sta cadendo. E morirà...
 
Ma poi ad Harmony sovvennero le parole di N. Gli disse che se farà della sua vita un mezzo per l’odio, questo non potrà che portarlo all’autodistruzione.
Harmony si ravvide per un momento, capendo che quella che cadeva giù non era solo una persona cattiva, bensì anche qualcuno che aveva vissuto male la sua vita, ma che poteva cambiarla.
Si gettò quindi in picchiata, a capofitto, raggiungendo velocemente il corpo di J, che spalancò gli occhi quando sentì arpionare la propria tuta dagli artigli del Pokémon.
Lentamente la adagiò per terra, quindi Harmony dispiegò le ali, e guardò J negli occhi.
Quella piangeva.
“Tu...tu mi hai salvata...”
E all’improvviso un lento battito di mani riempì le orecchie. Era N, che sorrideva.
“Bravissimo Harmony”
“Harmony?!” esclamò J.
“Si. È il nome di quel Braviary”
“Questo Braviary è tuo?!”
“No. Questo Braviary non è di nessuno. La sua vita appartiene solo a lui”
J si alzò lentamente.
“E mi ha salvata...dopo che ho tentato di catturarlo...”
“Già...lui ti ha perdonata. Ma io non potrei mai. Ecco perché la polizia sarà qui a momenti, e ti arresterà”
J sospirò, ma in fondo sapeva che era giusto così.
 
Ciao mamma. Sono io, Harmony. Sono sicuro che mi senti, mentre ti parlo. Ora sono qui, nel nostro piccolo nido, che ho allargato, e fatto diventare più grande. Sai, ti penso sempre. Penso anche a Samuel, e spero che con Zack stia bene. Spero che viva la sua vita da campione.
Io l’ho fatto con la mia. Ho lottato contro i miei fantasmi, i nostri fantasmi, e li ho sconfitti.
Ed ora ho incontrato l’amore, ed ho dei cuccioli. Due Rufflet graziosissimi, ed uno di questi ha le penne dorate, proprio come me.
Ma io non li lascerò. Io starò con loro.
Proprio come te, quando stavi con me.
 
 
Ciao mamma, ti amo.

 
   
 
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