Fanfic su artisti musicali > Justin Bieber
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Autore: Japan_to_Peru    27/12/2013    6 recensioni
“Baciami!” gridò, avvicinandosi in fretta a me. “Vuoi farlo ingelosire o no?” tentò di convincermi.
Justin era lì, davanti a me, stava ballando con un'altra ragazza, ma continuava a fissarmi. In effetti, Ev aveva ragione, dovevo trovare un modo per mandarlo fuori di testa, non potevo continuare a soffrire per colpa sua, era il momento di fargli capire che la mia presenza non era scontata, non lo avrei aspettato per sempre.
“Ma lui sa che sei sposato!” strillai. Ero piena di dubbi, non ci riuscivo, non riuscivo a fargli del male.
“Non rompere, Jude.” Sbraitò Ev, appoggiando la sua mano sulla mia schiena ed appressandomi a lui. Stampò le sue labbra sulle mie e cominciò ad accarezzarmi il dorso.
Justin spalancò gli occhi e smise di ballare, il suo viso aveva acquisito un tono di tristezza, sembrava quasi che il mondo gli fosse caduto addosso. Cominciò a camminare verso di noi.
Evan avvicinò le sue labbra al mio collo e, fingendo di baciarlo, chiese “Che sta facendo?”
“Sta venendo qui.” Ribattei. Sicuramente mi avrebbe offesa, mi avrebbe odiata.
“Allora questa volta dobbiamo usare la lingua, ok?”
Genere: Erotico, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Justin Bieber, Pattie Malette
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Would you like to be my inspiration?
 
Capitolo 1- “Userai mai il mio nome?”
 
Mi sedetti sullo sgabello ed appoggiai le tempere sul tavolo vicino a me, ero pronta per disegnare e, in seguito, colorare il mio disegno. Avrei stupito tutti, sicuramente ognuno dei miei conoscenti avrebbe apprezzato quel dipinto. Avevo un problema, però: non sapevo cosa disegnare, non avevo la minima idea di chi potesse essere il soggetto del mio disegno.
Ero solita a rappresentare paesaggi, mi sedevo su una terrazza qualsiasi e, con un foglio ed una matita, riportavo ciò che vedevo, ma ormai avevo lo studio invaso di abbozzi tutti uguali: i panorami canadesi non erano molto differenti uno dall’altro.
Legai i miei lunghi capelli marroni per non sporcarli e tirai su le maniche, quasi come se mi fosse venuta in mente qualche fantastica idea. Se qualcuno mi avesse vista, in quel momento, si sarebbe aspettato di vedermi pitturare gioiosamente, magari con un sorriso sulle labbra. Non era così.
Io avevo un groviglio in testa, che nessuno era più in grado di sciogliere. Quando mi ero diplomata, mi ero sentita libera, aspettandomi di avere molto più tempo per me e i miei disegni, ma non era stato affatto così. I miei impegni erano dimezzati quanto la mia fantasia e io mi trovavo lì, ogni giorno, davanti a quella tela, senza alcuna idea.
Non c’era niente da fare, mi stavo solamente arrabbiando con me stessa, senza giungere ad alcuna conclusione. Se fossi rimasta lì, avrei cominciato a gridare da sola e, a causa dell’irritazione, avrei cominciato a buttare a terra i pennelli e la tavolozza. Era meglio andarsene.
Indossai la giacca ed uscii dallo studio, chiudendomi la porta alle spalle e cominciando a scendere le scale.
“Merda!” sentii qualcuno imprecare e mi voltai. Era Justin Bieber, veniva a provare da quelle parti, era un musicista d’eccezione. Spesso riuscivo ad udire le sue canzoni, che suonava con la chitarra o con il pianoforte. Mi rilassavano, a volte mi ispiravano, ma ultimamente neanche lui faceva musica.
Bieber era un ragazzo dai capelli biondicci e dal viso angelico, un viso che avrei continuato a guardare per ore intere. Aveva gli occhi marroni, non grandi, nella media. Il suo naso era rivolto all’insù e rendeva la sua espressione molto più dolce. Le sue labbra erano bellissime, erano rosee e carnose, a forma di cuore. Parevano così morbide. Indossava una giacca di pelle nera, slacciata, nonostante il freddo di Toronto. Portava i pantaloni dello stesso colore, tenuti troppo in basso. Ancora non riuscivo a capire l’utilità della sua cintura bianca, già che c’era, poteva stringerla poco di più e tenersi su quelle braghe!
Riuscivo ad intravedere la sua maglietta candida attraverso lo sbocco della giacca, non aveva alcuna scritta, alcun motivo, era semplice, un po’ come lui. Sì, lui era un ragazzo semplice, anche se non lo conoscevo molto, potevo dirlo. Quando, nel passato, non avevo avuto più spazio per i miei disegni, mi aveva permesso di portarli nel suo “rifugio”, senza alcuna esitazione. Alcune volte mi aveva portato il caffè, o il cappuccino, ma non ci eravamo mai immersi in un vero e proprio dialogo. Ci eravamo sempre fermai ai “Buongiorno” oppure, se volevamo esagerare, ci scambiavamo qualche “Che brutto tempo, oggi. Vorrei tanto andare in California.”
In quel momento, stava prendendo a calci la porta, convinto che nessuno lo stesse guardando. Sicuramente aveva qualche problema, ma non mi azzardavo a chiedergli cosa stesse succedendo.
 
“Buonasera, artista.” Lo salutai, richiamando la sua attenzione.
Si voltò con aria spaventata ed imbarazzata, certamente non si aspettava di vedermi. “Userai mai il mio nome, Jude?” domandò, stirando le sue labbra in un sorriso.
“E’ stata tanto cattiva?” scherzai, riferendomi alla porta.
Lui corrugò la fronte. “Cosa?” ribatté, non capendo la mia battuta.
“La porta.” Replicai. “Perché la prendi a pugni?” lo interrogai, facendolo sorridere.
“Io… Io sono un po’ arrabbiato.” Borbottò, passandosi la mano dietro alla testa. “Non riesco a suonare, non ho ispirazione.” Spiegò, scendendo i pochi scalini posti davanti alla porta ed avvicinandosi a me. “Tu come mai esci così presto? Non dovresti pasticciare le tue  tele?” ironizzò, provocando una risata da parte mia.
“Ultimamente non riesco a pasticciare le mie tele“ spiegai, cominciando a camminare.
“Quindi abbiamo lo stesso problema.” Parlottò, infilando le mani in tasca e seguendo i miei passi. Era incredibile, in quel momento mi accorsi di avere qualcosa in comune con lui. Anche io, se avessi potuto, avrei malmenato la porta a causa della rabbia, ma, ovviamente, dovevo contenermi, per evitare una brutta figura.
“Sembra una maledizione.” Mi lamentai, avvolgendo la mia morbida sciarpa di lana attorno al collo. Finalmente potevo spiegare a qualcuno quanto questa situazione fosse scocciante, lui mi capiva.
“E prima di dormire mi vengono in mente un sacco di idee, ma le dimentico tutte appena mi sveglio.” Chiarì, gesticolando con la mano sinistra, nella destra stringeva il manico della custodia della sua chitarra.
“Dovremmo solo trovare qualcuno a cui ispirarci, ma è così difficile.” Piagnucolai, mentre il mio viso diventava più triste.
Continuammo a manifestare i nostri sentimenti, con la fantastica consapevolezza di essere capiti, nonostante la diversità delle nostre passioni. Era la prima volta in cui parlavo con lui di un argomento così profondo ed importante per me.
“Facciamo una cosa, Jude. Domani andiamo al parco e cerchiamo un elemento di ispirazione.”  Propose, voltandosi verso di me ed osservando il mio volto.
“Perché al parco? Non c’è niente di così interessante.” Chiesi spiegazioni, strizzando gli occhi.
“Non lo so, potresti disegnare i bambini che giocano, oppure i loro fratelloni fichi…” rispose, vago, facendomi sogghignare ancora. Quel Bieber era proprio divertente.
“Io non disegno gente a caso!” esclamai, tirandogli un colpetto sulla spalla.
“Ok, potresti semplicemente provarci con uno di loro, innamorartici ed ecco la tua musa ispiratrice!” irrise nuovamente,  fermandosi in mezzo al marciapiede, in modo da enfatizzare il suo discorso. Aveva trovato il modo giusto per sdrammatizzare tutto, era un tipo allegro, mi piaceva.
 
Quando giungemmo davanti a casa mia, smisi di camminare. “Io abito qui.” Spiegai, sperando che non facesse i commenti sarcastici che si trovavano solitamente sulla lingua di tutti.
“Tu abiti qui?” chiese, spalancando la bocca. “Sei una riccona!” esagerò, poggiandosi la mano sulla fronte e fingendo di avere un malore.
“Non fare così!” esclamai, tra un’ilarità e l’altra. Quel ragazzo era completamente pazzo.
“Sei una di quelle che usa le banconote al posto della carta igienica? Oppure sei una principessa sotto protezione? Di quale stato?” perseverò. Come gli venivano tutte quelle idee in mente?
“Sono solo benestante.” Smentii, alzando lo sguardo e continuando a ridere mentre lui cercava altre storie improbabili su di me.
“Questa è una cosa che dicono i ricchi!” gridò, scoppiando a ridacchiare anche lui. Si voltò, poi, verso casa mia e notò che tutte le luci erano spente. Mia madre, probabilmente, non era ancora tornata dal lavoro, o forse era uscita.
Ecco, mia madre non era quel tipo di persona che si preoccupava, che aspettava la propria figlia quando tornava tardi o che la inseguiva per tutta casa quando la vedeva triste. Mia madre pretendeva da me la perfezione, voleva farmi camminare dritta, desiderava vedermi con i capelli legati in alto in modo da mettere bene in vista il mio viso e sperava, un giorno, di portarmi a vedere l’opera.
Insomma, mia madre voleva rendermi la vera e propria fotocopia di mia sorella, la tipica figlia perfetta. Fin da piccola  era stata educata a comportarsi come una signorina, a tenere la schiena dritta ed a sedersi composta a tavola. L’avevano fatta camminare con un libro sulla testa e l’avevano abbigliata come una bambola, con tanto di fiocchetto sulla testa.
Molto spesso era stata soggetta a prese in giro da parte dei suoi coetanei, ma a lei non importava, mia madre le aveva detto che lei era perfetta, quindi lei si sentiva perfetta.
Io, invece, ero solo una pittrice fallita, una ragazza stupida che aveva deciso di inseguire le proprie ambizioni e i propri sogni. Era una cosa dell’altro mondo, per loro.
Quando avevo confessato alla mia famiglia di avere l’intenzione di dedicarmi alla pittura, avevano storto il naso ed avevano chiesto “E come mai? Non ti pagano neanche! Che cosa stupida.”
E sì, proprio come aveva detto Bieber, eravamo talmente ricchi da poter usare le banconote al posto della carta igienica, con tutti i nostri soldi avremmo potuto sfamare l’intera città Toronto.
Ma i miei erano egoisti, egoisti da star male.
“Vivi in questa casa da sola?” domandò, corrugando la fronte.
“No, no.” Contraddissi. “C’è anche mia madre.” Spiegai, grattandomi la testa. “Vieni a prendere qualcosa da bere?” proposi.
“No, grazie. E’ tardi.” Rifiutò, appoggiandosi al palo della luce
Camminai verso casa, mentre Justin continuava a guardarmi. Giunsi alla cancellata e tirai fuori il mazzo di chiavi dalla tasca, infilandone una di esse nella serratura.
“Allora, domani alle otto?” chiese conferma per la visita la parco.
“Certo.” Confermai, aprendo il portone, ma voltandomi di nuovo verso di lui. “Sei sicuro di non volere una cioccolata calda?” insistetti, ricevendo di nuovo una risposta negativa.
 
“Notte, Jude.” Mi salutò. Dal suo viso notai che, per una volta, sperava di essere chiamato per nome.
“Notte, musicista.” Replicai, mentre fingeva di essere deluso.
“Userai mai il mio nome?”  domandò per la millesima volta.
“Magari, un giorno.” Farfugliai, entrando in casa e rivolgendogli il saluto con la mano.
Percorsi le scale color panna ed accedei in camera mia, l’unico posto dove mi sentivo realmente a mio agio. La mia camera era il mio rifugio, un luogo dove potevo restare anche tutto il giorno, senza mai annoiarmi.
Era praticamente vuota, c'era solo il mio letto, una scrivania ed alcuni scaffali in cui lasciavo i miei libri preferiti. Gli altri, quelli che non mi erano piaciuti, erano nello sgabuzzino, al terzo piano.
Le pareti della mia stanza erano invase da poster, foto, oppure avevo lasciato lo spazio per alcuni murales fatti da me.
Mi cambiai ed indossai una tuta, per stare un po’ più comoda. Scesi di nuovo giù e mi recai in cucina, improvvisando una cena-flash, giusto per sfamarmi un po’.
Poi, soliti passaggi, mi feci una doccia, mi lavai i denti e mi infilai nel letto, prendendo un libro e cominciando a leggere fino ad addormentarmi con quest’ultimo sul viso. Succedevano sempre i stessi fatti, perché per mia madre era troppo complicato avvicinarsi a me, sedersi sul mio letto e chiedermi come fosse andata la mia giornata. Per me, invece, era troppo strano correre da lei e parlarle della mia vita privata.
 
Tin, tin, tin.
La sveglia stava già suonando, dovevo alzarmi. Levai il libro dal viso e cominciai a sfregarmi gli occhi. Sospirai ed allargai le braccia, cominciando a stiracchiarmi.
Buttai le coperte giù dal letto e tirai su le spalle, in modo da rimanere seduta. Appoggiai i piedi nudi sul parquet e rimasi ferma alcuni secondi, per poi alzarmi e cominciare a camminare avanti e indietro per la stanza, senza alcun motivo o schema preciso.
Mi avvicinai alla finestra e tirai un po’ la tenda, la luce invase subito le pareti bianche e infastidì i miei occhi. Li chiusi istintivamente.
Dopo alcuni secondi, presi coraggio e li riaprii. Mi accorsi della figura di un ragazzo biondiccio che stava aspettando qualcuno in mezzo alla strada. Sbattei le palpebre, in modo da rendere nitida la figura che volevo immortalare nella mia testa: quello era Bieber.
Che ci faceva lì? Non aveva detto alle otto? Erano solo le sette!
Scesi in fretta le scale e mia madre mi assalì immediatamente. “Chi è quel ragazzo? Perché è davanti a casa nostra? Ah, Jude, perché i ragazzi che ti corrono dietro devono venire qui? Sei sempre un disastro!” imprecò, tutto d’un fiato.
“Fai silenzio.” La zittii arrabbiata, aprendo la porta e guardando Justin. Perché era già lì?
Appena mi vide, sorrise. “Scusami, sono un po’ in anticipo.” Si scusò, restando lontano.
“Mi preparo e arrivo subito, ok?” promisi, correndo a prepararmi in fretta.
 
-Ciao ragazze! Come state? Spero bene.
Questa è la mia nuova storia, mi auguro che vi piaccia.
Justin in questa storia non è famoso, perché ho preferito mettere in risalto la sua passione per la musica e non il suo successo.
Per quanto riguarda Jude, io la immaginavo così
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Se volete contattarmi, per qualsiasi cosa, mi trovate qui http://ask.fm/KejsiJ
Mi auguro che vi piaccia questa  fanfiction.
Se volete, lasciatemi un vostro parere, ovviamente è gradito.
Grazie mille per aver letto questo primo capitolo!
  
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