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Autore: Lady Stormborn    28/12/2013    1 recensioni
"Lane non poteva più sopportare tutto questo.
C'erano giorni in cui la voglia di chiudere con tutto e di sparire era così forte che si trovava con le chiavi di casa in mano, non sapendo nemmeno come, pronta a fuggire."
Terza classificata per il contest "Ritorno all'infanzia" indetto da Frantasy94 sul forum di EFP
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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NOME SU EFP: Lady Stormborn

NOME SUL FORUM: Lady Stormborn

TITOLO DELLA STORIA: Onore in sette note

RATING: Verde

PACCHETTO: 3 di “Mulan”

 

 

Capitolo 1

Portare onore alla famiglia

 

 

Lane non poteva più sopportare tutto questo.

C'erano giorni in cui la voglia di chiudere con tutto e di sparire era così forte che si trovava con le chiavi di casa in mano, non sapendo nemmeno come, pronta a fuggire.

Le pressioni; i continui consigli spassionati di sua madre riguardo quello che avrebbe o non avrebbe dovuto fare; il senso di smarrimento di fronte a quel dovere, che ormai sembrava essere divenuto un obbligo, di rendere onore alla famiglia.

Di portare un cognome pieno di onori e di oneri lei, però, non lo aveva mai chiesto. Il destino l'aveva voluta lì, in quella casa dove, certo, l'amore non mancava, ma la necessità di portare avanti il buon nome della famiglia era più forte di tutto, anche dei propri sogni.

In pochi possono sapere cosa vuol dire vivere dei propri sogni fin da bambina e poi trovarsi, a diciassette anni, a scoprire che tutto era stato già programmato, che tutti, tranne te, sapevano che il tuo futuro era già stato disegnato dai tuoi genitori e dal cognome che porti.

Lane voleva vivere di musica, di quella Lei che era stata compagna di tanti momenti nel passato e che era il suo presente e il suo futuro. Non aveva in mente nient'altro per sé che non fosse fare musica; andare di città in città portando la propria arte nel mondo, facendo appassionare a Lei le persone che l'avrebbero ascoltata e, sperava, apprezzata.

Questo però non era il suo destino.

“È facile sognare, non ti costa niente,” diceva spesso suo padre quando la sentiva fantasticare di un mondo pieno di scintillii nel quale avrebbe potuto dare libero sfogo alla sua passione; già in quel momento, però, aveva scelto qualcosa di diverso per lei, mentre la sentiva suonare orgoglioso del suo talento, di quelle piccole dita che si muovevano veloci sui tasti del pianoforte, aveva deciso chi doveva essere, con chi avrebbe dovuto passare il resto dei suoi giorni e quale ruolo ricoprire nella società.

Non c'era modo di uscirne, se non uno, ma qualcosa, fino a quel momento, l'aveva trattenuta dallo scappare: forse i discorsi di suo padre sul portare onore alla propria famiglia l'avevano convinta che non avrebbe potuto combattere contro questo, contro l'odio dei suoi genitori che, nel bene e nel male, avevano sempre pensato di detenere la verità assoluta su ciò che era meglio per lei, non capendo.

In quel momento però, sapeva che la scelta era tra se stessa e i suoi genitori, tra l'amore per sé e quello che loro provavano per lei; insomma, avrebbe perso tutto.

Camminava lungo il viale alberato che univa la zona nuova della città, dove persone come i suoi genitori, abbienti e con un buon nome, avevano costruito le proprie case nel corso dei vent'anni precedenti e la zona povera dove in realtà non vivevano i reietti della città, ma solamente coloro che non potevano permettersi le grandi ville bianche in stile liberty dove viveva lei da quando era bambina. C'erano alcune famiglie nella zona più antica della città che venivano definite i nuovi perché stavano, in quel momento, affrontando una scalata sociale tale per cui, in poco tempo, si sarebbero potuti permettere le belle case della zona nuova, entrando di diritto tra coloro i quali in quella città contavano, divenendo parte integrante della casta.

Come si può intuire queste famiglie erano parecchio mal viste da quelle che già avevano acquisito quella posizione, soprattutto da quella di Lane che tra le vecchie generazioni di ricconi che si era trasferita nella parte est della città erano quella più ricca e titolata. I suoi, infatti, non sapevano e non avrebbero mai saputo delle sue escursioni al di là di quelli che per loro erano i confini naturali tra noi e loro; se non avesse avuto un reale motivo per muoversi non avrebbe rischiato di creare ulteriori attriti con i suoi genitori, ma il suo motivo più che valido esisteva e aveva un nome e un cognome: Simon Connor Lake. I Lake erano una di quelle famiglie che si stavano guadagnando a grandi passi il loro posto all'interno della gerarchia della città e, tra i nuovi erano dai suoi genitori i più osteggiati proprio perché erano riusciti a guadagnarsi ciò che avevano senza chiedere favori e lavorando sodo. Delle altre famiglie, bene o male, riuscivano sempre a trovare una pecca così da poter giudicare in modo sprezzante la loro salita al potere e non sentirsi messi all'angolo, ma con i Lake questo non era stato mai possibile perché erano puliti, senza una sola macchia di favoritismo o raccomandazione che fosse.

Così, ogni volta che si muoveva per quel lungo viale sapeva di dover prendere in considerazione la possibilità che i suoi scoprissero la sua amicizia con il minore dei Lake e che ci sarebbero state delle conseguenze per questo. Da quando però, per l'ultimo anno di liceo, i suoi genitori avevano deciso di assumere un'insegnante privato che la preparasse per le migliori università, quello era diventato un rischio che doveva correre altrimenti la conseguenza sarebbe stata non vedere più Simon e questo non era nei piani.

“Signorina, dove sta andando?”.

Stava ancora camminando, guardando dritta di fronte a sé, sovrappensiero, quando la voce di Simon la bloccò sul posto; girandosi lo vide seduto su una panchina a lato della strada, proprio sotto ad un albero che stava cominciando ad arrossire per l'autunno ormai alle porte. La brezza di quella mattina gli sconvolgeva i capelli scuri rendendolo più sbarazzino ed accentuando, in un qualche strano modo, il suo sorriso giovane e i suoi occhi sempre luminosi.

“Mio padre mi ha insegnato a non parlare con gli sconosciuti, signore.” Lo prese in giro, non perdendo tempo prima di avvicinarsi velocemente alla panchina.

“Tuo padre ti ha insegnato tantissime stupidaggini, raggio di sole.” La voce di Simon era sempre calda e distesa, scherzosa tanto che spesso Lane non riusciva a capire se stesse parlando seriamente oppure prendendola in giro.

C'era sempre stato qualcosa che l'aveva attratta in Simon: non sapeva se fossero i suoi modi diretti, la sua vena ironica, oppure quel modo tutto suo di sorprenderla con complimenti inaspettati seguiti da battute al vetriolo che però rimanevano semplicemente dei moti di spirito senza diventare offensivi.

“Possiamo non parlare ancora di mio padre?” Chiese sprezzante mentre si sedeva al fianco del suo migliore amico. Avevano discusso così tante volte della sua situazione in famiglia, di tutto quello a cui avrebbe dovuto rinunciare una volta che si fosse trasferita in chissà quale città per frequentare l'università migliore alla quale sarebbe stata ammessa. Nei suoi occhi c'era la supplica di non trovarsi a discutere di nuovo perché ogni volta non solo l'idea di non poter fare ciò che avrebbe voluto la uccideva, ma anche il fatto che, inevitabilmente, avrebbe dovuto abbandonare Simon.

“Non parliamone, è okay. Sai che però non potrai ignorare il problema per sempre”.

Giusta osservazione.

Non avrebbe davvero potuto rimandare ad oltranza quella situazione; il problema era che ribadire sempre gli stessi concetti quando non riusciva a trovare una via d'uscita la rendeva sempre più frustrata e sempre meno decisa a combattere per avere ciò che voleva. Sapere di non avere una possibilità la distruggeva, l'aveva sempre distrutta da quando aveva saputo che non avrebbe potuto fare di Lei, della musica, il suo destino.

“Perché non parliamo mai dei tuoi genitori?” La domanda nacque naturale di fronte alla fastidiosa sensazione che le stava nascendo dentro di essere sola a dover affrontare un mondo ostile fatto di onore e rispetto delle regole. “Sembra che siano i parenti perfetti.” L'ultima frase viene leggermente scemata da un colpo di vento che smuove i capelli scuri di Lane lasciati liberi, come sempre, anche se sua madre avrebbe sempre voluto vederli legati in un elegante crocchia o in uno chignon alto. Simon rimase qualche secondo in silenzio tanto che Lane stava per ripetergli quell'aggiunta coperta dal vento che l'amico poteva non avere sentito; subito dopo però rispose bloccando le labbra di Lane, che stava per rimettersi a parlare, in una leggera smorfia.

“Sono ben lontani dall'essere i genitori perfetti, ma io non sono te.” Lane si muosse scomoda sulla panchina a quella che sembra quasi un'accusa nei suoi confronti.

“Cosa intendi?” Chiese con tono aspro allontanandosi quasi istintivamente da Simon che intuì subito il modo sbagliato in cui Lane aveva preso la sua frase, leggendolo in quei profondi occhi scuri che aveva sempre considerato fin troppo trasparenti.

“Intendo che io non me ne starò qui: scapperò”.

Il sorriso fiero di Simon contrastava con gli occhi sconvolti di Lane. Scappare? Come poteva scappare quando lì c'era lei, sola con la sua musica e due genitori che erano sempre più degli estranei?

Si sentì tradita in quel momento, abbandonata dall'unica persona che era in grado di capirla davvero. Non voleva credere che Simon avesse preso una decisione simile e senza nemmeno consultarla, senza renderla partecipe del suo piano.

“C'è una compagnia di musicisti fuori città che parte domani per la Francia e mi voglio unire a loro. Fanno Jazz sai e sono bravissimi e-”.

Lane lo bloccò con un gesto secco della mano. “Tu te ne andrai e non mi hai nemmeno detto nulla. Cosa diavolo ti passa nella testa?” l'aria si era fatta improvvisamente più densa, la tensione era tangibile e tutto ciò che Lane poteva leggere negli occhi di Simon era l'improvviso dispiacere per non averla messa al corrente anche se, la sua parte razionale, sapeva che doveva aver avuto un motivo più che valido per tenerla lontana da quella decisione il più possibile.

“Scusa,” sussurrò colpevole alzandosi in piedi subito dopo per pararsi di fronte all'amica, “non volevo non dirtelo, ma non mi andava nemmeno di immischiarti in questa cosa: non posso metterti contro i tuoi genitori; qui si rischia grosso.” Il suo tono divenne quasi cospiratorio sulle ultime parole, come se invece che scappare per la musica stesse fuggendo per andare a fare il ladro o qualcosa di simile. A quel punto un po' della rabbia di Lane sfumò per lasciare spazio alla curiosità. Molte volte avevano sognato di scappare, insieme, e vivere di Lei sperando, un giorno, di poterla portare in giro per il mondo. Avevano fantasticato così tante volte su questo eppure Simon era sempre stato restio a partire, con i piedi per terra molto più di Lane. Cosa gli aveva fatto cambiare idea?

Glielo chiese senza attendere oltre, dimostrandogli tutto il proprio dissenso verso il fatto che non l'aveva avvertita, che non aveva condiviso con lei questa scelta.

“Sinceramente credo che tu non sia pronta: lo sai che ci toccherà vivere come dei fuggiaschi perché i nostri genitori ci cercheranno ovunque per riportarci sulla retta via?” Le ultime due parole vennero ironizzate con un gesto di virgolette e le sopracciglia alzate al cielo. Quella faccia fece immediatamente ridacchiare Lane che però decise di non distrarsi dalla questione principale.

“Pensi che, ogni volta che parlavamo della nostra fuga, io non abbia messo in conto che sarebbe stato complicato? Fidati, non sono così stupida da pensare che avremmo dormito in hotel a cinque stelle se fossimo scappati”.

“È tutto molto più complicato di così: hai idea di cosa faranno i tuoi per riportarti a casa Lane?”.

Lane sbuffò profondamente infastidita. “è una battaglia che voglio combattere Simon e la dovevamo combattere insieme; se ora sei contrario alla mia partenza bene, ti seguirò e combatterò con te e per te”.

Gli occhi di Simon si spalancarono impressionati.

Sapeva quanto Lane teneva a tutto questo, quanto tutte quelle ore passate al pianoforte a casa non erano solo uno sfogo, un passatempo, ma una vera e propria scuola che la stava preparando per quello che, per quanto li riguardava, sarebbe successo inevitabilmente. Non si aspettava però di vederla prendersela a quel modo per il fatto di non essere stata inclusa in quella strana comitiva di musicisti squattrinati in cerca di successo.

Soprattutto non aveva mai creduto di essere così importante per lei al punto da voler combattere per lui, rischiare solo per dimostrargli che era la donna forte e sicura che aveva sempre immaginato.

Leggendo tutto questo stupore nel suo sguardo Lane si imbarazzò quasi immediatamente cominciando a balbettare senza senso fino a quando, divertito, non fu Simon a bloccarla e a parlare.

“Va bene, ma solo se te la senti. Non posso lasciartelo fare sapendo che non ne sei sicura: sarà pericoloso, devi saperlo”.

Il sorriso di Lane però sembrò tranquillizzarlo improvvisamente. “Comunque non pensare che mi dimenticherò che hai organizzato di andartene senza dirmelo.” Il suo tono era scherzoso quindi Simon scoppiò in una sonora risata non prendendosela per quella piccola accusa; era ovvio che, dopo tutto il tempo che ne avevano parlato, le desse fastidio non essere stata avvisata della sua partenza, ma ora che le aveva detto perché sembrava a Lane tutto molto più limpido.

“Smettila di fare l'offesa o ti mollo qui.” La prese in giro, muovendo qualche passo verso di lei per poi stringerla senza darle il tempo di replicare.

Lane subito sentì il vento spingere verso il suo naso l'odore dolce del profumo di Simon; le sue braccia forti la tenevano stretta e sapeva che quello era l'unico modo per sentirsi bene, per sentirsi a casa. Non si sarebbe mai staccata da quell'abbraccio, ma dopo qualche secondo sentì Simon muoversi per allontanarsi da lei e così, a malincuore, lo lasciò andare.

Pensava di non essere innamorata di lui, ne era quasi certa, contrariamente a quello che molti avrebbero potuto pensare se li avessero visti, se avessero notato i loro sguardi pieni d'affetto, ma erano solamente molto, troppo, amici, quasi due fratelli per il modo inquietante in cui si capivano e si supportavano a vicenda, sempre.

“Antipatico,” lo rimproverò sorridendo, “comunque devi dirmi qualcosa: quando, come, chi sono questi tizi, dove andiamo ...”.

“Vediamo,” cominciò a spiegare rimettendosi seduto sulla panchina, “partiamo domani mattina all'alba così che in giro non ci sia nessuno; loro hanno un furgoncino con il quale hanno girato il mondo e quindi useremo quello anche noi; loro sono una band jazz di cinque elementi e, per ora, la nostra prima tappa è la Francia”.

“Francia? Ma non è lontanissima?”.

Simon sorrise a quella constatazione. “Lane, non abbiamo limiti la fuori: andremo dove ci pare, gireremo il mondo, faremo musica e tutto quello che vorremo sarà a portata di mano perché saremo liberi di prendercelo senza costrizioni sociali che ci dicano chi dobbiamo essere.” Il suo spontaneo ottimismo fece sorridere Lane che si sentì un po' più rassicurata riguardo quell'avventura. “Lasceremo ovviamente un messaggio ai nostri genitori per spiegare la situazione e possiamo ritirare quello che abbiamo nei nostri conti per il futuro così avremo anche qualche soldo per mantenerci finché non troviamo un lavoretto qui e lì”.

Il Conto per il futuro, Lane non aveva mai pensato a toccare quei soldi messi da parte dai suoi genitori per quelle che sarebbero state le sue spese future. Risparmiavano da quando era bambina quindi dovevano essere un bel po' di soldi a quel punto e sì, quale miglior modo di usarli se non quello; in fondo era del suo futuro che stava parlando e per quello che li stava impiegando.

“Va bene, facciamolo.” Confermò decisa alzandosi in piedi, pronta per tornare a casa e preparare la sua borsa dove avrebbe messo l'essenziale per poter partire l'indomani.

“Sì!” Urlò entusiasta Simon e corse di nuovo ad abbracciarla, ma questa volta non si staccò così in fretta e anche quando riprese a parlare continuò a tenerla stretta. “Ero così triste all'idea di lasciarti qui.” Sussurrò contro il suo orecchio e le guance di Lane improvvisamente si arrossarono imbarazzate, ma anche contente di quel commento che gli ricordava quanto Simon fosse capace di un affetto immenso nei suoi confronti. Ogni volta che pensava a come sarebbe stata la sua vita senza di lui si immaginava un enorme stanza, senza uscite, dove, sola e desolata, provava a sopravvivere a tutto quello che poteva accaderle.

“Non mi avresti lasciata qui.” Soffia contro il suo orecchio dolcemente.

“No, non lo avrei fatto”.

Lane fu piacevolmente soddisfatta di quella risposta: di solito Simon non si sbilanciava in frasi del genere, che dimostrassero in maniera aperta ciò che provavano l'uno per l'altra, ma a volte, quando meno se lo aspettava, c'erano quei momenti che gli facevano mettere in discussione tutto ciò che credeva sul suo cuore di pietra. “E allora meno male che alla fine me lo hai detto, così possiamo partire entrambi.” Annunciò allontanandosi dall'amico con uno sguardo felice.

Simon semplicemente annuì soddisfatto: per giorni aveva pensato a come dire a Lane di quella partenza improvvisa, ma era andata meglio di quanto pensasse.

“Corri a casa adesso, prepara quello che ti ho det-”.

“Sì, lo so,” sbuffò scocciata, “due righe scritte per mamma e papà e una piccola borsa con le mie cose dentro per viaggiare”.

Simon sorrise divertito prima di allontanarsi definitivamente da lei e lasciarla andare; Lane si finse offesa ancora per poco prima di sorridere anch'essa: la situazione era surreale, ma sembrava si stesse avverando tutto ciò che aveva sempre desiderato.

Quando, dopo un lunga sequela di saluti, Simon si allontanò correndo, Lane prese a camminare di nuovo verso casa sua visto che, il sole che calava all'orizzonte stava provando che il suo coprifuoco stava per scattare e i suoi genitori non dovevano insospettirsi di nulla.

 

Un'ora dopo era di nuovo in camera sua, china sul foglio, a scrivere qualcosa di folle che potesse far capire ai suoi genitori le sue motivazioni riguardo la partenza. Sapeva che nessuno di loro avrebbe mai capito, ma sperava solo che non ci stessero troppo male e che, un giorno forse non molto lontano sarebbe potuta tornare a casa come una donna di successo, che aveva realizzato il suo sogno e che li potesse rendere orgogliosi, ripagandoli così del profondo dispiacere che sapeva gli avrebbe creato.

In realtà, quelli che stavano cenando nella camera affianco, non sembravano più nemmeno i genitori premurosi che l'avevano cresciuta, quelli interessati solo al suo benessere, ma sembravano più dei generali, pronti a tutto per insegnare alla propria figlia l'arte della guerra come se fosse l'unico modo per difendersi nel mondo. Non sapeva, a questo punto, neanche se si sarebbero spaventati di fronte alla sua fuga, se avessero provato quel giusto timore genitoriale che fa sentire un figlio un po' soffocato, ma anche molto amato.

Comunque, con un leggero scossone della testa, smise di pensarci perché quando tutto questo sarebbe successo lei ormai sarebbe stata lontana e quindi non lo avrebbe mai saputo; poteva solamente sperare che un giorno le cose sarebbero cambiate in meglio anche da quel punto di vista.

Lasciò cadere la penna lentamente sulla propria scrivania; il foglio bianco era ormai riempito in bella calligrafia di parole sbrigative per spiegare che cosa era successo, ma anche piene d'affetto, per quanto in quel momento potesse provarne per i suoi genitori.

Diede una lettura veloce, assolutamente inutile, prima di richiudere la lettera piegandola in quattro rettangoli identici; il giorno successivo, non vedendola scendere, sarebbero saliti in camera e l'avrebbero trovata lì, sul suo letto e forse già in quel momento avrebbero capito.

Si alzò dalla sedia e, con gesti ormai consueti, si mise il pigiama pronta per sdraiarsi nel letto, sì perché quella notte non sarebbe riuscita a dormire; spostò con un veloce colpo della mano i capelli incastrati nel colletto del suo completo da notte caldo e accogliente e si mise supina prendendo a fissare con aria smarrita il soffitto bianco della sua elegante stanza, totalmente impersonale.

L'avevano arredata i suoi genitori, secondo lo stile che più si adattava al resto della casa: pareti bianche e mobili in legno pregiato che davano quel tocco di inarrivabile ai vicini quando venivano a fargli visita. Non ci aveva mai messo nulla all'interno, non aveva mai potuto arredarla con qualcosa che la rendesse più vissuta, più sua; una volta aveva provato a mettere un poster, ma sua madre l'aveva rimproverata facendole presente quanto avevano speso di arredatore per renderla perfetta. Da quel giorno aveva rinunciato ad ogni ammodernamento; tutto ciò che si era permessa di inserire nella propria camera senza chiedere il permesso era stato il suo pianoforte che aveva fatto portare appositamente lì, come se il suo compito, oltre a quello di suonare fosse anche quello di riempire il vuoto che in quella stanza diventava metafora della sua vita.

Sul soffitto bianco che, dopo alcuni minuti, era ancora intenta ad osservare cominciarono a formarsi le immagini di quegli anni, come fosse un pannello in cui ogni istante stava venendo proiettato: c'era la prima volta che suo padre gli aveva fatto vedere come si suonava il piano; c'era il suo decimo compleanno dove si era sentita felice come mai nella sua vita; c'era anche la prima volta in cui aveva capito che non avrebbe potuto vivere suonando e cantando e quello faceva male, troppo male. Si costrinse a scuotere la testa come se servisse a scacciare i pensieri e a non lasciarsi prendere di nuovo dallo sconforto.

“Lane, posso?” La voce di sua madre seguì un colpo secco contro la porta della sua camera. Non aveva voglia di vedere i suoi genitori quella sera, ma non poteva di certo obbligarla a non entrare.

“Sì, vieni.” La invitò quindi con un filo di voce tanto che, finché non vide la porta aprirsi, non fu nemmeno sicura che avesse sentito.

La donna entrò con passo leggero, ma sicuro; i capelli erano ancora legati in una elegante crocchia e non si erano scomposti minimamente da quella mattina; i vestiti eleganti che indossava erano segno del fatto che stesse uscendo, probabilmente con il marito per andare a qualche serata organizzata da chissà quale club esclusivo.

Per quella volta, contrariamente a quella che era il consueto modo di reagire di Lane, la ragazza decise di voltarsi verso la madre guardandola in un chiaro segno di richiesta per sapere cosa stesse succedendo.

“Io e tuo padre usciamo.” Come volevasi dimostrare era tutto esattamente come sempre; subito dopo Lane decise di tornare a fissare il soffitto noncurante. “Pensi di potermi almeno degnare di uno sguardo?”.

“Mamma, perché dovrei darmi tanta pena? Cosa c'è di nuovo?”.

“C'è di nuovo,” cominciò a spiegare sua madre visibilmente spazientita, “che volevo sapere se ti andava di venire con noi: potresti imparare qualcosa dei modi di comportarsi tra la gente civile, per esempio”.

Quel commento fece sentire Lane solo più arrabbiata: era solita sentire sua madre discutere con lei per i modi in cui si comportava, troppo rozzi a suo parere e sicuramente non quelli che avrebbe dovuto avere una giovane donna che faceva parte dell'alta società; in quel momento però, consapevole di cosa sarebbe accaduto poche ore dopo, si sentì più nervosa e arrabbiata del solito, quasi come se sua madre si dovesse accorgere del fatto che qualcosa non andava in lei e agire di conseguenza. Era ovvio che questo non sarebbe mai successo sia perché non le leggeva nella mente, sia perché non c'era modo che sua madre abbandonasse le sue convinzioni su come una ragazza dovesse vivere per poter essere rispettabile.

“No, grazie, non ci tengo”.

La donna non chiese e non proseguì la discussione oltre, semplicemente voltò le spalle e cominciò a camminare verso la porta; solo quando ormai la mano elegante era sulla maniglia decise di voltarsi per aggiungere un ultimo rimprovero: “Tu porti disonore alla nostra famiglia Lane, tu non hai rispetto per quello che io e tuo padre facciamo per te. Con tutto quello che hai avuto, e che hai, quello che dovresti fare è rispettarci”.

Detto questo sparì velocemente oltre la porta, chiudendola stizzita.

L'ultimo suono che Lane sentì distintamente fu quello dei suoi tacchi che picchiavano sul marmo delle scale che congiungevano l'entrata con il primo piano. Sua madre era uscita di casa e, in quel momento, si rese conto di come, simbolicamente, fosse uscita anche dalla sua vita.

Il mattino dopo non avrebbe più avuto nulla di tutto questo da pensare, solo la sua vita da vivere, eppure sentiva qualcosa, un piccolo dolore lancinante ogni volta che le ultime parole di sua madre le scoppiavano nella testa.

Una piccola lacrima cominciò a rigarle il viso, lentamente.

 

 

Nda.

 

Innanzi tutto grazie a voi che siete arrivati fino a qui.

Detto questo, la storia nasce da un contest a cui sto partecipando sul forum di EFP che ha come filo conduttore i film d'animazione della nostra infanzia e come si può dire di no ad un contest del genere?

I Film che ho scelto come spunto sono Mulan e Gli Aristogatti (ho preso spunto da entrambi i film anche se la mia storia verrà valutata solo per quanto riguarda l'attinenza con quello di Mulan), le canzoni tratte dai film che devo tenere in considerazione sono Per lei mi batterò; Tutti quanti voglion fare il Jazz; Romeo er mejo del Colosseo (vi ho lasciato i link in fondo).

Per quanto riguarda questo capitolo i temi tratti dal film di Mulan sono sicuramente l'onore e il rispetto per la propria famiglia e quello che dovrebbe essere il proprio ruolo all'interno della società e il fatto che la mia protagonista, un po' come Mulan, non sia proprio adatta a questo ruolo e voglia altro. In particolare ho deciso poi di usare il senso del Lei della canzone in un altro modo: da una parte gli ho dato il significato originale del combattere del protagonista in questo caso per un ragazzo (“[...] ti seguirò e combatterò con te e per te”) e dall'altra ho cambiato il destinatario di questa lotta ossia la Lei che per Lane è la musica. Anche dettagli come la lettera lasciata ai genitori per non farli preoccupare è presa dal film di Mulan.

Per quanto riguarda invece gli Aristogatti sono ispirati al film sicuramente i cinque musicisti per ora anonimi, ma anche Romeo di cui c'è un po' nel personaggio di Simon, nella sua voglia di evasione che lo porta a voler scappare per non avere regole (tutti tratti da parti della canzone Romeo er mejo del Colosseo). La meta, ovviamente, è tratta dal film mentre la questione della passione della musica e in particolare del Jazz sono tratte della canzone che mi è stata indicata.

Non ho mai scritto una nota d'autore tanto lunga e me ne scuso, ma soprattutto per chi non sapeva nulla del contest e si è trovato a leggere questo capitolo mi sembrava doveroso; la prossima nota sarà mooolto meno folta e più piena di ringraziamenti a tutti!

Spero vogliate dare un'occasione a questa storia!

 

Link alle canzoni:

Tutti quanti voglion fare il Jazz https://www.youtube.com/watch?v=YaFPhh7tZxQ

Romeo er mejo del Colosseo https://www.youtube.com/watch?v=BWzKMJ4nXdo

Per lei mi batterò https://www.youtube.com/watch?v=nlHJM-okjRI
 

 

   
 
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