Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |      
Autore: WibblyWobbly    31/12/2013    3 recensioni
Nei suoi sogni, John inizia a rincorrere Sherlock. Non sa come nè perchè. Sa solo che ogni volta si trova a dover vivere una vita diversa alla ricerca di quel pezzo che ora nella sua vita sembra mancare.
"E' come se vivessi tante vite, in tanti luoghi. Nasco, vivo, corro. E ogni volta c'è Sherlock, ogni volta io lo cerco. Ancora e ancora e ancora. Mi sembra di essere a cercarlo ovunque, in ogni momento."
Genere: Avventura, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Perché questa cosa? Perché adesso? Eh.
Diciamo che è un’idea che mi frullava in testa già da tempo e non mi andava di lasciarla in un cassetto. A primo acchito potrebbe sembrare una cosa vagamente simile alla bellissima “Will you come with me tonight? When you like and where you like” di Rosieposie77, anche perché basata sulla stessa bellissima fanart. Tuttavia, dopo una chiacchierata con questa meravigliosa autrice abbiamo appurato che sono due storie completamente diverse con un’idea di base molto simile ma fondamentalmente (e strutturalmente) differenti sotto ogni punto di vista: plot, climax, universi ecc.
Vi lascio il link della fanart, ma per ora preferisco non svelarvi quali saranno gli universi e le storie che andrò effettivamente ad utilizzare…

Il titolo è tratto dal canone, una bellissima citazione di Sherlock a proposito di John, verso la fine del racconto “L’ultimo saluto”. Mentre la citazione nella descrizione della storia vuole essere un semplicissimo omaggio alla settima stagione di Doctor Who (la storia di Clara e di “questo” particolare John è molto, molto diversa)

Beh, credo sia tutto. Chiudo ringraziando ancora Rosieposie77 e la sua gentilezza e ribadendo che i personaggi non sono miei, ma appartengono al caro zio Conan Doyle e che il tutto è senza scopo di lucro… ma lo sapete già.
 
 
Buona lettura e buon inizio anno della S3 di Sherlock DOMANI. *___*


 
 
 
 
I numeri color cremisi della sveglia analogica sul comodino, segnavano le 04:45 del mattino. Sbuffò.
Aveva visto quegli stessi numeri indicare diversi orari, le 02:24 o le 03:07 e perfino le 04:17, ma oltre a quello tutto sembrava essersi arreso a quella strana quiete che, pensava il dottore, l’appartamento non aveva mai sperimentato in quegli ultimi, intensi, anni di vita.
Se ne stava nel letto, John, fingendo che un sottile strato di coperte di fine primavera potesse nasconderlo agli occhi del mondo. Da giorni ormai, quel senso familiare di confusione che prende appena svegli non sembrava volerlo graziare, ad ulteriore riprova che le poche ore di sonno che riusciva a concedersi non erano appaganti né tantomeno ristoratrici.
Quel senso di vuoto all’altezza del cuore non lo abbandonava mai, come fosse un memento perpetuo di quello che era stato e che non c’era più. Un buco nero che s’allargava progressivamente e che non gli permetteva di pensare a quello che era accaduto. Sembrava voler concentrarsi su dettagli che prima forse non avrebbe mai notato: il suono del suo respiro, una macchina solitaria, l’abbaiare di un cane in lontananza e - se prestava particolare attenzione - perfino il ritmico cadere di una goccia da un qualche tubo da riparare chissà dove nell’appartamento.
Con un altro sbuffo allontanò da se le coperte e si mise a sedere sul bordo del letto. Il sonno non sarebbe arrivato, lo sapeva bene, tanto valeva alzarsi e impegnarsi in qualche modo. Si domandò come gli sarebbe stato possibile arrivare alla fine di quella particolare giornata, mentre passandosi le mani sulle braccia cercava di scacciar via la pelle d’oca che l’impatto con l’aria fredda gli aveva provocato.

Scese le scale con lentezza, muovendosi nell’oscurità come solo chi conosce molto bene il luogo in cui si trova sa fare. In cucina preparò il bollitore, cercando di non prestare molta attenzione al microscopio bianco che dal tavolo sembrava guardarlo con condiscendenza e anche un po’ di pietà.
Mentre l’acqua bolliva si diresse in bagno e si rimproverò mentalmente quando il suo sguardo si posò – in parte inconsciamente, in parte volontariamente – sulla porta chiusa della camera di Sherlock. Come se qualcosa potesse accadere da un momento all’altro: un’imprecazione, un’esplosione… qualsiasi cosa che gli dimostrasse che il suo migliore amico non fosse altro che dall’altra parte di quel legno, nascosto ai suoi occhi perché semplicemente in un’altra stanza e non in una fredda bara di mogano.
A quel pensiero scosse la testa come a scacciarlo ed entrò nel bagno richiudendosi con decisione la porta alle spalle. Svuotò la vescica mentre cercava di abituare gli occhi alla luce forte del neon asettico che si rifletteva sulle mattonelle bianche e verdi della stanza.
Si avvicinò poi al lavandino e dopo aver lavato le mani si sciacquò il viso; rimase per qualche istante ad osservare la sua immagine riflessa nello specchio, soffermandosi su gli occhi rossi e stanchi, le rughe d’espressione sempre più marcate, la ruvidezza della barba non curata da almeno due giorni e le profonde occhiaie.
Uscire dal bagno e non soffermarsi a guardare la porta vicina fu molto più facile. Perso nei suoi pensieri, prese due tazze e preparò il thè. Si accorse del suo errore solo quando, nell’oscurità più totale, le aveva poggiate, fumanti, sul tavolino accanto al camino e alle due poltrone.
Si strinse nella veste da camera che indossava, colto da un brivido improvviso e si accomodò alla sua poltrona. Non aveva acceso alcuna luce perché che senso aveva? Non c’era nessuno che spendeva ore ed ore al microscopio senza curarsi del passare del tempo; nessuno che restava a vagare ore nel proprio palazzo mentale e che una volta uscito si sarebbe trovato al buio. Nessuno, pensò John.
Rimase così per un bel po’, perso nei suoi pensieri e a torturarsi il mignolo della mano sinistra che da qualche giorno aveva preso a dargli fastidio; completamente dimentico del thè che lentamente andava raffreddandosi.

Qualche ora dopo si ritrovò seduto sul bordo del letto, in boxer, con la barba fatta e i capelli ancora umidi dalla doccia. La signora Hudson era salita poco prima delle nove a ricordargli che l’auto sarebbe passata a prenderli intorno alle dieci e che doveva iniziare a prepararsi.

Partecipare a quella farsa, come John definiva la cerimonia nella sua testa, era l’ultimo dei suoi desideri. Se il suo migliore amico avesse potuto vederli, pensava, li avrebbe sicuramente rimbrottatati per il loro essere così emotivi. Così umani.
E poi c’era Mycroft, il pragmatico Mycroft, che con il suo zelo aveva predisposto e programmato ogni cosa, anche il più piccolo dettaglio. Con il suo attivarsi aveva impedito all’ex soldato anche solo di partecipare all’organizzazione della cerimonia funebre. A pensarci bene, non gli era stato dato nemmeno il tempo di vedere il corpo o di parlare con i medici di turno al pronto soccorso. Forse era stato meglio così, ma ciò non gli impediva di considerare Mycroft Holmes l’ultima persona al mondo a cui voleva pensare, figuriamoci incontrare. Per John, quel che restava dei fratelli Holmes era da considerarsi in larga parte responsabile della morte di Sherlock. E l’unica consolazione era il pensiero che probabilmente, in ultima istanza, egli era schiacciato dai sensi di colpa almeno quanto John stesso.
Iniziò a vestirsi con lentezza, pensando veramente a nulla. Il senso di vuoto, il buco nero, che avvertiva all’altezza del cuore si dimenava come una bestia in cattività. Calzini, camicia bianca, pantaloni neri, scarpe. Si sistemò la cravatta davanti allo specchio, cercando di non provare pietà per la figura che questo gli rifletteva.
Venti minuti dopo, la signora Hudson – vestita di nero e con gli occhi carichi di affetto e tristezza – lo aspettava all’ingresso; in strada, una macchina dai vetri oscurati attendeva paziente.
Il tragitto fu silenzioso e a John sembrava non finire mai. Londra scorreva al di là dei finestrini, frenetica e iperattiva come sempre, del tutto insensibile all’assenza di uno dei suoi uomini migliori.
“Avanti, John. Va tutto bene.” Gli disse la signora Hudson quando, scesi dall’auto, lui le aveva offerto il braccio per imboccare il vialetto che portava all’ingresso della piccola chiesa. Se fosse stato un altro, John avrebbe guardato con più attenzione l’elegante carro funebre vuoto– per destino o forse no – parcheggiato in attesa poco oltre i cancelli d’entrata.

All’entrata della chiesa furono accolti dal tono professionale di una donna in completo nero che subito gli andò incontro: “Dottor Watson, signora Hudson… per volere del signor Holmes la cerimonia si svolgerà all’esterno, permettetemi di indicarvi la strada. Da questa parte, prego.”
La donna li guidò attraverso il cimitero della piccola chiesa; in fondo, sotto una grande quercia, una bara lucente era stata adagiata su un letto di gigli bianchi. “Tipico di quel pomposo,” borbottò John tra se e se, mentre fissava con sguardo obliquo altri uomini dello staff che davano gli ultimi ritocchi alla predisposizione delle sedie.
Nonostante l’incombente cerimonia avesse tutta l’aria di essere strettamente privata, John faticava a riconoscere la stragrande maggioranza delle poche persone presenti. Oltre alla signora Hudson, osservò John, le uniche facce familiari erano quelle di Molly – stretta in un cappotto nero a torturare un fazzolettino e piangendo sommessamente come se fosse la diretta responsabile di quanto accaduto –  Lestrade – che aveva preferito distaccarsi e rimanere lontano, pieno di sensi di colpa – e da qualche parte forse fin’anche Anderson, ma non avrebbe potuto giurarci e preferiva pensare che non ci fosse, piuttosto che andarlo a cercare e picchiarlo come aveva sempre desiderato fare. Non era giusto, non quel giorno.
“Signora Hudson, John…” la voce del maggiore degli Holmes li raggiunse alle spalle.
“Oh, Mycroft…” disse la signora non appena si trovarono faccia a faccia, “ma guardati, sei così pallido,” aggiunse poi separandosi da John per poter lasciare una carezza sul viso stanco di Mycroft.
“Mycroft,” salutò invece John, laconico.
“Signora, posso chiederle di accomodarsi accanto alla signorina Hooper? Sembra inconsolabile e in più…” spostò lo sguardo verso John “ho bisogno di presentare una persona al dottor Watson.”

Fu così che qualche minuto più tardi John, con sguardo sospettoso, si ritrovò a dover seguire Mycroft tra le  sedie di legno scuro – sistemate in fila di tre – cercando di racimolare dentro di se gli ultimi scampoli di forza che l’aiutasse a non guardare in direzione della bara e soprattutto non mandare tutti al diavolo.
In breve raggiunsero la prima fila. Una donna era seduta sulla sedia centrale, i capelli argentati raccolti ordinatamente e lo sguardo e l’attenzione fissi unicamente sulla bara di mogano poco distante.
Si voltò solo quando Mycroft le sfiorò la spalla sinistra. Aveva un aspetto molto più giovane di quanto John avesse immaginato guardandola di spalle e un’espressione davvero triste anche se composta: una vera donna inglese.
Il maggiore degli Holmes si sporse inconsciamente verso di lei, mantenendo leggera la mano sulla spalla della donna. “Mamma, lui è John,” disse abbassando leggermente il tono della voce. Si voltò poi in direzione del dottore, continuando: “John, questa è mia madre: Violet Holmes.”
In quel momento John incontrò per la prima volta gli occhi della donna e quasi gli mancò il respiro.
Erano gli occhi di Sherlock.
“Sa, quand’era piccolo gli piaceva immaginare di essere un pirata.” Disse Violet una volta soli; con un gesto aveva invitato il dottore ad accomodarsi accanto a lei, “correva avanti e indietro per tutta la casa, saltando da un divano all’altro,” il tono era lieve, lo sguardo in direzione della grande foto di Sherlock posta accanto alla bara e la mente persa nei ricordi. “Si fermava solo per dirci ‘Arrendetevi o vi farò a pezzettini!’ oh, se l’avesse visto, John,” concluse sorridendo tristemente a quel ricordo evocato.
E John avvertì una stretta al cuore: riusciva proprio a immaginarselo, Sherlock, a saltare da un divano all’altro brandendo magari anche un piccola spada.
Fu riportato alla realtà dagli occhi lucidi dell’anziana signora, voltatasi a guardarlo. “Sherlock ha sempre avuto difficoltà ad inserirsi, nessuno ha mai cercato di guardare oltre la barriera che si era costruito…” fece una pausa “nessuno tranne lei. Lei è diverso e ora che l’ho incontrata capisco il perché.”
La voce della signora Holmes, rotta dalle lacrime, gli ricordò prepotentemente la sua ultima conversazione con Sherlock. John avrebbe voluto farle mille domande e allo stesso tempo darle quel conforto che tanto cercava per se stesso, ma l’unica cosa che riuscì a dire fu: “Io non gliel’ho mai detto. Era il mio migliore amico e non gliel’ho mai detto. Pensavo di avere tutto il tempo del mondo e ora non avrò mai più l’occasione di spiegarglielo. Di dirgli che gli devo tantissimo… non lo saprà mai.”
Lo sguardo di Violet Holmes si addolcì, trasmettendo al dottore un calore che non sentiva da tempo. “Oh, caro, non può cambiare il filo della storia…” la donna fece una breve pausa allungando delicatamente una mano fino a poggiarla sulla spalla dell’altro; solo quando iniziò a ritrarla altrettanto lentamente John potè vedere la mano di Violet tenere un piccolo filo di cotone rosso. “Sono sicura che Sherlock sapesse, a volte non c’è bisogno delle parole. A proposito, John,” aggiunse prendendogli la mano sinistra con delicatezza, stando bene attenta a non irritare ulteriormente il mignolo visibilmente arrossato del dottore, “non perda il filo. I fili sono importanti.”
John la guardò per un attimo perplesso ma prima che potesse dire qualsiasi cosa, la donna si voltò nuovamente a guardare in direzione della grande foto posta accanto alla bara; dagli occhi le era sfuggita una lacrima e senza lasciare la mano sinistra di John, disse con un sospiro: “Le andrebbe di restare seduto accanto a me?”
E il dottore sentì che non c’era altra cosa da dire se non “Sì, naturalmente.”

***

“Bentornato nella tua cella d’isolamento, dottor Watson.” Disse John richiudendosi la porta d’ingresso alle spalle. Ignorò l’interruttore e con gesti lenti si tolse cappotto e giacca del vestito che abbandonò con non curanza sulla sua poltrona. Allentandosi la cravatta andò a sedersi sul divano, i gomiti poggiati alle ginocchia mentre cercava di mettere a fuoco la stanza nell’oscurità. Proprio non notò il piccolo filo di cotone rosso fare capolino da una delle tasche del cappotto poco distante.
Stanco, si passò le mani sul viso.
“E adesso io che faccio, Sherlock? Che faccio?” Disse all’oscurità della stanza, senza aspettarsi veramente una risposta. Con un sospirò si stese appoggiando la testa sul bracciolo del divano. “Devo andarmene da qui.” Decise alla fine con un braccio sugli occhi. Il mignolo della mano sinistra bruciava.

Contrariamente alle sue aspettative, John si addormentò quasi subito, stremato dalla lunga giornata appena passata. Non poteva proprio sapere che si sarebbe risvegliato nel 1883.
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: WibblyWobbly