THE SILENCE IN BETWEEN
(what I thought and what I said)
You are the hole in my head
You are the space in my bed
You are the silence in between what I thought
And what I said
You are the night time fear
You are the morning
When it’s clear
When, it’s over you’re the start
You’re my head
You’re my heart.
(( No Light No Light – Florence and the Machine
))
-- PROLOGO -
Per
un istante, i suoi occhi sembrarono brillare.
Quella
trascendente vitalità puerile conosciuta con il nome di curiosità aveva illuminato il visetto pallido di un chiarore nuovo,
rigoglioso come l’aria in primavera.
E
non solo.
Quando
il suono della sua domanda assunse valore semantico alle orecchie dei presenti,
tutti, persino la gatta, ne subirono l’impatto.
Ci mise poco ad accorgersene, ed altrettanto poco ci mise il suo orgoglio ad
ingigantire il senso di soddisfazione che riuscì a ricavarne.
Sorrise.
Sorrise e non gli restò che godersi lo spettacolo di avere gli occhi dell’intera tavola di
commensali puntati sulla sua piccola figura, sino ad allora rimasta discretamente
in ombra.
Deluderlo?
Oh
no. Non lo avrebbero mai fatto!
Se
non la madre o il padre, Sherlock era certo che suo fratello non si sarebbe mai
lasciato sfuggire una simile occasione per accogliere con sincero entusiasmo la
sua uscita.
Non
dinnanzi al preside della Saint Anthony School, illustre
ospite giunto quella sera con consorte a casa Holmes per festeggiare la recente
proclamazione di Mycroft a presidente del consiglio
studentesco.
Senza ombra di dubbio, suo fratello
ne avrebbe lodato la perspicacia e l’intuito.
Avrebbe
ammirato l’ineccepibilità di quelle contorsioni dialettiche con cui suo
fratello minore - ai tempi, il suo prezioso
fiore all’occhiello - aveva dato forma alle parole e le aveva fatte librare
sulle loro teste, leggere e trasparenti. Così trasparenti che solo un’idiota
avrebbe potuto fraintenderne il senso.
E
la famiglia Holmes, di idioti, non ne contava neppure tra la servitù.
...peccato.
Davvero,
un grande, grande peccato.
Il
silenzio che si abbatté sulla sala sembrò essere sceso con il preciso intento
di far udire distintamente un suono: quello di un cuore che si ferma.
Il
piccolo boccone di arrosto che Violet Holmes si
accingeva a consumare, non raggiunse mai la bocca.
La
forchetta tra le sue dita rimase bloccata a metà strada, come se improvvisamente
il suo cervello non ricordasse quale fosse il passo successivo da compiere. E nel
dubbio, retrocesse e terminò la sua dignitosa epifania sul bordo ceramico del
piatto.
Siger Holmes,
dal canto suo, ci mise tutta la buona volontà del mondo per non soffocare nel
vino che aveva appena ingoiato.
Non
era il caso di menzionare i due ospiti. Rimanere impietriti con la mente
azzerata era quanto di più banale ci si potesse aspettare da chi assiste per la
prima volta allo spettacolo della sua mente.
Quelle
reazioni potevano ancora essere ascritte
sotto il termine di ‘norma’. Non fu diverso quando, durante l’ultimo pranzo di
Natale, dimostrò di esser perfettamente consapevole dei nobili tentativi di zia
Agnes di salvaguardare la specie umana in collaborazione con il giardiniere
irlandese, malgrado gli impegni di lavoro costringessero lo zio Quillish lontano da casa.
A
scardinare qualsiasi equilibrio, fu suo fratello;
Il
suo viso. Dio, Mycroft fu un’autentica rivelazione.
Nessun
indizio avrebbe lasciato presagire che, in un passato non troppo remoto, all’interno
di quel volto, avesse fluito del sangue.
Ogni
singolo capillare si era prosciugato, e Sherlock si domandava quale formula
erroneamente pronunciata avesse avuto il potere di ridurre suo fratello,
quindici anni e mezzo, in quello stato.
La
sua bocca si era increspata in una smorfia così profonda, che se il suo viso
avesse continuato a contorcersi in quel
modo, gli angoli delle labbra avrebbero finito per sfiorare il pavimento e Mycroft avrebbe assunto un aspetto mostruoso.
Che orrore, Mycroft!
Che orrore!
Qualcosa
era andato storto e, riconoscerlo, sancì la condanna a morte senza possibilità
di appello di quell’entusiasmo che poco prima aveva acceso le sue piccole
membra.
Rimase
in quello stato per alcuni istanti, Mycroft.
Rimase
in quello stato sino al sopraggiungere del movimento rotatorio degli occhi
della madre.
Lo guardò senza voltare la testa. Ed il
sangue tornò a circolare ristabilendo il suo dominio.
Più agguerrito che mai.
E
simili a stelle al mattino, le lentiggini che ricoprivano il suo viso si
offuscarono fino a sparire completamente sotto la coltre di intenso rossore che
invase il suo bel viso paffuto.
Occhi
lucidi e sbarrati. Spalle irrigidite quasi a dimezzare la propria dimensione
corporea.
Se la vergogna avesse voluto un volto, quello di Mycroft
in quegli istanti non poteva che essere la scelta migliore.
“Mycroft.“
Sibilò stordita la madre, sfuggendo ai
commenti meteorologici cui si erano rifugiati i suoi ospiti.
Ma
non rispose, Mycroft.
Egli
chinò semplicemente il viso, asciugò le labbra con fare elegante e poi, scansando con i polpacci la sedia dal
tavolo, si alzò.
Si alzò. E come un marchio rovente, tutta la crudeltà
racchiusa nel suo gesto si impresse in Sherlock.
Il suo hard disk non cancellò nulla. Non addolcì niente.
C’era qualcosa di profondamente sbagliato
nella figura di spalle che rigida, si avviava verso la porta.
Ma quel qualcosa non trovava collocazione in
nessuna stanza del suo Mental Palace, quindi finiva
lì: nel pozzo.
Quel luogo buio concentrava al suo interno l’incatalogabile. Appiccicosa
immondizia di una mente che non riusciva a disfarsene, Sherlock quel luogo non
l’ aveva creato, né tantomeno lo aveva desiderato.
Esisteva sin da quando la sua memoria storica
aveva avuto inizio e si era scelto da sé, che ruolo rivestire: Ingoiava e
disperdeva dentro sé tutto ciò che la sua mente non era riuscita a trasformare
in ragione.
In nessun caso, la densa oscurità di cui era
gonfio, si sarebbe lasciata scalfire da quella obbiettività distaccata di cui
andava tanto fiero.
E di scoprire i misteri in esso contenuti,
puntualmente, rinunciava.
“Perché
lo hai fatto!?”
Fissando
la porta di ingresso il cui eco della serratura non si era ancora del tutto
dissolto, i coniugi Holmes erano stati colti dalla stessa sensazione di
smarrimento che si prova ad osservare un bicchiere accidentalmente scivolato a
terra.
Intercorrono sempre un paio di secondi tra la caduta ed il momento in cui si ci
prepara a ripulire il tutto, ma in pochi se ne accorgono.
Per
cui, lo schiaffo di sua madre in pieno viso sopraggiunse con un ritardo, in
fondo, prevedibile.
Sherlock
non emise alcun suono. Né un gemito, né altro.
Togliendo i secondi in cui chiuse gli occhi, si può dire rimase immobile,
completamente impassibile.
Come
se il viso offeso non fosse il stato il suo.
Per
emulazione, le labbra si serrarono quasi quanto le mani di lei contro le
braccia.
“Perché
hai fatto una cosa del genere a tuo fratello!?”
Lontanissima
da qualsiasi forma di decoro, la mamma si accasciò a terra contorta dalle
lacrime.
Erano le ventitré e quindici, e non vi erano più ospiti da abbagliare, né
scomode rivelazioni da sminuire.
Era
rimasta sola con i suoi pensieri adesso sguinzagliati, e poteva reagire come meglio
avrebbe preferito.
In
tutta quella disperazione, Sherlock riusciva quasi a trovare un tocco di
riconoscenza.
Era
per Mycroft, che era stato maturo abbastanza da
attendere che la cena volgesse al termine, prima di uscire dalla sua camera con
uno zaino sulle spalle, e chiudere dietro di sé la grande porta di casa con una
dignità surreale, spiazzante.
“Perché
hai detto una cosa così—“
Violet
strinse gli occhi, scosse la testa un paio di volte. “....così orribile, Sherlock!?”
Sherlock
continuò a passare in rassegna milioni di informazioni, rivoltò il tuo Mental Palace con la furia di un tornado. Guardò in ogni stanza, in ogni angolo, in
ogni cassetto della mappa mentale.
Ma
nulla ai suoi occhi rendeva quella
serata più comprensibile.
Mycroft stava
bene.
La
sua non era una fuga particolarmente ambiziosa. Poteva a mala a pena
considerarsi una fuga.
Dieci
secondi d’orologio dopo il commiato, Siger Holmes, in
soggiorno, aveva già delicatamente scostato la tenda dalla finestra e si
assicurava che il maggiore dei suoi figli venisse ricevuto con garbo dai Wilkens, storici dirimpettai abituati alla presenza di Mycroft.
Dunque
perché?...
Perché
la madre piangeva? Perché il padre lasciò ricadere la tenda al suo posto, tirò
un profondo respiro con il naso, e si lasciò scivolare nuovamente sulla sua
poltrona, rimescolando nervosamente il vino nel suo calice?
Mycroft, e le
sue parole: i due soli indizi a disposizione.
Due
punti focali della sua vita adesso, eccezionalmente, inconciliabili.
Lo
aveva scandagliato da cima a fondo, quel Mental
Palace. Davvero.
Mancava solo il pozzo, ma…
“Non
dovevi dire una cosa del genere a tuo fratello. Dovevi stare zitto!”
Zitto.
“Dovevi stare zitto!”
Una
sbirciatina veloce.
Piccola
piccola.
Rimirarlo dall’alto con odio quasi
reverenziale era l’unica cosa che gli era concessa: l’assenza di scale faceva
valutare bene i rischi di tuffarsi al suo interno. Ma quella
sera, il diabolico entusiasmo da cui era governato fu sufficiente per far
passare quell’assenza in secondo piano.
---
Plick
Plick.
Pensandoci
bene, non si era mai soffermato sulla morte in passato.
Non
sulla propria, per lo meno.
Vi
erano almeno un centinaio di quesiti più urgenti su cui arrovellarsi, piuttosto che sbocconcellare ancora un
argomento
a cui era stata data risposta esaustiva già da duemila e trecento anni.
«Quando
noi viviamo la morte non c'è. Quando c'è lei, non ci siamo noi. »
La
geniale mente di Epicuro non avrebbe potuto partorire nulla di più completo ed
esaustivo.
Dopo
aver sfiorato le ruvide pagine delle Lettere
sulla felicità a Meneceo, addentrarsi in
qualsiasi altra speculazione al riguardo, divenne pressoché superfluo.
Le
preoccupazioni di tutti i giorni, le magagne che richiedono uno sforzo mentale
immediato, son già così tante che, nei rari momenti liberi a sua disposizione
l’ultima cosa che avrebbe fatto, sarebbe stato sprecare il suo tempo in vane
elucubrazioni che non avrebbero portato a nulla di nuovo.
Nulla
che non sapesse già.
E’
la vita, che lo preoccupa. Non la morte.
Non
esiste sistema di sicurezza al mondo più affidabile che una bara ermeticamente
chiusa e sepolta nel terreno.
Niente
documenti da far sparire, niente file da distruggere.
L’intangibilità
acquisibile attraverso il trapasso è assoluta, totale.
C’è
forse una ragione valida per cui preoccuparsi?
Plick.
Plick.
L’incredibile
leggerezza verso il tema non l’aveva mai portato a pensare come sarebbe stato il vestibolo dell’inferno.
Per
la verità, non aveva mai pensato a priori che ci fosse, un vestibolo.
C’è
chi sostiene si veda una luce, chi invece pensa si veda la propria vita passare
davanti agli occhi.
Egli
invece, non coltivava alcuna teoria personale, al riguardo. Non sosteneva
proprio niente.
Per
questo, forse quando quei soffi presero a levarsi dinnanzi ai suoi occhi a
ritmo più o meno costante, ne rimase deluso.
Si
aspettava meno frivolezza, un’atmosfera più austera e una evanescenza
sofisticata per un momento così…
Invece,
la morte per lui fu soltanto vapore.
Vapore.
Vapore.
E
ancora, vapore.
Plick.
Oh,
lo sapeva. Lo sapeva bene.
Qualcosa
non aveva ancora smesso di ricordargli quanto deprecabile e sconveniente possa essere uscire di scena al
momento meno opportuno.
A
farlo non era soltanto la fastidiosa goccia di condensa che ad intervalli
regolari cadeva dritta sulla sua guancia.
C’era
dell’altro.
Plick.
Aveva
un nome e un cognome, quella cosa.
Doveva
averlo per forza; che la sua mente fosse ancora in grado di ricordarlo o meno,
era irrilevante.
Una
sensazione passeggera da sola non arriva a boicottare il processo di
spegnimento di un corpo a cui non è
rimasto quasi più sangue da spingere nelle vene.
Martellava
il suo cuore a cadenza serrata e continua, battendone il ritmo che, per quanto
fuori luogo, gli garantiva la sopravvivenza per un tempo non ben determinato.
Verosimilmente
il suo cervello gli aveva ordinato di smettere già da un po’, ma per un motivo
che non era più in grado di discernere, esso aveva disubbidito.
Fu
pressoché istintivo, riconoscere in quell’atto di illogica insubordinazione un
ché di familiare.
Un
ché di…svantaggioso.
Perché resistere a quella comoda oscurità ovattata era diventato via via sempre più difficile, e l’operato di quell’astruso sentimentalismo
che sembrava intenzionato a trattenerlo ancora a lungo in quel limbo era…alquanto disdicevole.
Plick, plick, plick…
“Oh –“
Chiuse
gli occhi cerchiati di nero per un paio di secondi, non di più. L’Oscura
Signora avrebbe potuto erroneamente accogliere il suo indugiare nelle tenebre
come il tacito consenso finalmente raggiunto, e per quanto se ne rammaricasse,
questo non andava bene.
Si, quella cosa aveva proprio un nome
importante.
Poco importa se la sua mente adesso lo
rinnegasse; andava trovato.
Voleva conoscere il nome di colui che
bypassando il suo cervello riusciva a tenere in funzione il suo cuore in barba
a qualsiasi legge della ragione. Voleva farlo, anche solo per il sottile piacere
di poterlo disdegnare un po’, prima di morire.
Ma ricercarlo nella nebbia fluida che
galleggiava sulla sua testa non avrebbe portato ad alcun risultato; perché non
era lì; non era nella morte.
Perché come per Epicuro, essa non si era mai
insinuata nel suo cuore. Nel suo cuore c’era solo la pecca più grande della sua
vita.
C’era lui.
Un
respiro. Ancora flebili sbuffi di vapore contro quel banco di nebbia insulsa, e
poi, come fosse scosso da un demonio stanco di attenderlo, il corpo disteso fremette
visibilmente.
Quella
vitalità durò giusto il tempo di sollevare una mano madida di sangue dal suolo, portarla alla bocca, e spingere.
Spingere
quel ponte odontoiatrico che era
lì, ed attendeva. Attendeva quel momento in cui filamenti di stoppa tra
le labbra gli avrebbero rammentato tutta la fatica di qualche ora prima per
liberare le mani; attendeva il momento in cui avrebbe smesso di ricercare il
nome di quella cosa nella parte razionale
di sé, e– aggirando il cervello,
fosse riaffiorata alle sue labbra attraverso un canale alternativo; il suo
cuore.
Sorrise
quasi, quando le labbra ne sillabarono afone il nome.
Un
segnale acustico.
Poi
ancora vapore, vapore, vapore…
Intenso,
palpabile e cremoso, vapore.
Uscire
di scena con una dissolvenza in bianco era davvero quanto di più patetico
riuscisse ad immaginare.
---
John Hamish Watson
non fumava.
Quel
che faceva con le sigarette, era aggiungere grigiore alla nebbia del mattino di
Londra, e nient’altro.
Ad affermarlo fu una ragazza,
probabilmente una di quegli squatters che avevano
abusivamente occupato l’appartamento vuoto all’angolo di Blandford
Street.
Gli
chiese una sigaretta durante una delle sue passeggiate prive di meta, e già lo
sguardo guardingo con cui John tentò di valutare la sua età, prima di passare la sua sigaretta
accesa alla mano sinistra ed iniziare a frugarsi le tasche, era qualcosa di
insolito.
Quando poi l’imbarazzante pacchetto su cui
spiccava il nome di una pessima marca di sigarette al mentolo fu tra le sue
mani, allora non vi era più spazio alle incertezze; un sopracciglio inarcato,
una risata soffocata tra i denti, e quella frase, a cui poi fece seguito
l’inevitabile rinuncia alla dose di nicotina che aveva in programma.
Ne
rimase perplesso, ma riconobbe che il paragone calzava a pennello e non osò
contraddirla.
Mentre stava lì a spingere vapore al cielo, evidentemente la gente aveva
iniziato ad osservare.
O
era questa la verità, oppure il ridicolo modo di tenere la sigaretta tra le
dita quasi fosse una siringa, e
l’innaturalezza con cui tentava senza successo di aspirarne un boccone
dignitoso, era così evidente che non era necessario essere un consulting detective per capire che John Hamish Watson non aveva mai fumato in tutta la sua vita.
Il
fatto è che Londra puzzava. Puzzava in un modo che non era più disposto a
tollerare.
Aveva
il fetore dei chilometri macinati dalla gente comune. Gente anonima, snob ed
eccessivamente impettita che senza accorgersene finiva per smembrarsi in un
tessuto urbano ingordo e insensibile.
Aveva il tanfo delle lancette del Big Ben che
anche sotto la neve ripetevano i suoi due giri quotidiani senza indugiare, e
della quiete del torbido Tamigi che, qualsiasi tragedia si fosse consumata
intorno, avrebbe continuato a far scorrere la sua fredda acqua con la stessa
regolarità di sempre.
Come se non gliene fosse importato nulla. Come
se non fosse cambiato nulla.
Si
era fidato del mondo, John. Aveva amato
l’umanità a tal punto da credere di esser diventato qualcuno che avrebbe potuto
influenzare il suo andamento, di metter la buona parola con la natura, aiutarla
e fare la differenza.
Da
tre anni, il suo mondo era cambiato, si era fermato; ma Londra fingeva di non
essersene accorta.
Osava vestirsi ancora di quei suoni e odori che un tempo, egli, aveva distrattamente
focalizzato intorno ad una persona ben precisa, ad un unico uomo che con i suoi
colletti alzati ed le sue note alle quattro del mattino, sembrava muovere e dar
vita all’intera città, se non al mondo.
Sherlock
però non c’era più, e chiedere a John di non sviluppare un’intolleranza verso quella
quotidianità inalterata, che andava avanti come non avesse mai avuto un
sociopatico iperattivo chiamato Sherlock Holmes, era una pretesa assurda almeno
quanto quella di avere una Londra che si fosse fermata insieme a lui.
E’
per questo che, ai suoi sensi, Londra aveva iniziato a portare l’odore di una
vecchia amica che ci ha offesi, di un cibo che ci ha fatto indigestione. E lo faceva a tal punto che John non riusciva
più a discernere la quantità di ossigeno necessaria a garantire la propria
sopravvivenza, così si era abituato ad arrancare nella propria vita in apnea.
Aspirava
goffamente sigarette al mentolo da quando era tornato a Baker Street.
Da quando, avvalorando le parole di Oscar
Wilde, aveva realizzato che il miglior modo per sfuggire alla tentazione, era
cedervi.
E lui lo fece.
Rimase in albergo meno di quanto avesse già
anticipatamente pagato.
Ad una settimana dalla sua morte, John era
già tornato a casa.
“All’inizio ti sembrerà di vederlo ovunque.”
Prima ancora di accorgersene, aveva già
cominciato a setacciare la realtà intorno a sé così assiduamente da non ricordare
neppure il volto di chi lo avesse detto. Lestrade? Dimmock? O forse, una semplice frase decontestualizzata letta
su un giornale, il frammento di un discorso assorbito per caso nel metrò.
Qualcosa che non lo riguardasse. Che
probabilmente distava anni luce da sé.
Perché nel suo caso, fu una bugia; quasi una superstizione senza senso.
Sherlock era scomparso dalla sua vita nel
preciso istante in cui, su quel marciapiede, i suoi occhi senza luce si posarono
su di lui, e lo fissarono. Lo fissarono senza vederlo.
Scorgere quelle pupille vuote fu strano. Erano
gli occhi di un cadavere, ma la forza con cui raschiarono via la sua presenza
dalla sua vita, fu impareggiabile.
Sherlock era già morto. La materia cerebrale
mista al sangue era già sull’asfalto; non poteva più vederlo.
John riuscì a fare altrettanto.
Non lo vide più.
Né tra i volti dei passanti, né tra la neve
sporca all’angolo della strada.
Né tra le pieghe delle lenzuola, né,
tantomeno, nei suoi incubi.
Sherlock non c’era più.
Non c’era davvero.
E la sua assenza bruciava così tanto che John
perse ogni capacità di stabilire quanto forte, dentro di sé, ne sentisse la
mancanza.
Nessuno
parlò di ‘nostalgia’.
Neppure
l’anziana proprietaria di casa accennò ad essa, mentre rinfrescava con il suo
ventaglio il viso del suo ultimo inquilino rimasto e sospirava.
Un
uomo che non ha mai toccato sigaretta in tutta la sua vita, se non per
cauterizzare una ferita nel bel mezzo dei canyon afghani, non avrebbe mai tentato di fumare tutte le Pall Mall Blue rimaste sotto al teschio perché guidato da pura,
semplice ‘nostalgia’.
Vi
erano almeno un migliaio di oggetti nella sola living room,
che avrebbero potuto fare di meglio, se avesse avuto bisogno di ricordi
agrodolci su cui lacrimare, come le persone normali.
Decisamente, non
il suo caso.
Era
una bramosia insolita, quella che gli sfrigolava dentro. Un fermento cerebrale fuorviante,
qualcosa di simile ad una ossessione degenerativa che altera la propria percezione
di sé, e annulla qualsiasi genere di inibizione.
Aveva un ché del tossicomane sull’orlo di una
crisi d’astinenza quando si lanciò su
quelle sigarette, ne strinse indelicato il pacchetto impolverato e le fumò una
ad una.
Cosa
voleva John Watson? La risposta più semplice del mondo: fumare.
Voleva
la sua poltrona, le sigarette del suo defunto, fottuto, coinquilino scomparso
nel nulla, e poi fumare!
Chiudersi
in soggiorno e soffocare in una nube di nicotina più tossica di una centrale
nucleare.
Certo,
quanto a dannosità, il brillante tabacco arso non avrebbe fatto neppure testo,
se confrontato al potere venefico di quell’aroma particolare che il fuoco
avrebbe sprigionato nell’aria.
Un
tiro svogliato alla prima sigaretta, ed eccolo già a formicolargli addosso.
Eccolo
a raggrinzare proprio i punti esatti che avrebbe incontrato la sua pelle se lo
avesse tirato a sé quando ancora non era il fumo a tracciare il suo profilo. Quando
ancora sarebbe bastato poco per annullare ogni distanza, stringerlo tra le sue braccia e sottrarlo
alla caduta in un abisso che non sarebbe stato tale senza la sua idiozia.
Senza
la sua esitazione.
Fandonie.
Patetiche fantasie spicciole di una mente stordita.
In
fondo, avrebbe davvero avuto modo di crederci, John? La spaventosa illusione di
poter ricostruire in una stanza lo spazio che il mondo si era rifiutato di
riconoscere ancora a Sherlock Holmes, era lì.
Aveva
già trovato un modo per insinuarsi, quella dolce menzogna. Ma prima era
necessario convincersene.
Scordarsi
di aver avuto contatti con la lucidità e abbandonarsi alle follia di una
felicità posticcia, evanescente come il vapore opaco di una sigaretta…
Una
felicità che il suo spirito corrotto dalla razionalità rifiutava a colpi di
tosse , conati vomito e lacrime.
“Per
l’amor del cielo, John! Così soffocherai! Vieni, vieni alla finestra, caro. Hai
bisogno di prendere aria.”
Appesantì
il tronco e irrigidì i muscoli.
La
richiesta delle mani vizze di Mrs. Hudson non trovava fondamento: non vi era aria che gli mancasse più di
Sherlock Holmes.
E
allora, mentolo!
Fu
come avere una piccola amante con i tratti del suo coinquilino a cui mise parrucca
e lenti colorate fuorvianti.
Non
era una totale rinuncia, lo sapeva bene anche lui, ma persuadersi di aver
gradito tossire per tre giorni di seguito e non essere in grado di ingoiare
nulla senza imprecare per la medesima durata, sembrava fargli in qualche modo
bene.
Fu
la scelta che lo convinse a prendere la patente e comprarsi un’auto: estinti i
supereroi, vi erano sempre meno tassisti disposti a dar retta a un matto che
di primo mattino pretende di essere accompagnato nei sobborghi rurali della
città, ed atteso mentre fuma le sue sigarette steso sull’erba.
Presto
per dire di aver ceduto al vizio, ma era comunque vicino.
Quella
era la boccata prima di immergersi in una Londra che aveva ancora il suo
profumo.
Se
voleva mantenere intatto il cervello, aveva bisogno di una buona apnea.
---
St.Oswald Hospital
-- Londra
Prima di concedersi, la voce del dottor Lamb
apparve scandita da quell’insolita cantilena tremolante che John aveva notato
attivarsi solo in sua presenza.
Beh.
Forse avrebbe dovuto cominciare fare
come tutti gli altri.
Un
paio di caffè, quattro chiacchiere, apprezzamenti vari e casuali su infermiere
e tirocinanti.
Tutto
quel che basta per fingere di avere uno straccio di vita sociale, ed evitare
che ad ogni turno, il suo viso venisse ispezionato da decine di occhi prudenti
che non attendono altro che segni.
Segni
di un’imminente trasformazione in qualcosa di chimerico, qualcosa di mostruoso
e alieno.
Soprattutto,
alieno.
I
sospetti che fosse una sorta di essere ultraterreno li avevano già da un po’.
Peccato
che John potesse solo rinsaldarli.
E
quella di rintanarsi nella on-call room subito dopo il primo paziente della notte altro non fu
se non l’ennesima conferma.
Sul
momento non fu in grado di stabilire quanto tempo fosse passato dall’ultima
volta che i suoi sensi avevano instaurato un contatto col mondo esterno.
Galleggiava
in un buio sporco, inquinato da un alone celeste che non tardò a identificare
come la luce emanata dal display del telefono alla sua sinistra.
Fu la stessa luce a permettere ai suoi ultimi ricordi di riaffiorare come racchiusi
in bolle.
Rammentò
la difficile fuga dai commenti artificiosamente idolatranti che il Dottor Lamb cominciò
a riversargli addosso dopo la versione cefalica in pieno travaglio.
Ricordò
il piacere di far scattare la serratura della porta e distendere le proprie
membra sullo scomodo materasso della On-call room. E rimembrò pure come, dopo aver recuperato da sotto
il cuscino l’ultimo romanzo acquistato alla libreria di fronte l’ospedale, si
fosse schiarito la gola, avesse
affossato le spalle contro il cuscino, e poi, sotto la luce dell’abat-jour,
avesse lasciato che i polpastrelli scorressero le pagine da destra verso
sinistra, arrestando la loro corsa all’arrivo del segnalibro.
A
quel punto tutto fu pronto; e allora l’inchiostro
poté cominciare a tappezzare la sua
mente senza ulteriori ostacoli.
O
questo era quel che aveva sperato. Perché era evidente che di ostacoli ne era
rimasto uno.
Già…
La
quindicenne affezionata al proprio
pancione ed il suo irriverente feto podalico che dava un sonoro benvenuto alla
vita presentando significativamente le natiche,
lo avevano sfinito più di quanto avesse realizzato sul momento.
Aveva
solo vaghi ricordi frammentati di quando spense senza accorgersene l’abatjour e
lasciò che il suo libro, anziché l’ennesima carta
da parati per crepe irreversibili , finì invece per fargli quasi da
copertina durante il suo sonno, con risultati discutibili.
E
poi il telefono vibrò. E squillò.
E
ancora, e ancora, e ancora.
Cominciava
seriamente a preferirle agli esseri umani, quelle creature eteree dagli organi
di carta e inchiostro.
Le
loro silenziose esistenze dipanate in un centinaio di pagine rivestivano le
pareti della sua anima delle loro realtà intense e fittizie, e, al termine del libro, non avrebbero lasciato in
lui nient’altro che un ricordo sbiadito, pronto per esser rimpiazzato dal nuovo
foglio appiccicoso che lo avrebbe cancellato del tutto.
Non come lui.
Decisamente non come lui.
“Ho un
lavoro per lei.”
Due
anni e mezzo.
Erano
passati due anni mezzo da quando un telefono cellulare aveva diffuso
l’inconfondibile voce di Mycroft Holmes nei timpani
di un uomo in avanzato stato di disfacimento.
Nessun
avvenimento da ritenere più importante di un altro.
Niente consistenza. Neppure l’ombra di una
qualsivoglia introspezione.
Sei mesi dopo l’ultimo saluto, di John vi era
solo un omino di carta. Una sorta di fantasma abulico che, forte della sua
bidimensionalità, sfarfallava sulle macerie della sua vita con il distacco di
coloro a cui non cambierebbe nulla.
Alla fine, c’era riuscita ad infettarlo
ancora, quella becera normalità. Pensava
che dopo la sconfitta segnata con la stretta di mano ad un Consulting Detective dall’atteggiamento ostentatamente impettito, difficilmente
avrebbe fatto ritorno.
Invece vide le sue speranze morire quando
essa si ripresentò in formato gigante, quasi volesse vendicarsi per tutto il
tempo in cui era stata dismessa. Questa volta, neanche la vecchia zoppia
sopraggiunse a ricordargli la sua totale incapacità di gestirla.
Sarebbe stata una battaglia persa sin
dall’inizio.
Quella
telefonata fu la punta di una scarpa giunta ad ostruire il frenetico sfarfallio
sui suoi giorni.
La
interruppe senza troppe scene.
Senza la forza di maledirlo, o sbattere il telefono
contro al muro.
Non
si piegò a quella scarpa irrispettosa per altri tre lunghi mesi, poi però
sopravvenne qualcosa.
Noia,
forse. O il suo inconscio che premeva per un campo di battaglia, uno qualsiasi.
La gente avrebbe potuto prenderlo persino per un flebile istinto di
sopravvivenza ancora percepibile! Ah!
Non
ci avrebbe scommesso neanche un centesimo su quello!
Difficile
dire cosa alla fine lo spinse a recarsi al St. Oswald Hospital.
“Dottor
Watson,”
Sorrise
l’addetta all’accettazione.
Sorrise
come era solita a sorridere la gente che ronzava intorno a Mycroft.
“La stavamo aspettando.”
Fu
assunto senza troppe domande. Senza neppure un colloquio vero e proprio.
Area
Critica, Pronto Soccorso e Traumatologia.
Vi
era stato un tempo in cui avrebbe saputo ricavare da questi degli alleati degni
di nota.
Aver
avuto un coinquilino come Sherlock Holmes, però, precluse anche questa
possibilità.
---
“John,”
Il Dottor J. H. Watson trasalì.
Brusca ed improvvisa, la mano che il Dottor
Lamb strinse energica sulla sua spalla lo strappò a quella sorta di trance anestetica che l’aspro risveglio
non era stato in grado di allontanare.
Il
medico si assicurò che John fosse tornato con i piedi per terra, prima di
indossare svogliatamente un paio di guanti.
“Faresti bene a svegliarti, John. Seratina perfetta, eh?”
Era
un uomo decisamente poco incline alle responsabilità.
John osava pensare che la sua tendenza a presentarsi sempre per primo, altro
non era se non un disperato tentativo di correggere questo suo difetto.
Fatto
sta che l’espressione con cui lo ricevette mentre faceva il suo ingresso nella
Sala Uno non era esattamente quella che si sarebbe augurato di trovare sul
proprio collega del turno notturno.
Il Dottor Lamb era pallido e preoccupato. Ma per qualche strano fenomeno, la
comparsa di John sull’uscio gli fece in qualche modo riacquistare fiducia
nell’umanità, e un po’ anche nella pergamena universitaria che gelosamente
custodiva.
“Esattamente
da quanto è in questo stato?”
La
ragazza portava sul viso i resti di un trucco importante.
Certo,
fosse stato solo quello probabilmente non avrebbe detto molto. Ma le perline
bianche sparse sulla capigliatura elaborata, e lo sguardo avvilito che la
giovane asiatica rivolgeva al proprio marito, steso a braghe calate sul lettino
medico, lasciava intendere che sarebbe stata in grado di elencare almeno una
cinquantina di luoghi migliori dove trascorrere quella che con molta
probabilità doveva essere la sua prima notte di nozze.
Sarebbe
stata in grado di elencare anche una serie di inconvenienti, che sarebbero
andati dalla camera d’albergo rumorosa fino allo champagne sgasato e le fragole
surgelate.
Certo,
-sempre dal suo sguardo- si intuiva che
la sua fantasia non sarebbe stata sufficientemente funesta da
immaginare
un marito in crisi priapica. (*)
“Non
parla inglese. E’ arrivata la settimana scorsa dalla Corea.”
“Allora potrebbe rispondermi lei.
Da quanto è in questo stato?”
Esordì autoritario John,
sforzandosi di ignorare l’imbarazzante stupore del collega.
“Più o meno da dopo cena…”
“Ha con sé la confezione delle
sostanze vasodilatatrici che ha assunto?”
Roso dall’imbarazzo più che dal dolore,
il neosposo ruotò gli occhi verso il medico alla sua destra.
In seria difficoltà, Lamb tentò di ripetere la domanda del Dr. Watson con un
nervoso sorriso di circostanza e un tono insipido. Non gli riuscì. La voce
tremò.
“C—cosa?”
“Riformulo la domanda: Cialis o Viagra? Mi auguro per lei non si tratti di
qualcosa acquistata su internet…”
Il nome dei due farmaci sembrò
interrompere il flusso intelligibile di parole che subiva passivamente, ed Il
viso della donna si contorse in una smorfia strana.
Ci fu un breve scambio di battute in coreano, a cui il marito controbatté lesto
con parole che non riuscirono minimamente a sfatare le preoccupazioni di lei.
“Non ho preso niente del genere,
io! Ho—ho venticinque anni! Crede davvero che io
abbia bisogno di…”
John chiuse gli occhi e gesticolò
con i palmi delle mani aperti verso il basso.
“No, non lo credo, e non è nelle mie intenzioni investigare sui motivi che
l’hanno spinta a far uso di sostanze simili la prima notte di nozze. Ma se non sarà lei a dire cosa ha assunto e
in che quantità, saranno gli esami del sangue che le faranno a urologia, a
parlare per lei. Il tutto non prima di
esser stato sottoposto ad una serie di accertamenti invasivi e discretamente
fastidiosi atti a scongiurare cause organiche, e mi creda…al
suo posto cercherei di evitare ulteriori supplizi, se sapessi che a breve mi
verrà infilato un ago nel pene per aspirare il sangue dai corpi cavernosi …”
Il viso di Samuel Lamb fu il solo
punto che accolse il suo sguardo sconvolto dall’orrore di certe immagini. Non
che furono di particolare aiuto, perché il protocollo esibito dal burbero
medico militare portò ribrezzo anche sulle guance tonde del giovane collega.
Mentre
attendeva una risposta valida, le labbra del dottor Watson si stirarono in una
linea sottile.
Qualcosa aveva solleticato la sua mente dal primo istante in cui aveva preso
visione del quadro clinico, ma solo se tutti i punti avessero confluito a suo
favore avrebbe potuto realizzarlo.
Si
accorse che era il momento giusto per farlo.
“Dottor Lamb, accompagni fuori la
Signora, per favore. E rimanga con lei.”
“Ma…”
“Grazie, dottore.”
La voce tagliente del Dottor
Watson giungeva con una sicurezza che Lamb non era mai riuscito a conquistare,
per cui obbedirgli, era tassativo.
Sfiorò il gomito della sposina coreana, e ignorando le espressioni di disappunto
di questa, si premurò ad abbandonare la sala in sua compagnia.
Chiusa la porta, lo sguardo
altezzoso si posò nuovamente sul viso liscio del giovane.
Un sospiro, occhi fissi al
soffitto. Poi, finalmente, la risposta.
“Viagra da 100 mg. Acquistato su internet. ”
John arricciò le labbra.
“Quante di preciso?”
“Due.” Ancora un sospiro dinnanzi
al sopracciglio inarcato di John. “Tre, fo-forse.”
Con una quiete quasi glaciale,
John si sfilò i guanti, rimosse una penna dal taschino e compilò una scheda
posta sul carrello di fianco al letto. Chiamò poi uno degli infermieri presenti
oltre al paravento, chiedendo di notificare l’arrivo del paziente in Urologia.
“Dottor Watson?”
“Sì?”
“Ecco…” Si morse il labbro inferiore. “Il mio…sì, insomma…tornerà come prima, non è vero?”
Il Dottor Watson corrugò la
fronte e schiuse le labbra afone, prima di scuotere la testa in segno di
consenso.
“Oh, sono sicuro che il Dottor Hagen saprà rimettere le cose a posto. Almeno per quanto
riguarda il suo pene. “ Si fermò a grattarsi un sopracciglio. “Per il problema
di fondo invece, penso che l’unico strumento a sua disposizione sia il
divorzio.”
“…eh?
Di cosa sta parlando? Quale problema di fondo?”
“Parlo della sua omosessualità. La moglie è arrivata dalla Corea ad una
settimana dalle nozze, è chiaro che provenga da una famiglia ligia alla
tradizione e che non le ha permesso di vivere a Londra con lei durante il
fidanzamento. La sposa è giovane e
carina, dubito l’ansia da prestazione sia tale da portare un venticinquenne a
correre il rischio di assumere in dosi così elevate una sostanza che ha
acquistato su internet perché troppo giovane per ottenere una prescrizione dal
suo medico. Ed inoltre…non
sono cieco, ho visto come ha guardato il Dottor Lamb per tutto il tempo.”
Che disastro.
Se solo Sherlock avesse visto in
che razza di ibrido instabile si era dovuto trasformare per sentire meno la sua
assenza...
Aveva
finito per scandire quelle parole con lo stesso
tipo di cinico appagamento che un tempo rimproverava al suo coinquilino,
e sì. Mentre lo faceva, quelle parole
gli piacquero.
Le
scommesse circa l’espressione con cui il giovane sposo priapico
avrebbe accolto il suo discorso erano già aperte, ma furono inutili.
Perché poi avvenne.
“Codice
Rosso in sala due, John! John!!”
Che nelle sue orecchie arrivò come un blando
eco del vecchio “Ci attaccano!”
In un solo caso le porte dell’ingresso
d’emergenza sbattevano in quel modo violento, il margine d’errore era ridotto
ad una percentuale così misera da escludere qualsiasi rilevanza.
Le
urla di sconcerto della sposa coreana lì fuori, e l’ingresso dirompente di Lamb
che soffocò nelle sue stesse parole furono i contorni più stimolanti che poteva
desiderare.
Niente notifiche; niente avvertimenti; da
manuale.
“Maschio, sulla quarantina, ferite multiple da arma da fuoco a torace e addome,
ventre rigido, sistolica 72, ultimo polso rilevato 144.”
Questione
di dettagli. Il cuore che pompa carico, la mente che si reimposta.
L’odore
acre del sangue. Quello fresco, e non stagnante. Quello che non puzza, ma al contrario esala
con il suo calore il quasi gradevole tanfo dei residui di deodorante attaccati
alla pelle della vittima.
Sempre
e solo questione di dettagli. Se si fosse impegnato sarebbe riuscito a trovare delle
similitudini con i campi di battaglia che era solito a frequentare un tempo.
Anche con quelli in cui la battaglia l’avevano vinta gli avversari, e a lui era
toccato tornarsene a casa con una ferita alla spalla, un disturbo psicosomatico
irrisolto, ed una carriera mandata a puttane.
“Fori
di entrata nel quinto spazio intercostale destro, quadrante superiore destro e
fianco sinistro sull’ascellare anteriore.”
“John!”
Samuel
Lamb, come d’abitudine, si era già preso la libertà di avvicinarsi al paziente.
Non ci provò neppure a fingere competenza quando sotto al suo sguardo, la
forbice chirurgica scoprì un torace completamente ricoperto di sangue. Lì le
sue certezze crollavano, il suo sapere medico si annientava di colpo e non
perse neppure tempo a considerarla troppo umiliante, la disperata richiesta di
aiuto che inoltrò con uno sguardo al collega più anziano.
Ma
nel lasso di pochi secondi, la sua espressione mutò: I suoi occhi divennero gli
occhi di chi non capisce; di chi si attende qualcosa, e invece, contro ogni sua
aspettativa, quel qualcosa non arriva.
Attonito, le mani abbandonate lungo ai fianchi ed il
pallore verdastro tipico dei tirocinanti alla prima emergenza, quel soldato,
quell’alieno con le sembianze di un piccolo uomo che vive nel disgusto per
l’umanità, di colpo venne spogliato da qualsiasi incanto.
Congelato
in una morsa di assoluto terrore.
I
suoi occhi non si muovevano, le palpebre non sbattevano. Lamb avrebbe detto che
non stesse neppure respirando.
Perché era una mina, quella sotto al piede
del Dottor Watson. Una di quelle mine antiuomo che i brulli territori
afghani gli avevano insegnato a temere, e che la monotonia di Londra gli aveva
invece fatto archiviare.
Un
passo di troppo su quei pavimenti
ingannevolmente familiari, un’occhiata svogliata al viso coperto dall’enorme
maschera del pallone rianimatore, ed il gioco era fatto; l’ordigno fu innescato.
“I
proiettili sono ancora dentro!”
“JOHN!”
Fermo.
Immobile. Non un fiato. Non una parola.
Ad
esplodere sarebbe bastato talmente poco che
persino pensare all’invasione di mani inguantate subite dal corpo sul tavolo
operatorio, sarebbe stato troppo azzardato.
Ci
aveva messo tre anni per modellare la
sua anima spigolosa affinché aderisse a quella vita piatta e abulica. Risultati scarsi e imperfetti, ma andava
bene lo stesso.
Ma
la bomba adesso sotto al suo piede avrebbe rimesso in gioco tutto, e già vedeva
il disastro.
Già
vedeva le mura crollare, il sipario disfarsi, e le fila che John Watson credeva
di aver reciso ormai da anni, brillare
tra le mani imbrattate di sangue di un burattinaio moribondo.
Ed era
troppo.
Credere
di aver ancora una volta fatto parte di un disegno tracciato da qualcosa
di diverso della semplice casualità, era decisamente troppo.
Fu
un incauto paramedico a urtarlo di lato con un secondo crash trolley e fargli
perdere la mina da sotto al piede.
Che esplose.
“JOHN!! CAZZO, JOHN! CHE
STAI FACENDO! DAMMI UNA MANO!”
“Non si
sente il respiro sulla parte destra, preparate un drenaggio toracico.”
“DOTTOR
WATSON!”
La
deflagrazione ebbe il suono di voci spezzati, dialoghi interrotti e sbiaditi,
parole scivolose come il liquido cremisi che impediva agli elettrodi di aderire
al torace del ferito.
Ebbe
il suono di una frase di commiato bisbigliata nel vuoto, di una porta in noce poca
oleata che scricchiola al passaggio di un uomo furioso, e di un odio sottile, letale…
Un
odio che come un’emorragia cerebrale colpisce i centri del perdono e, insieme
ad essi, anche parte di quelli che gli avrebbero permesso di vivere come prima.
Prima
di sollevarlo da buon parte della responsabilità.
“Due
sacche di zero negativo. Serve un trasfusore rapido. Cannule 14!”
“Pressione
60 su 35, saturazione 75, rumore respiratorio in diminuzione a destra! Cosa
facciamo?”
Cosa
facciamo?
Cosa
avrebbe dovuto fare?
Poteva scegliere, non vi erano più fila a decidere per lui.
La
potente mano del burattinaio penzolava al
lato della barella e non mostrava il minimo accenno di movimento volontario,
adesso. Le dita arricciate in maniera innaturale lasciavano intuire una certa
sofferenza, come se da quel groviglio di lacci trasparenti che non aveva più la
forza di manovrare, egli non si aspettasse nulla, a suo favore…
Era
fatta. Si era liberato. Aveva appena saputo di essere un burattino,
sì. Però adesso non lo era più.
Ma
rispolverare il concetto di volontà propria da tutta la polvere accumulata
negli anni non era un compito semplice, ed insieme a questa consapevolezza, a
scheggiare lo stomaco di John
sopraggiunse una pietà dai contorni smussati che avrebbe potuto quasi
identificare con il nome di ‘tenerezza’.
‘Bravo,
sei stato davvero bravo.’ Consolato da un sorriso di
beffa, John fu costretto a riconoscerlo.
Una
simile opera meritava di ricevere i complimenti fatti di persona. Troppo comodo
svignarsela così.
Prese
il polso a penzoloni tra le mani e lo portò velocemente sulla lettiga. Lo
tastò.
Tastò
lo sterno, l’addome rigido come vetro, e
biascicò ai paramedici qualcosa che andò a coprire i richiami esasperati del
Dottor Lamb.
Un’occhiata
veloce ai monitor, poi la sentenza.
“Due
milligrammi di dopamina! Potrebbe andare in arresto da un momento all’altro, va
intubato immediatamente! Perché cazzo non è intubato, Lamb!?”
Rabbrividì
Lamb, si strinse nelle spalle fredde e
scosse la testa così forte che i suoi occhiali quasi caddero dal naso. Si voltò
a destra e a sinistra alla ricerca dei presidii, e una volta afferrati corse ad
eseguire la manovra.
“C’e’
qualcosa che ostruisce il passaggio! Il laringoscopio non passa!” Solo dopo
essersi accertato che non stesse sbagliando nulla, il panico sopraggiunto gli
permise di sfidare ancora una volta l’ira del collega.
“Corpo
estraneo in bocca! Forse un ponte odontoiatrico fisso!”
La
conferma giunse dal paramedico al suo fianco che ispezionò con una torcia la
cavità orale e levigò con le sue parole la furia con cui il Dottor Watson stava
per scagliarsi contro l’ingenuo
neolaureato.
Un
ponte fisso in bocca. Sperava forse di ascrivere anche questa ad una mera casualità?
Gliele
avrebbe restituite tutte, a quell’uomo. Andava salvato unicamente per
restituirgliele tutte, le sue ‘casualità’.
I
pensieri negativi vennero diramati da un cenno con capo, e uno schiocco di
disappunto della lingua contro il palato li annientò in blocco.
Era il Dottor John Watson in persona, ad essere richiesto. L’autopilota non
poteva bastare.
“Tracheotomia! E’ in crisi respiratoria! Lamb, passa al mio posto e porta a
termine il drenaggio toracico! Infermiera, notifichi l’arrivo imminente del
paziente in Chirurgia e prenoti una sala operatoria!”
Annuì,
ma Samuel Lamb non smise di tremare.
Il
Dottor Watson dava i brividi: fissava la
gola del paziente come un soldato a cui è rimasto un unico colpo fisserebbe il
nemico attraverso il mirino di un fucile di precisione. La stanchezza sotto gli
occhi non gli dava un'aria sciupata: serviva solo ad accentuare il nero intenso
delle pupille che seguivano i movimenti delle mani senza la minima sbavatura,
come se fossero pilotate da un John diverso, un’entità a sé stante.
‘È
proprio un alieno.’ Riconfermò
geloso a se stesso, Samuel Lamb.
Già.
Proprio un alieno.
“Chi
è di turno in Chirurgia?”
“Il
Dottor Bailey e il Dottor Boole.”
Rimosse
la pinza dalla gola dell’uomo e mentre sistemava l’ultimo dispositivo che
avrebbe permesso alla cannula tracheale di svolgere il suo lavoro, strinse gli
occhi per l’istante necessario a ricordare i curriculum delle personalità
citate.
Bravi,
sì. Entrambi.
Laurea
ad Oxford e Reading.
L’anziano
Boole era un tipo di poche parole, lo aveva
incontrato ad un convegno di chirurgia vascolare a Bristol, mentre di Thomas
Bailey ricordava la fronte priva di sopracciglia e l’invito a cena che aveva
offerto a pochi mesi dalla sua assunzione, prontamente declinato.
Non se ne accorse, ma quando il tubo del respiratore aderì alla cannula e
l’ossigeno espanse i polmoni dell’uomo,
John avvertì l’improrogabile bisogno di distendere le spalle e reclinare il
capo. Non era stanchezza, perché quel formicolio agli arti che giungeva puntuale
al termine di ogni emergenza gli piaceva, e sarebbe stato pronto a goderne con
un ingordigia di cui, difficilmente, chi lo conosceva, avrebbe scommesso di
trovare in lui.
Fu
piuttosto una sensazione ignota che, dal nulla, giunse ad invaderlo.
Qualcosa
di più simile a quella rabbia collerica, costante e immitigata,
che nonostante i suoi quindici e più anni di servizio ed una logica meccanica a
cui aggrapparsi, invasava ancora le sue membra tutte le volte che finiva per
perdere un paziente.
Provava
questo, John Watson. E si irritò con sé stesso.
Perché il suo paziente non era affatto morto; non ancora.
E
lui era un medico che all’improvviso non sapeva più dire, se la sua
sopravvivenza era davvero quel che aveva auspicato o meno.
Come
offeso, il debole corpo sulla barella sussultò, contraendosi in uno spasmo. Il
ventre si inarcò, le scapole si
puntellarono al materasso e per un breve istante, John ebbe l’impressione che
il ferito stesse tentando di alzarsi per rimproverarlo personalmente per quei pensieri.
Aumentò
il dosaggio di un paio di flebo, prima di
portare lo stetoscopio alle orecchie e far scivolare il dischetto sul
torace maculato. L’apprensione era tornata suo volto, e sarebbe stata una
splendida risposta al suo quesito sé solo non l’avesse trovata più irritante del
quesito stesso. Perciò, già nel tempo che lo stetoscopio tornò a cingere il suo
collo, quei segni di tensione li aveva trasformati in qualcos’altro.
Sdegno.
Era proprio un’espressione di sdegno.
“Saturazione
in aumento.” La conferma giunse dal monitor e dalla voce dell’ennesimo
paramedico che il Dottor Watson non credeva di aver mai visto prima di quel
momento.
“Veloci,
in sala operatoria, avanti!”
“Signorsì.”
Fu
Lamb a dare l’ordine sta volta, e non attese nessuna conferma da parte sua, come
fosse stato improvvisamente colto dal timore che da John Hamish
Watson quel comando finale che avrebbe finalmente sollevato il Pronto Soccorso
dall’incarico, non sarebbe giunto mai.
Per un motivo o per un altro che a lui non era dato sapere.
“Sei
pallido, John. Stai bene?”
Per
osservare meglio quella smorfia, Samuel Lamb alla sua desta roteò il viso tondo
e si piegò un po’, ma non si avvicinò. Doveva davvero far paura, quel volto
ingrugnato.
Ma
non se ne curò, John; e ricambiò velocemente lo sguardo laconico che poi
interruppe per permettere ai suoi occhi di tornare fissi sulle ante della porta,
ancora vibranti dal passaggio del corteo
di paramedici.
“Credevo che in Afghanistan ne avessi viste di
tutti i colori; e invece guardati, sembra tu stia per vomitare!”
Il
pungente sarcasmo delle 4.15 del mattino.
Un
po’ di fortuna,e quella sarebbe stata l’ultima emergenza del loro turno. Per
uno scherzo dell’adrenalina ancora in circolo nel suo sistema, Lamb sentì in
vena di osare.
Con
un rumoroso chihuahua come Dottor Lamb sarebbe stata sufficiente una sola
occhiata per spegnere sul nascere qualsiasi immotivato tentativo di minare l’autostima
altrui, ma non gli concesse neppure quello, John.
Lo sdegno del suo volto aveva già un proprietario, e non vi era rimasto spazio
per sottigliezze di un tirocinante che nega lo shock ringhiando al primo che
passa.
Con quel disgustoso battito cardiaco ancora tra i timpani, lasciare che le
parole del collega morissero martellate da quel pulsare aritmico era fin troppo
facile.
Forse
un po’ aveva ragione. Stava per vomitare.
L’Afghanistan
non gli avrebbe mai insegnato a disdegnare un cuore che batte ancora in un
corpo dilaniato.
Quella
era una cosa che solo un marciapiede di Londra sarebbe stato in potere di fare.
Il
disgusto di ritrovarsi ad insistere e riuscire a mantenere in funzione il cuore
dell’Holmes sbagliato poi, non avrebbe avuto eguali.
---
L’orologio
al muro della Chirurgia era fermo sulle 11,30 da un po’, il ché lo confuse.
Era
certo fosse passato molto più tempo, da quando era entrato in sala operatoria congiungendosi
ai colleghi della chirurgia.
Nessuno
parve sorpreso di vederlo lì. L’unico saluto che ricevette, fu un breve cenno
delle palpebre ed il suo cognome pronunciato dal tono grave di Alistair Boole attraverso una
mascherina che ne distorse il suono, facendo giungere alle sue orecchie il nome
di un uomo che lui non conosceva e con cui aveva ben poco da spartire.
“Emorragia
da più parti del mesentere, prepariamoci
per una anastomosi ileale termino-terminale.”
Entrò
sotto i fari della scialitica sfoggiando una sicurezza che in quel momento era
l’ultima cosa che avrebbe potuto vantare, ma cercò di convincersi in tutti i
modi della sua autenticità.
Finse
di trovare normale anche la presenza di almeno quattro chirurgi in più rispetto
ai due titolari del turno, e finse di ascrivere alla ordinaria amministrazione
anche quegli sguardi sfuggenti e imbarazzati che i presenti si scambiavano
fugacemente per paura che uno sguardo
protratto troppo a lungo avrebbe potuto portare a degli interrogativi che
avrebbero finito per stravolgere il delicato equilibrio di quella farsa dai
toni surreali.
“La
pressione scende ancora. Altre due sacche di 0 negativo, avanti!”
“L’emotorace non è ancora risolto. Il versamento intrapleurico
intorno all’area del proiettile è ancora in corso. Dottor Kippelstein,
se ne occupi lei.”
La
sinergica danza di mani inguantate scandita dal crepitio dei ferri chirurgici contribuì
a rendere l’aria satura di buone intenzioni; di false, disgustose speranze.
Si
muovevano con calma e naturalezza nauseabonda; una calma priva della tipica
urgenza che il caso avrebbe richiesto, quasi come se la salvezza di quell’uomo
dalle carni macerate dal piombo non
dipendesse da loro ma dall’impenetrabile volontà di qualcuno che aveva avuto il
potere di ridurre lo schizofrenico ronzio delle loro mani ad un mero rituale
propiziatorio.
I
loro movimenti apparivano fuori tempo, scoordinati. In una situazione normale,
John avrebbe alzato gli occhi verso il chirurgo dinnanzi a sé, ed avrebbe
lasciato che fosse la sua espressione ad aggiungere i dettagli più coloriti di
quel ‘Va tutto bene, dottor Walsh?’ che l’etichetta del momento escludeva da
qualsiasi realizzazione orale. In una situazione normale, probabilmente quel
richiamo non sarebbe stato neppure necessario, perché aveva già lavorato in quella sala operatoria, John; e capiva perché
qualsiasi londinese in difficoltà avrebbe venduto l’anima al diavolo pur di
finire sotto i ferri di quei luminari travestiti da persone normali.
Ma non vi era un singolo granello di normalità, in quel momento. Un termine estirpato
dalla scena e sostituito da un nome e un cognome che ne prendeva il suo posto.
E
mentre le sue mani sguazzavano tra le viscere
che costituivano la figura fisica di quel nome, John Watson tacque.
Tacque e portò avanti il suo lavoro in perfetta antitesi con l’apatia insita
nei movimenti dei suoi colleghi, come una nota stonata riottosa che rifiuta
qualsiasi asservimento ad un pentagramma e porta in sé il suono atono di una
deflagrazione che il mondo sordo fingeva di non aver sentito.
“Tracheotomia
d’urgenza impeccabile. E’ un suo conoscente, Dottor Watson?”
Il
Dottor Bailey aveva smesso di chiamarlo ‘John’
da quando aveva rifiutato il suo invito a cena.
Non
era stato particolarmente scortese nel farlo, ma quel gentile rifiuto masticava
una lunga fila di significati che per il Dottor Bailey, avvenente
cardiochirurgo privo di sopracciglia, di pensieri superflui e di anello al
dito, furono sufficienti per fargli issare bandiera bianca, e riconoscere che,
probabilmente, la mancanza di interesse verso le donne del Dottor Watson andava
ascritta a motivi distanti da quelli che egli sospettava.
E
dire che, un tempo, reputava infallibile la sua capacità di riconoscere i suoi simili…
“No.”
La
mascherina che copriva gran parte del suo viso si rivelò un’alleata preziosa.
Resse
bene la sua mezza bugia.
“Mi
è stato chiesto di prender parte all’intervento.”
Ed era la verità, in fondo. Una mezza verità.
Tra
un ‘idiota’, e un ‘che stai facendo, imbecille!’ rivolto a sé stesso , John si era
ritrovato di fronte all’ingresso della Chirurgia con il fiato grosso e le mani fredde,
rigide come stalattiti.
Sapeva bene quanto fermarsi a contemplare la sua illogica scelta di seguire il
paziente sotto ai ferri sarebbe stato pericoloso, per cui non lo avrebbe
fatto. Non ci avrebbe perso neanche un istante,
se fosse dipeso da lui.
Non
aveva ancora considerato però l’intermissione di quei passi leggiadri che la donna dell’accettazione fece riecheggiare
lungo tutto il corridoio, mentre con andatura lenta avanzava verso di lui.
Era
la stessa della sua assunzione. La stessa
a tutti gli effetti.
Aveva
lo stesso sguardo, lo stesso taglio di capelli e lo stesso identico tailleur. E
sorrideva.
Come allora, sorrideva con il sorriso che più si addiceva al suo ruolo.
“Dottor
Watson.” Palpabile, il suo entusiasmo. “Vedo che ha già fatto tutto da solo.”
Già.
Aveva lasciato a bocca aperta il Dottor Lamb liquidandolo con un ‘Vado anche io
in sala operatoria.’ quando questi, sempre per lo stesso impeto di coraggio, lo
invitava a bere un caffè liofilizzato.
Aveva
davvero fatto tutto da solo.
Senza
attendere risposta da parte sua, che con molta probabilità non sarebbe stato
differente da quel silenzioso sorriso carico
di tutto il potere della nazione, John spalancò la porta della terza sala
operatoria e, inghiottendo l’ennesimo conato acido che stava per tornargli in
gola, maledisse mentalmente sé stesso
più che quel nome.
Ancora una volta.
Però
poi, sotto la garza adesiva che fissava le palpebre, Mycroft
Holmes assunse quell’espressione.
Quella faccia su cui John Watson non riuscì a non indugiare.
Depurato
da qualsiasi attività onirica, il collasso dei muscoli facciali del Governo
Britannico aveva allentato tutte quelle piegoline in
eccesso che la sua pelle formava, e la sua fronte appariva improvvisamente liscia
come quella di un ventenne che non pensa a niente.
Come
quella di un giovane che non ha mai sentito la necessità di corrucciare le
sopracciglia e adeguare il suo sguardo alla fiera e impeccabile mise con cui il
Governo Britannico muoveva i suoi scacchi nel sottosuolo diplomatico
internazionale.
Divenne
ciò che Mycroft Holmes non era mai stato, divenne un
irritante parodia di sé stesso.
Fu un’ardua impresa, per la mente stanca di John, riuscire a prefigurarsi
qualcosa di più odioso.
Le
labbra, poi…
L’ultima
volta che si erano visti, le aveva guardate bene, quelle labbra.
Con
un colorito sgradevole e malaticcio, esse avevano scandito nel vuoto il nome
del fratello chiuso nella bara, e John le aveva fissate come avesse voluto captarne il mistero dietro la capacità pronunciarlo,
quel nome.
Le
aveva giudicate più ripugnanti delle parole di commiato che gli rivolse al
termine della cerimonia funebre, e che lui, in overdose da disgusto, non volle
ascoltare.
Le
ricordava davvero orribili, le labbra di Mycroft, e
le trovava tali anche adesso che portavano le quasi volgari tinte di un’amarena
matura.
Se
non avesse visto con i suoi occhi il sangue rapprendersi e solidificarsi, su
quel tavolo operatorio, John lo avrebbe creduto così in salute! Così potente e
pieno di vita!
Quattro
proiettili eran stati estratti dal suo corpo, ma il
Governo Britannico riusciva ancora a fingere di essere invincibile; di non aver
niente a che spartire con quelle leggi sotto le quali la banale umanità è
obbligata a sottostare.
Ammettere
che il suo cervello fosse ora limitato
al compito di assicurarsi che il cuore continuasse a battere, e che l’ossigeno
introdotto attraverso il tubo in gola svolgesse decentemente il suo lavoro, non
sarebbe stato realistico. Era Mycroft Holmes quello!
Solo
un’emorragia di modestia avrebbe potuto veramente ucciderlo.
Per
il momento, dunque, era salvo.
--
Catherine
Thornton aveva quarantatré anni e sul suo volto si potevano
ritrovare tutti quanti.
In
un ovale scarno e privo di make-up come il suo, mettere inclementemente
in risalto i difetti della pelle corrosa con largo anticipo dal tempo era, per le
luci del reparto di Rianimazione del Saint Oswald, un autentico gioco da
ragazzi. Ma l’idea di apparire poco amabile agli occhi della gente ‘sveglia’
non fungeva affatto da deterrente come ci si sarebbe aspettati. Piuttosto, fu una
conferma di come la Dottoressa Thornton non cercasse alcuna approvazione al di
fuori di quella tacita e devota, ricevuta dai pazienti comatosi che si prendeva
la libertà di inondare di parole per tutto il suo turno, ed anche quello degli
altri.
Capitava
ancora a volte che, un collega indelicato, le facesse a notare la
‘particolarità’ di avere un’anestesista troppo impegnata a commentare i contenuti della propria posta elettronica a
pazienti di livello uno della Glasgow
Scale (**), per potersene tornare a casa e dedicarsi ad altro.
Quando questo avveniva, Catherine sorrideva con gusto. Lo stesso di chi ha
trascorso l’intera adolescenza di fronte ad uno specchio nel tentativo di
correggere un sorriso dalle gengive troppo sporgenti, ed alla fine, ci è
riuscito.
Bastavano cinque minuti di chiacchiera in sua compagnia per giungere alla
conclusione che le voci di corridoio circa la quasi totale assenza di decessi
nella carriera della Dottoressa Thornton erano del tutto fondate;
Il
conseguimento della laurea in Anestesia e Rianimazione non era che
l’espletamento di qualcosa di più grande, una componente di sé già presente nel
suo sangue sin dalla nascita.
Le
brillavano gli occhi, quando parlava del suo lavoro.
Era
l’angelo della corsia. Tutti gli ospedali ne hanno uno, certo.
Ma
il suo era un perfetto esempio dell’applicazione di questo termine al di fuori
dei soliti cliché.
John
la conobbe nello stesso ordine con cui la conoscevano gran parte dei suoi
pazienti: prima la voce, poi il volto.
Il
piede che aveva convulsamente battuto contro il pavimento lucido nel tempo in
cui era rimasto ad attendere fuori dalla Rianimazione cominciava ad essere
indolenzito, e non sarebbe mai stato
così indelicato da entrare senza attendere risposta, se solo la frivolezza
dei discorsi che filtravano al di la’ della porta non
avessero ulteriormente stimolato la sua impazienza.
L’interlocutore
della Dottoressa Thornton - un ragazzo con il cranio fracassato di cui John
reggeva sottobraccio la cartella clinica- aveva le palpebre increspate, infastidite.
Segno
inconfutabile di uno stato di coma profondo, sì, ma forse non abbastanza da schermare del
tutto l’insistente emorragia verbale che giungeva ad disturbare i suoi sensi
intorpiditi.
Come
disturbante John era certo sarebbe apparsa la sua immagine sullo stipite della
porta, che interruppe l’interessante critica negativa di una deludente lozione
per capelli ricci.
Nessuno
dei due volle dare sfogo al proprio disagio; La donna si limitò a portare i
suoi occhi chiari sulla buffa figura ritta come un soldato dinnanzi a sé, e
sorridere. Sempre con quel suo sorriso trasognato.
Uno
sguardo alla documentazione, un rapido confronto con i documenti in possesso
del reparto, due o tre lastre sul pannello luminoso, e nient’altro.
Meno
di venti minuti insieme ed i motivi per desiderare di uscire con lui, Catherine,
li aveva già trovati tutti.
Passarono
due settimane, prima che il suo desiderio potesse divenire realtà.
Non
ebbe mezzi termini né aliti di timidezza. Lo attese al termine del turno
davanti al suo armadietto e, come una reginetta della scuola che non teme
confronti, gli chiese di vedersi dopo il lavoro.
Come
quello di una reginetta fu anche il broncetto
sarcastico che giunse ad increspare le sue labbra al cortese diniego del Dottor
Watson.
Ci
vollero altri tre tentativi perché la sua ostinazione venisse premiata. Dio
solo sapeva perché John avesse accetto.
Lui
non aveva bisogno di ‘ricominciare’. Non vi era stato un solo giorno in quasi
tre anni in cui la sua volontà fosse accidentalmente inciampata su quel
sassolino salvifico che lo avrebbe portato ancora una volta a pensare di
frequentare locali notturni, ammirare le curve di una donna dopo aver
accidentalmente invaso la pista ciclabile, scegliere con cura il nuovo
dopobarba o pensare ad un mutuo, ad un cucciolo di cane che saluta il suo
ingresso scodinzolando e che gli permettesse, magari, di attaccare bottone con
altre proprietarie di cani al parco, possibilmente single e di bell’aspetto.
Non
aveva pensato a niente di tutto questo, John.
Non
sarebbe neppure riuscito a formulare da sé quei progetti tanto alieni, erano
tutti suggerimenti.
Suggerimenti
da parte di coloro che adesso sarebbero stati compiaciuti nel vederlo accanto
ad una donna non eccezionalmente bella, ma dai seni tutto sommato ancora
turgidi.
Sì,
dar adito a quelle voci sarebbe stato alquanto fastidioso.
Eppure lo aveva fatto.
Il
primo incontro si svolse in un Luna Park, scelse lei la meta.
Erano le diciotto e la biglietteria era deserta. Bisogna essere dei veri idioti
per decidere di andare al Luna Park a quell’ora, pensò John. Darsi dell’idiota
per quel motivo, per lo meno, gli impediva di darselo per aver accettato che lei scegliesse un luogo frequentato per lo
più da famiglie con bambini e adolescenti innamorati come sede del primo
appuntamento.
“I
palloncini!” Puntò il dito verso un clown che John non si era neppure accorto
di avere di fronte, e poi congiunse le mani, rivolgendo l’attenzione ad un
Dottor Watson stordito, confuso.
“Oh,
John! Regalami un palloncino!”
Dopo
aver tentato per due ore di star dietro agli interminabili discorsi della
bionda anestesista, pulsava nelle tempie di John una sensazione dolce e
ovattata, forse non troppo diversa da quella che aveva immaginato i suoi
pazienti provare mentre con un conto alla rovescia appena sussurrato,
abbandonano la realtà.
La voce si interruppe in attesa di una
risposta, e quell’assenza repentina riportò John ad un mondo di cui aveva
dimenticato i suoni ed i colori.
Si
guardò intorno spaesato. Fissò la donna
di fronte a sé che spostava dietro l’orecchio i capelli mossi dal vento, quasi
a scongiurare la possibilità di perdersi un solo istante di quello smarrimento,
ed annuì.
“Hanno forma ma non hanno interiorità, a parte
qualcosa di potente che delinea i loro tratti e gli permette di fluttuare...”
Mosse
un po’ il filo del palloncino appena consegnato, lasciando che questo
ondeggiasse lento ed elegante.
“Sono
così simili ai miei pazienti, come si può non amarli? Non trovi anche tu,
John?”
“Non
saprei…”
“Non sapresti?”
“Non
credo ci sia dell’elio all’interno di un essere umano in coma.”
John
sorrise con un sarcasmo gentile ma impaziente. Lo riconobbe.
Tra
una pausa e l’altra, qualcosa aveva preso
a rimescolarsi nel suo petto.
Gli
dava fastidio, avrebbe voluto
eliminarla.
Si accorse che ad avere questo potere, erano le sue parole.
Aveva
bisogno di sentirla parlare, John.
“E
allora cosa?”
Lo
fissava come se egli avesse davvero potuto offrire una risposta al suo quesito.
Si
avvicinò ancora, cancellando definitivamente la distanza che, su quella
panchina, la divideva dall’uomo.
“Cos’è che tiene in vita un uomo in coma,
John?”
“Tubi.
Farmaci, macchine di ogni genere, ventilatori artificiali…nulla
che faccia veramente piacere.”
Davvero
nulla che vale la pena ricordare, avrebbe detto.
Ma
ottima per offrire la più banale quanto esaustiva risposta che avrebbe potuto
dare.
Poco
distante, Il clown da cui aveva preso il palloncino stava adesso gonfiandone
altri.
Lo
sguardo di John si fermò distrattamente su di lui, mentre tentava di distrarsi
da quella sensazione sempre più impellente.
“Oh,
poi c’è quella cosa che ai credenti piace chiamare ‘anima’. Volendo possiamo aggiungerla alla lista delle
cose che tengono in vita una persona in coma…”
A
quella frase, Catherine avvicinò il viso, come volesse appurare da sé la
verità.
“Anima?”
Rise
lei, rise di gusto senza neanche avere il tempo di modulare le labbra per non
far scorgere le gengive sporgenti.
John
non capì.
“Non vedo tubi intorno a John Watson. E non vedo neppure un’anima…”
Camuffò
il fastidio innestato da quelle parole con un sorriso così mal riuscito che
decise di cancellare al volo.
Era
ridicolo.
Strinse
le labbra. Le serrò forti.
Non
riusciva a pensare a niente di più distruttivo per il suo delicato equilibrio
che sentire l’eco di quella conferma dentro sé prender forma, per cui decise di
non farlo. Ne aveva la capacità adesso.
Decise
di approfittare dei vantaggi della morfina verbale che il caso gli aveva
donato, e non cercare nessuna ragione per quella sensazione di vuoto dentro di
sé.
Non
ci aveva fatto caso per tre anni, non era il momento di iniziare a farlo
adesso.
Catherine
apriva bocca, e lui precipitava in un mondo dove le parole della sua mente non
arrivavano neppure a prendere forma. Con il suo tono squillante e veloce,
Catherine soffocava, attutiva, smussava gli angoli della sua ragione, che
veniva inondata di discorsi perfettamente senza senso. E lui li amava.
Oh
sì.
Non
vi erano parole sufficienti per poter dire quanto John la amasse, quella bocca.
E
credendo di amare anche Catherine, John la baciò.
Ecco cos’era quella premura…
Solo
adesso che l’aveva inavvertitamente provata, riusciva a capire i vantaggi di
un’anestesia…
Non
tenne mai il conto di quanto tempo avessero realmente passato insieme.
Simile a uno di quei pazienti comatosi che ad ogni turno Catherine accarezzava
come a scusarsi per aver avvelenato i loro sonni con i suoi monologhi
sconclusionati, John non ebbe mai una precisa memoria storica del tempo
trascorso insieme.
Quattro, cinque…o forse sei mesi. Forse molto di più,
forse molto di meno.
Un’autentica sbronza, Catherine Thornton.
Una ‘donna-alcolica’,
come osò definirla squallidamente, vergognandosi subito dopo dell’oscenità del
suo pensiero.
Eppure divenne veramente l’alternativa
all’alcool e agli psicofarmaci che quel briciolo di morale ancora presente gli
impedì di abbracciare come tutti gli altri.
Se l’amasse veramente? Chi mai poté dirlo.
Perse
qualsiasi facoltà di discernimento, e non si pose neppure troppo la domanda,
John.
Mentre
nella sua mente fluivano parole che frastagliavano i suoi pensieri, egli perse
qualsiasi contatto con la realtà. Con la propria mente, ed infine, anche con il
proprio corpo.
“Scusami.”
Aveva balbettato con un mezzo sorriso nervoso,
reclinando la nuca contro il capezzale del letto.
“Dio, scusami davvero. Sono un po’…un po’ stanco, ecco tutto. Non è colpa tua, davvero,
sono—sono io che sono stanco…”
Perché
lei parlava, parlava, parlava.
Ed
era ciò che John Watson voleva. Voleva dormire ad occhi aperti cullato da
quelle parole bianche che apparentemente lo facevano star bene.
Che
lo facevano star bene.
Catherine tirò le ginocchia al petto ed
allungò un braccio sino a sfiorarne la guancia rosa dall’imbarazzo.
“John.
Non importa. Non sei il primo uomo che frequento a cui accade…”
Quando
diceva qualcosa di semanticamente rilevante la sua voce mutava. Era diversa.
Era comprensibile.
“E’
che parlo tanto…a voi uomini le parole portano così lontano…”
Scivolò
sul lato del letto di John e gli scostò definitivamente la fronte dal braccio
su cui era poggiata.
“Tu dove sei finito, John? Dove ti hanno portato le mie parole?”
L’entusiasmo vispo si scontrò con un’espressione stanca e rassegnata.
Ancora rosso in viso e la fronte imperlata di sudore freddo, John rifletté un
paio di secondi prima di dare la risposta più immediata che potesse proferire.
“Da nessuna parte.”
John
non era andato da nessuna parte.
Adesso
più che mai, continuava a dormire.
Fu
la stessa domanda, più o meno riadattata, a metter fine a tutto.
Così.
Da
un giorno all’altro, l’inaffondabile Catherine gettò la spugna, e si arrese.
“Dove
sei?”
Gliel’aveva
chiesto sorridendo…
…o almeno, era talmente distratto
che prese la sua smorfia di ribrezzo per un sorriso.
“Cosa?”
“Dove
sei, John?”
Una sola parola: spaventosa.
Era
semplicemente spaventosa.
Gli
angoli della bocca tesi innaturalmente verso l’alto, le sopracciglia che
sembravano quasi staccarsi dalla fronte.
Ignorava
il perché se ne fosse uscita con quella frase.
Lui
non aveva bevuto neanche un sorso del suo tè. Teneva stretta la tazza tra le mani
senza una ragione precisa; la teneva
come si trattasse di qualcosa di prezioso, di tenero; forse un nido appena raccolto ai piedi di un albero o un
insetto da liberare in giardino.
Erano giunti in quella sala da tè da quasi due ore, e tutto ciò che John seppe
fare fu tenere tra le mani la tazza e dimenticarsene.
Come
al solito, lei aveva parlato di qualcosa che le orecchie di John avevano
rifiutato in blocco, come fossero articolate
in un’altra lingua che non si sforzava neppure tanto di capire.
Poi
però giunse quella frase. E l’anestesia orale terminò.
Sbatté
gli occhi e gli sembrò quasi di poterle sentire, quelle palpebre muoversi.
Una
lieve increspatura giunse solerte a smascherare tutta l’ipocrisia celata dietro al sorriso
innocente che si apprestò a tirar su; non seppe dire se se ne accorse o meno,
ma non aveva importanza.
Ormai
era fatta.
“Dove
sei?”
Ripeté ancora, senza cambiare espressione.
John
si guardò intorno, quasi per confermare la propria presenza fisica.
“Non dire che sei qui, perché sono un’anestesista, mi accorgo se una persona è
con me o meno…”
C’era
qualcosa nelle sue parole pronunciate con un sorriso da locandina pubblicitaria
sulle labbra.
Un
tremore, sì.
Probabilmente di rabbia.
Tremore
di fronte al quale John non ebbe altra scelta che alzare bandiera bianca.
“Allora…dove sei?”
Dove
era?
Dove era John Hamish Watson?
E’
solo questione di tempo.
Prima o poi tutti, anche il medico migliore, perde un paziente.
--
“Tutto sommato è stabile, i valori stanno lentamente rientrando e risponde bene
alla terapia. Abbiamo iniziato a sciogliere il coma farmacologico ieri mattina,
e durante la notte i colleghi mi hanno riferito che era già contattabile. Oggi
è stata disattivata la ventilazione artificiale per due ore, ma contiamo di completare
lo svezzamento respiratorio solo quando l’emotorace non sarà del tutto risolto,
poi vedremo come va. ”
Non
mostrò alcun segno di imbarazzo nel rivolgersi a lui.
Non
fissava il letto antidecubito su cui giaceva il corpo di Mycroft
Holmes adesso sgombro dalla sporcizia che avevano osato oltraggiare la sua pelle diafana; guardava John. E lo
guardava in viso.
Lo
guardava con un sorriso differente da quello dell’ultima volta che si erano
visti, due mesi prima.
Curiosa.
Catherine
era curiosa.
Senza
preoccuparsi di celare il proprio
interesse, osservava il modo docile con cui lui asseriva alle sue parole senza
scostare gli occhi dal vetro che separava la camera privata del Governo
Britannico dal resto del mondo.
“Ho sentito dire che hai preso parte all’intervento. Lo conosci?”
Solo
un sospiro in risposta. Un sospiro ambiguo che lasciava aperte mille
possibilità.
John
aveva riposato fino alle quattro del pomeriggio, e chiedergli di formulare
qualcosa di interessante a due ore dal suo risveglio era fuori discussione.
“Leyland. Christopher Leyland…” La
donna portò la punta della penna in bocca e ne morse il tappo con gli incisivi.
“Non mi dice nulla il suo cognome. Proprio nulla. Chi è?”
Christopher
Leyland? Pseudonimo poco fantasioso. Banale.
Se
ne sarà ricordato, quando avrà confermato la sua identità al medico che ha
assistito al suo risveglio?, pensò John. Oh, ma certo che lo avrà fatto. Non vi era
alcun dubbio che Mycroft Holmes conoscesse a memoria
ogni sua identità.
“E’ un bel tipo. Ha una pelle
bellissima. Io direi un banchiere, o probabilmente un imprenditore…è vero che indossava un
apparecchio odontoiatrico con un chip?” Domandò con un entusiasmo che non presuppone davvero una risposta.
“Comunque,
ha chiesto di te. E’ stata la prima cosa che ha chiesto, John. Prima ancora di
confermare il suo nome al medico di turno. Il che non avrebbe senso, dato che
non lo conosci. Però ha detto proprio così ,’John
Watson’….”
Catherine
adesso era preoccupata.
Muoveva
le labbra come stesse assaporando qualcosa di appiccicoso, come un pensiero che
faticava ad abbandonarla.
Forse
era lo stesso che John aveva preferito mandar
giù insieme alla saliva.
Dischiuse la bocca per aggiungere altro, ma
quando vide il dottore spostarsi dalla vetrata
ed imboccare il corridoio con passo che tradiva un certo portamento marziale, la sua lingua non articolò nulla.
Ogni tanto, anche Christine Thornton esauriva
le parole.
--
Era
una sensazione sgradevole.
Addolcirla sarebbe servito a poco, ma non avendo scelta, John, come era solito
a fare, ci provò.
Si
era alzato dalla poltrona della on-call room con un senso di pesantezza sullo stomaco, come un
pasto indigesto. Diede la colpa i noodles al formaggio della mensa e al loro ingannevole aspetto.
Ad
essere sincero, non ricordava neppure quale fosse, il loro aspetto.
Quando
con un gesto automatico li portò sul suo vassoio, la loro forma nonché grado di
digeribilità fu l’ultima cosa su cui si soffermò, ma ammetterlo costava caro,
per cui si sforzò di non farlo, mentre con distaccata voracità aveva
mandato giù bocconi di quel pasto privo
di gusto.
Preferiva
di gran lunga credere di aver valutato i piatti della mensa ad uno ad uno e di
aver scelto la sua pietanza nel pieno delle proprie facoltà mentali, piuttosto
che attribuire l’ennesima vittoria a quell’uomo.
La
fastidiosa figura Mycroft Holmes si era appiccicata
alla sua mente con la stessa collosità che aveva tenuto uniti i suoi noodles scotti, e John non era riuscito a trovare un
dannato, fottuto modo di toglierseli quell’immagine di torno.
Aveva
la nausea. Mycroft
Holmes, gli dava la nausea.
Immaginarlo mentre avvicina un’infermiera e con voce rauca scandisce la
richiesta di poter parlare con il Dottor Watson, gli dava il voltastomaco più
del roastbeef che un collega gli propose come
alternativa alla deludente pietanza che si accingeva a consumare.
Si
girò e rigirò su quella poltrona beige. E lo fece più del dovuto, più di quanto
il limite di sopportazione di John Hamish Watson, solitamente,
avrebbe saputo fare.
Prendere
il toro per le corna era da sempre la sua linea di pensiero, si sorprese del
ritrovarsi ancora lì, a concedersi del tempo nella speranza di un’intesa con il
suo corpo.
Ma
quell’attesa non avrebbe portato a nulla. Consapevolezza questa, che costituiva un ulteriore motivo di irritazione.
Non
vi era modo per debellare quel peso indigesto che premeva sul suo stomaco, dunque, non gli rimaneva che alzarsi e
assoggettarsi a quelle spiacevoli contrazioni muscolari, a quel fastidioso disagio
interiore che l’incontro con gli occhi vacui di quell’uomo avrebbe innescato, e
poi, in smacco a qualsiasi forma di malcelata autostima, vomitare.
Vomitare
in faccia a Mycroft Holmes quel rancore muta-forma
coltivato negli anni che premeva a
ritornare al suo fautore.
Si
alzò in piedi con la stessa pesantezza di una donna gravida, spense la luce, e
lasciò che a consolarlo fosse la flebile prospettiva di quel benessere che
sarebbe intervenuto subito dopo.
Quando
i suoi occhi cerchiati tornarono ad esaminare per la seconda volta la figura
inerme sull’unico letto della stanza privata del Reparto di Rianimazione, John aggrottò
le sopracciglia.
Nella
sua mente era apparso diverso.
Era
ingenuamente riapparso in giacca e cravatta, pettinato, profumato, e con quel
vago aroma di vanillina che solitamente aleggiava intorno alla sua robusta
figura.
L’odio che provava per quell’uomo aveva tentato di dipingerlo in una mise
adeguata a quel sentimento; non vi era poi da sorprendersi. Ma la delusione di veder tradite le proprie aspettative,
sotto sotto, lo fece sentire profondamente stupido.
Mentre
sostituiva quell’immagine sofisticata con qualcosa di completamente differente,
la sua nausea peggiorò.
Tubi
sbucavano da ogni dove.
Tubi alla gola, al naso. Tubi alle braccia e tra le costole.
Vi erano tubi persino in luoghi che le inamidate lenzuola di Frette si
impegnavano a coprire, e se la selva di flebo, monitor e drenaggi a cui essi
erano collegati, poteva in un primo
momento dare un’impressione di vulnerabilità, riflettendoci un po’ ci si
sarebbe resi conto che non era poi tanto diversa da quell’invisibile crisalide
di persone che aveva sempre creduto attorniare Mycroft
Holmes affinché il suo livello di incolumità equiparasse, se non di più, quello
di una divinità scesa in terra.
Serviva
un’idea bizzarra - la più bizzarra che avesse mai elaborato- per spiegare
perché questo scudo di sacralità fosse adesso venuto meno, perché qualche ‘cattivone’ ne avesse colto l’occasione al balzo…
Ci
voleva davvero molta, troppa fantasia.
E
John in quel frangente stava usando tutta la sua già scarsa creatività per
trovare un valido motivo per restare in quella stanza, con quella persona, ed impedire al disgusto
di coprire l’ultimo neurone del suo malandato cervello che gli permetteva di
avere ancora una dignità.
Giunse
qualcosa, mentre avanzava a rilento verso il singolo letto della sala.
Forse
un’idea stimolata dal movimento lento dei bulbi oculari arrossati di Mycroft che rotearono verso la sua figura in avvicinamento e
presero a fissarlo.
Da
come le sue pupille vitree si posarono, John iniziò a credere che il Governo
Britannico avesse scelto volontariamente di dipendere da quell’accozzaglia di
presidii intorno a sé, e lo avesse fatto solo dopo una lunga e ponderata scelta
atta ad incontrarlo e conservare la solita posizione di vantaggio che mai
sarebbe venuta meno.
Era
l’Holmes più intelligente, ma non serviva foggiarsi di questo titolo per
immaginare l’espressione schifata con cui John lo avrebbe investito in
qualsiasi altra circostanza, al di fuori di questa, avesse scelto per palesarsi
al suo cospetto. Non sarebbe stato difficile neanche immaginare il grado di ‘piacere’ con cui avrebbe intrapreso una
conversazione con lui, né quello di tolleranza che avrebbe dimostrato per le
sue parole.
Dovette
ammettere però che i barbiturici non ancora completamente smaltiti e l’immagine
fragile di quell’uomo furono solo un piccolo ausilio; perché ad impedire il
palesarsi di quei rigurgiti di rancore che tanto aveva sperato far fuori, ci
avrebbe pensato la morale d’acciaio del Dottor Watson.
Dallo sguardo del suo paziente, John comprese che questa certezza matematica
veniva fiutata senza troppe difficoltà un po’ da chiunque. Ecco perché l’innata
parsimonia di Mycroft Holmes dovette suggerirgli che
questo, sarebbe stato il modo migliore -più sicuro e senz’altro più efficace - di palesarsi dopo tre anni al cospetto di John
Watson.
Emise
un soffio sarcastico dalle narici, John. Stirò le labbra in qualcosa di simile
ad un sorriso.
Era
stata una fantasia sufficientemente stramba da coprire come un velo di make-up
l’oscena immagine del Governo Britannico immersa nella incresciosa, meccanica
necessità di chi sopraggiunge nel cuore della notte con le viscere imbottite di
piombo.
Quando
cominciò a chiedersi se davvero versasse in uno stato di coscienza tale da
esser consapevole della sua presenza, Mycroft chiuse
silenziosamente le palpebre e sospirò.
Non
aveva notato le mani, prima.
Coperte
dal lenzuolo, John non aveva notato il frenetico lavoro della mano destra nel
tentativo di staccarsi di dosso gli elettrodi dal torace.
L’unghia del suo indice aveva preso di mira uno dei dischetti in foam attaccato al petto più della sua inconfutabile
insolenza, e con movimenti indolenti, esso veniva grattato, grattato, grattato…
Fu
il pretesto che diede il la alla conversazione.
“Non
si scomodi. Non sarà il beep di un monitor a
convincermi improvvisamente che lei sia in possesso di un organo chiamato ‘cuore’.”
Crudele.
Crudele
come lo sguardo di Mycroft Holmes su cui John tentò
di ricavare un cenno di rabbia, ma invece non vi trovò niente. Solo occhi vacui
che lo fissavano severo, come se del maggiore degli Holmes fosse rimasto il
ritratto ad olio di un uomo che non c’è più.
“Dottor
Watson.” Provò a formulare.
Solo
un bisbiglio afono. Un rumore meccanico. Nessun tono supponente tagliò quel
silenzio su cui John era già pronto ad edificare possibili lesioni cerebrali o, peggio, il silenzio di un
Mycroft Holmes che si appropria in questo modo della
prestigiosa posizione di chi, volontariamente, sceglie di tacere.
Dall’espressione contrariata che affiorò sul
volto livido, John comprese che Mycroft avesse già
avuto modo di far la conoscenza di quella cannula alla gola pronta a
divorare qualsiasi suono la sua bocca tentasse di pronunciare, ma per una
disattenzione del suo cervello lambito dai farmaci, aveva finito per
dimenticarsi della sua presenza.
Piccola
vittoria agrodolce di John Watson, che ebbe così la certezza che la sua sarebbe
stata l’unica voce che avrebbe risuonato all’interno di quella sala.
Mycroft Indicò
con lo sguardo la sedia alla sua sinistra, poi, con movimenti appena
percettibili del collo, tornò a guardare John.
“Fa
gli onori di casa, noto. Dopotutto, questa è
casa sua, dico bene, Mycroft Holmes?
Senza
attendere risposta, John si portò con
passo svelto verso il lato del letto di Mycroft più
distante da sé, sfilando davanti ai suoi occhi con il suo camice inamidato che
sollevava la sua figura da qualsiasi delimitazione territoriale.
“O
forse dovrei dire Christopher Layland? Ha
detto di chiamarsi così?”
Seguì
tutto il tragitto di John finché questo non prese svogliatamente posto nella
sedia accanto a sé, come a volersi assicurare, prima di emettere qualsiasi
altro doloroso fiato, che la presenza del dottor Watson fosse in qualche modo
stabile. Tirò un sospiro.
“Mi
è difficile immaginare quanto il mio sopraggiungere in questo stato possa
averla confusa, John. ”
John
stirò gli angoli della bocca verso il basso, distolse lo sguardo dal viso
affaticato di Mycroft.
Fece
spallucce. Apparve quasi buffo.
“Mi
creda, è ancor più difficile per me immaginare perché io sia qui con lei,
piuttosto.”
“Non
voglio biasimarla, la sua perplessità è più che lecita. Deve riconoscere però
che sono stato onesto con lei…”
“Onesto?”
John non aveva mai attribuito quel termine al maggiore degli Holmes.
“Dottor Watson.”
Si
fermò un istante, Mycroft. Giusto uno. Il tempo
esatto per riprendere fiato e selezionare con cura le parole.
“Lei
ha sempre saputo di star lavorando per me. Lo ha capito sin dalla nostra unica telefonata. Del resto, dal
canto mio, non le ho mai dato modo di credere il contrario; è stato lei a non voler aprire la porta a
quel sospetto che di tanto in tanto giungeva a pungolarla. Così tipico da parte
sua…”
L’amaro
in bocca era palpabile, adesso. Così amaro che John non riuscì a deglutirlo.
Poté
solo assaporarlo, espandere l’odio sul palato, e accrescere il suo disgusto di
fronte ad un Mycroft Holmes con il viso corrucciato
quasi in una smorfia di sufficienza.
“Perché?”
Fu
l’unica cosa che la morale gli concesse di pronunciare.
Se
solo avesse liberato gli istinti che il suo camice bianco trattenevano,
probabilmente la reazione sarebbe stata ben diversa.
“Perché lei è un eccellente medico militare
con un disturbo da stress post-traumatico
non risolto, ed io… qualcuno che aveva accumulato
un debito nei suoi confronti. Offrirle un posto di lavoro in questo ospedale
era il minimo che potessi fare…”
Il dito di Mycroft
conquistava la vittoria contro uno degli elettrodi attaccati al suo petto, ma la
caduta del dischetto tra le lenzuola passò completamente in sordina. John era
impegnato a contenere le risa.
“Dunque il Governo Britannico affiderebbe i
suoi pazienti più illustri ad un medico militare con un disturbo nervoso? Non è
affatto rassicurante, sa?”
“Li affida ad un medico che ha nostalgia
della guerra, John. Ed è proprio questa sua incompatibilità alla vita quotidiana
a renderla sicuramente uno dei membri più validi di questa struttura- ”
I
rantoli si erano fatti più rumorosi.
“- O
vorrà forse affermare di non aver gradito la scarica di adrenalina sopraggiunta
mentre tentava di strappare alla morte proprio me…”
I
mezzi non gli mancavano, John poteva fingere.
Poteva
fingere di non aver sentito, di aver confuso qualcosa a causa degli
innumerevoli ronzii dei macchinari presenti nella stanza. Poteva fingere di aver
spostato l’attenzione sull’ennesimo elettrodo che le dita del suo riottoso
paziente aveva staccato dal petto e non aver fatto caso a quell’ultima frase
pronta a deteriorare ciò che restava della sua sanità mentale.
Poteva
fare tante cose. Ma non riuscì a fare nient’altro che fissarlo.
Il torace di Mycroft
si alzava e abbassava seguendo ritmi disarmonici, distorti come lo scorrere del
tempo in quella stanza.
L’ammasso di fili trasparenti a cui era
collegato seguivano il medesimo movimento con un ondeggiare che pareva farli
fluttuare in una sostanza simile all’acqua.
Fu in quel momento che John lo riconobbe: era lo stesso burattinaio moribondo
che qualche sera prima aveva trattenuto
a questo mondo. Quello con le dita tese innaturalmente e l’espressione
sconfitta.
Aveva pensato fosse un’impressione, uno
scherzo del suo cervello che si era ritrovato d’improvviso a fare i conti con
un Mycroft Holmes ridotto ad una groviera; e invece
no.
Non era cambiato per niente, Mycroft.
Tentava ancora di recuperare la marionetta fuggita alle sue fila; la sua stessa
presenza lì era un chiaro segno di come l’asservimento al maggiore degli Holmes fosse già una realtà
da tempo, è vero. Ma John era ancora in una posizione tale da sottrarsi alle
fila più scomode.
Così, prima di esserne completamente
soggiogato, decise di agire.
“Bene.” Annuì con un colpo secco della testa,
si alzò.
“La ringrazio per la seduta di psicanalisi
non preventivata gentilmente offerta dal Governo Britannico. Se adesso la
Vostra Signoria me lo permette, andrei a prendere dei nuovi elettrodi per rimettere
a posto il monitoraggio che ha appena distrutto, e poi -sempre con il Vostro
permesso - tornerei a svolgere il mio
lavoro dove vi è bisogno, in modo da non diventare un eventuale parassita per
le casse dell’ospedale.”
“Lasci perdere il monitoraggio, John. In
questo momento potrebbe essere solo utile ad intralciare le mie parole.”
Sollevò un sopracciglio.
L’espressione perplessa del dottore parlò da sé.
“La consideri una precauzione; un atto di gentilezza bilaterale. Nessuno dei
due vorrebbe che la sala venisse invasa da medici sfarfallanti a causa di un muscolo
involontario fuori controllo.”
Riuscire a credere che quelle frasi sconnesse
fossero un primo segnale di una carenza d’ossigeno al cervello, era difficile: Mycroft appariva dannatamente lucido ed orientato,
nonostante le sue parole strambe volessero far credere il contrario…
John
concesse ai suoi polmoni di espandersi
in un respiro profondo, prima di tornare a sedersi anticipando
l’eventuale suggerimento dell’uomo.
“Mycroft,”
Inarcò
la schiena in avanti, in modo che il suo tono di voce fintamente pacato
giungesse chiaro al suo paziente. Volle
assicurarsi che lo fissasse negli occhi, prima di continuare.
“Se
ha intenzione di narrarmi le disavventure che la hanno portata qui da noi con quattro
proiettili in corpo, allora risparmi il fiato. Perché non mi interessa. Non
è finta indifferenza la mia, no. Non mi interessa veramente nulla che non sia già scritto sulla sua cartella clinica.
In caso senta il bisogno di parlare con
qualcuno che possa aiutarla ad elaborare il trauma subìto, sono sicuro che uno
degli psicologi selezionati direttamente dalla sua ‘organizzazione’ saprà ascoltare il racconto delle sue eroiche gesta
con viva partecipazione. Ma non io, Mycroft. Non io. Per cui, se è per questo che mi ha fatto
convocare, allora le dico tranquillamente che il mio lavoro con lei può
considerarsi concluso.”
Un discorso simile andava pronunciato tutto d’un fiato. Tutto d’un colpo.
Avrebbe dovuto abbattersi sull’interlocutore con la stessa impetuosità di una
frana che non lascia neanche il tempo di alzare le braccia per proteggersi.
Invece
venne fuori un discorso vellutato, lento, spietato.
Ammise
però, che piu’ che le parole, furono i suoi occhi a
svolgere la parte migliore del lavoro. Essi inviarono al destinatario la
versione più genuina di quel sentimento che, a voce, aveva dovuto adattare ai
dettami del buongusto.
Mycroft non si
mosse.
I
suoi occhi cerulei sembrarono solidificarsi, trasformarsi in bottoni. Che fosse
bastata una simile formula, a trasformarlo da burattinaio a burattino, John non
lo avrebbe mai creduto.
Tuttavia,
gli fece orrore.
Quel Mycroft Holmes
smarrito in una sorta di metamorfosi autodistruttiva lo indispose, e tutto ciò
che desiderava in quel momento John, era solo fuggire.
“No, John. L’ho chiamata perché ero curioso…”
Atono. La sua bocca articolò le parole quasi senza
muoversi.
Il
gelo della neve che al di là della finestra aveva cominciato ad imbiancare
Londra, d’un tratto, fu lì.
Ad
increspare la pelle di John.
“Curioso
di vedere cosa diventerò.”
Il
dottore si leccò le labbra, come un cane che tenta di scaricare lo stress.
“E
cioè?”
L’uomo
si voltò, spostando il suo sguardo dritto davanti a sé.
Fissava un punto imprecisato nel candore della parete
di fronte.
Al
dottore piacque credere che il suo paziente fosse ignaro del caos generato
dentro di sé, ma lo conosceva a sufficienza da non farsi troppe illusioni.
“Quanto
tempo è passato prima che i suoi occhi si rassegnassero a etichettare l’orrore come ‘quotidianità’,
John?”
Levò
di poco il capo e gli occhi, come se la domanda fosse stata una pietruzza che
lo avesse colpito in piena fronte.
Aggrottò
le sopracciglia, schiuse le labbra per pronunciare qualcosa, ma non sapeva
esattamente cosa, John, e ancor più grave, non sapeva neppure come.
Prima
che se ne accorgesse, il suo viso si chiuse in una smorfia di fastidio talmente
aspra che non seppe trovare sul momento il modo di districarsi da essa e dire
qualcosa.
Ma
Mycroft non sembrò aver bisogno di quel qualcosa di
cui John era alla ricerca, per continuare.
“Quando
il presente va oltre ogni limite dell’accettabilità, il cervello umano tende a
sviluppare una sorta di atrofia delle sensazioni, un’apatia disumana e
soprattutto, disumanizzante. È un
processo lento, ma capirà che è l’unico mezzo che in quel momento la nostra
mente ha a disposizione per tentare di
sottrarsi alla follia. Una volta raggiunto, è come una tuta ignifuga che ci
permette di osservare da vicino l’inferno senza esserne minimamente scalfiti. Lei
è stato in guerra, John. Sono certo saprà bene di cosa io stia parlando.”
Chiuse le palpebre per un attimo, tentò di trarre un respiro profondo dalla
bocca, quando il crepitio della cannula
gli comunicò che essa aveva assolto il compito per lui.
“Saprà
anche che si tratta si un sistema fallace. Non sempre funziona a dovere. Prima
o poi sovviene un’immagine che sbaraglia tutto, che manda in tilt qualsiasi
strumento utile per continuare a vivere stabilmente, e si diventa così. Così
come è lei, John.”
Privo di parole e di capacità di
reazione, trasalì.
Non
si preoccupò neppure di non darlo a vedere; Il Dottor Watson trasalì
rumorosamente come un neonato alla sua prima boccata d’aria.
Poté
sentirne nelle orecchie il tragico riverbero dell’aria risucchiata di colpo nelle
narici.
Gli
fece male. Provò dolore.
Perché
l’aria penetrò nel suo corpo una forza imprevista, tale da cogliere impreparata
anche la venefica apnea in cui era sopito, e quel brusco risveglio alla realtà
fenomenica non fu, al contrario delle aspettative, un’operazione piacevole.
Sentì
d’improvviso il ronzio dei dispositivi intorno a sé farsi più forte, cambiare
rumore.
Non
era colpa degli ululati del vento che fuori figuravano l’arrivo di una tempesta
di neve.
E
non era neanche colpa di Mycroft; da quando aveva
messo piede in quella sala, lui non era cambiato.
Giaceva
semiseduto nella stessa posizione in cui lo aveva trovato al suo ingresso.
Ricordava vagamente il braccia morbide ed esangui, abbandonate di fianco al
corpo invaso da tubi e bende, anche se, nel riguardarle, ebbe l’impressione di
vederle per la prima volta.
Quel
ronzio, adesso così ben chiaro e frastornante, fu qualcosa che probabilmente
era sempre stato lì, ma che la sua mente ovattata gli aveva impedito di sentire.
Così
come gli aveva impedito di sentire tante altre cose, tra cui anche l’incapacità
di stimare quanto essere investiti da una realtà prima d’allora impalpabile
avrebbe influito sulla sua sanità mentale lo trattenne, ancora su quella sedia,
sotto lo sguardo vitreo di Mycroft Holmes che, dal fondo dei guanciali, voltò nuovamente la
testa per incrociarei suoi occhi con quelli del dottore,
e osservarne il vibrare.
Sorrideva.
A
suo dire, lo stava facendo. Nulla avrebbe dissuaso John dal giudicare i
sottilissimi lembi di pelle stirata sul volto di Mycroft
come un piccolo sorriso compiaciuto.
Piccolo abbastanza da confermare il rancore nei suoi confronti e
lasciare che la nausea, come un feto impaziente, cominciasse a scalciare il suo
ventre con forza inaudita.
Ma
dovette ricredersi.
“Torturato per giorni…”
Le
labbra screpolate di Mycroft si mossero incerte.
“Eppure non ha parlato, sa John?”
Per la prima volta da quando aveva
deciso di affrontare il responsabile del suo malessere, John si chiese, lì per
lì, se Mycroft non stesse per avere un infarto. Se
quello sguardo dalle palpebre ora spropositatamente dilatate non fosse tutto il
preavviso che avrebbe ottenuto, prima di ritrovarsi a dover eseguire manovre
d’emergenza su di un cuore di cui non era certo di conoscerne il funzionamento.
Aveva sofferto,sì. Ma non aveva mai smesso di battere.
Né in ambulanza, né sul tavolo operatorio e neanche durante il coma
farmacologico.
John si era inconsciamente convinto che, come l’indifferente scorrere della sua
città, vi sono cose che non si fermano. Non perché non vogliano, semplicemente
non possono essere fermate.
Contro ogni regola della scienza, il
cuore di Mycroft Holmes rientrava nella categoria.
“Massacrato, drogato, seviziato in tutti i modi possibili
in cui si possa seviziare essere umano.”
John
vi lesse un filo di speranza, negli occhi sgranati di Mycroft.
Forse sperava di poter in qualche modo condividere con lui l’invisibile terrore che la sua mente poco
stabile gli stava facendo vivere; forse sperava che John potesse in qualche
modo fare qualcosa per salvarlo da sé stesso.
Forse
invece niente di tutto ciò. Forse faceva
ancora parte di quella grottesco gioco di potere con ci tentava di prendere
nuovamente possesso della sua mente attraverso
frasi sconnesse e decontestualizzate che
lo avrebbero confuso, disorientato.
“Ma non una parola…non una parola…”
Gli
infelici pensieri abbandonarono la sua
mente con la fretta che solo un segnale
acustico ad intermittenza è in grado di provocare.
Cominciò
a risuonare nella stanza, e punse talmente forte i suoi timpani che John
dovette frenare l’istinto di coprirsi le orecchie con le mani. Fu una manna dal
cielo. Un autentico miracolo.
Nulla
avrebbe potuto spodestare meglio Mycroft Holmes dal centro
della sua attenzione.
“Riesce
ad immaginarlo, John?”
No.
Nella
disperata ricerca della fonte rumorosa, John non immaginava nulla. Perché non volle, immaginare nulla.
Felice di potersi rifugiare nella confortevole abitudine dei gesti quotidiani,
John portò erroneamente lo sguardo verso il silenzioso monitor cardiaco,
ricordandosi subito dopo degli elettrodi inattivi che giacevano nascosti tra le lenzuola del paziente. Spostò così la
testa a destra e sinistra, sino a quando, scandagliando uno dei trespoli di
fleboclisi che circondavano il letto,
non ebbe scorto in una di essa la
causa dell’allarme, e il suo volto teso, si rilassò. L’antibiotico era
terminato, e un’altra bottiglia di sostanze non meglio definite era in procinto
di farlo.
“Riesce
ad immaginare fino a che punto un individuo possa essere brutalizzato?”
“Adesso basta, Mycroft.
Sta delirando.”
Delirio
post-operatorio, con l’esattezza.
Non
era certo di poter attribuire ad esso tutta la responsabilità, ma era pur
sempre una spiegazione medicalmente accettabile e non volle sprecarla.
Soprattutto
per zittirlo, si sarebbe rivelata utilissima.
Per far perdere potenza a quelle parole che gli snervanti beep
gli suggerivano essere nient’altro che
un’ulteriore fonte di rumore.
“Nessun limite etico o morale, nessun
freno inibitorio. Così disgustosamente simili a degli animali…”
Prosciugate
da qualsiasi contenuto semantico, si divertì a credere che le spoglie delle
parole di Mycroft stessero adesso decantando tutta la
stupidaggine di un medico che da’ ascolto ad un cervello imbottito di farmaci e,
non contento, riesce persino a ricamarne sopra degli oscuri intenti! Che
sciocco!
“Mycroft.”
Non avrebbe mai smesso di darsi dell’idiota!
Giusto il tempo di riuscire a fare
tacere quella flebo diabolica, e poi davvero non avrebbe più smesso di farlo!
“Così-- volgari.”
“Mycroft, deve
riposare.”
Lasciò che il suo tono risuonasse con
una pacatezza distorta, l’esatta antitesi del resto degli eventi.
Intanto la pazienza necessaria per
insistere sul tasto dello spegnimento si era esaurita; cominciò quindi a
pigiare indiscriminatamente tutti i tasti presenti sul dosatore elettronico.
“Non ha detto nulla quando è stato bloccato a terra…”
“Deve riposare.”
Tasti rossi e tasti blu. Nulla sembrava
obbedire alle sue dita.
Il beep
incalzava, doloroso più che mai.
“Non ha detto nulla neppure quando gli
hanno strappato di dosso i vestiti e sotto i miei occhi hanno--”
“Mycroft!”
Non fu il segnale acustico ad
arrestarsi; fu solo il nuovo modo di
John di percepirlo a tramutarlo in qualcosa di assolutamente irrilevante per le
sue orecchie.
In qualsiasi altra occasione che non lo
avrebbe visto a fissare le labbra semiaperte di un uomo con la stessa paura di
chi teme che qualcosa simile a nitroglicerina possa di momento in momento scivolare
fuori, John si sarebbe volentieri
soffermato a riflettere su che razza di nesso potesse mai esistere tra quel
suono infernale, e il fatto di essersi ritrovato a comprimere contro il cuscino,
la scapola tempestata di efelidi di Mycroft Holmes.
L’aveva spinta con forza, come se,
guidato dall’istinto, avesse ritrovato in essa l’interruttore generale non solo
dell’infernale marchingegno, ma di tutto ciò che in quella stanza tramortiva i
suoi nervi.
Ne ignorava il motivo. L’unica certezza, era che adesso che
quelle labbra si erano fermate, tutti i suoni, compreso quello del proprio
cuore tachicardico, apparvero sopportabili.
Si fermò. Si concesse un attimo per respirare e nel
mentre, ne approfittò per allontanare l’imbarazzante mano dalla spalla
dell’uomo e staccare definitivamente l’alimentazione al diabolico marchingegno
bloccato. Il tutto ostentando una sicurezza di cui non ricordava più neanche la
forma.
“Mycroft, non…” Balbettò. Le parole giuste andavano vagliate ad una
ad una. Fece mente locale.
“Lei è arrivato qui in ospedale con
delle ferite da arma da fuoco. È stato operato, l’abbiamo tenuta sotto
sedazione per un paio di giorni, e adesso, come penso si sarà accorto da solo,
sta già molto meglio. I farmaci possono averla confusa, ma mi dia retta: non è
successo niente di quel che la sua mente in questo momento vuole farle credere.
Adesso deve solo riposare. Va bene?”
Si chiese da quando fosse diventato così
puritano da non volere che un paziente vaneggiasse oscenità in sua presenza.
Così puritano da scansare, con un’eccellente slalom linguistico, qualsiasi
riferimento a termini grotteschi o esplicitamente sessuali.
Come fossero loro, i responsabili di quella sensazione senza nome che ribolliva
nel suo inconscio
Lo osservò mentre sbatteva le ciglia
cispose in un gesto che egli volle credere mirato a dissipare la confusione,
poi il medico raddrizzò la schiena e
tirò un sospiro.
“Le farò somministrare qualcosa che le
permetterà di riposare per un paio di ore. Domani starà sicuramente meglio.”
“Non mi stavo riferendo a me, John.”
Aveva fatto appena in tempo a voltarsi verso l’uscita.
“Parlavo di Sherlock.”
Al
suono di quel nome, John sentì un odore. Il ché era strano, perché le sue vie
respiratorie erano ferme.
Eppure
i suoi organi sensoriali percepirono un effluvio particolare.
Era quello del sangue misto all’umidità che solo l’asfalto di Londra riesce ad
avere.
“Tante
volte mi sono voluto illudere che il corpo di Sherlock beneficiasse solo di
muscoli volontari, governabili in tutto e per tutto dalla sua mente. Poi però
mi sono visto costretto a ricredermi, John.
Anche lui ne ha di involontari…” (***)
John
scosse appena il capo; spalle dritte, mento in fuori, la rigidezza della sua
schiena avrebbe avuto un ché di eccezionale anche per un ex-soldato.
“Sherlock è morto, Mycroft.”
Nessuno era mai riuscito a farglielo dire con una tale sicurezza.
Il
più delle volte, quella frase veniva fuori come un sibilo, come una oscenità
pronunciabile solo a labbra contratte. Se negli anni si fosse davvero
piegato agli stupidi esercizi di accettazione che i suoi terapisti
avevano insistito perché portasse avanti,
adesso avrebbe potuto vantarsi di averlo fatto con il solo scopo di
essere in grado di scandire un giorno quelle parole in quel modo.
Ma non li aveva fatti. Se gli avessero chiesto da dove provenisse cotanta distaccata
fierezza, John non avrebbe saputo
rispondere.
Intanto
Mycroft sogghignò. Sogghignò con uno strano compiacimento
esente da qualsiasi malizia.
Non
era compassione, era piuttosto un gesto di solidarietà verso quegli elementi
riottosi del suo inconscio, una gomitatina d’intesa
che dava loro nuova vita e nuova autorità.
“Quanti
sedicenti ‘esperti nell’elaborazione del
lutto’ ha dovuto interpellare prima di convincersi che niente e nessuno
sarebbe stato capace di farle credere sino in fondo una cosa simile, Dottor
Watson?”
Il
dottore deglutì qualcosa, forse un eccesso di saliva portato dalla nausea che
silenziosamente tornava a lambirgli lo stomaco.
“Quel
che dice è impossibile. Sherlock è morto, l’ho visto io stesso—“
“Certo, lo ha visto. Lo abbiamo visto entrambi, John, ed eccoci qua.” Alzò il mento con la stessa fiera umiltà di un
violinista al termine di un pezzo. “Noi
siamo la diretta conseguenza di ciò che comporta averlo visto. Ciò che comporta aver visto Sherlock Holmes.”
Il
pomo di Adamo si alzò visibilmente; un singhiozzo venne soffocato nella gola
irrigidita del dottore e Mycroft non si perse neanche
un istante di quel momento.
“Sherlock
è vivo, Dottor Watson. E con molta
probabilità, lo è ancora.”
La cannula di Mycroft
gracchiò rumorosa. Il silenzio in cui adesso era sprofondata la sala contribuì
ad esaltare il rumore meccanico con cui quelle parole fuoriuscirono, e farle
giungere più irreali, più improbabili e cattive.
“Se
così non fosse, oggi lei non sarebbe qui a mostrarmi cosa sono destinato a
diventare dopo aver assistito inerme alla vista mio fratello che finge di
conoscere ciò che non conosce, e subisce in silenzio le più ignobili violenze,
pur di garantirsi quell’alito di vita che, un giorno, gli servirà per portare a
termine il suo unico obiettivo;” Inarcò le sopracciglia verso l’alto. “Tornare.
Tornare da lei, John. ”
Un
sorriso nostalgico affiorò sul suo volto, che però svanì immediatamente facendo
largo al più bieco dispiacere.
Distolse
lo sguardo e lasciò che esso vagasse altrove. Una cortesia che volle concedere
a John, o forse una semplice svista. Perché adesso che ogni millimetro di
sangue nella sua pelle si era ritratto, era diventato quasi difficile
distinguere dove cominciasse il volto del medico e dove invece, resto della
sala.
“Mi dispiace tanto.”
Quella
fu l’ultima frase di Mycroft che sentì.
Di
tutto il resto, non colse nient’altro. Ogni tentativo di sollevare la testa e comprendere
il labiale del paziente si tradusse in una serie di rovinosi incontri con il
linoleum del pavimento, imbrattato senza soluzione di continuità dalla bile più
rancida e disgustosa che il suo corpo avesse mai prodotto.
Tre
anni di menzogne, di speranze represse e di sentimenti soffocati abbandonavano
furiosi la morsa del senno e si trasferivano lì, a galleggiare volgarmente tra
i resti di un pranzo indigesto ed il viso di un John Watson a cui non era rimasto nient’altro che la
capacità di scandire, tra un conato ed un altro, lettere di un nome più amaro
del fiele.
THE SILENCE IN BETWEEN
- Fine
primo capitolo-
-
~Note:
(*)
Il priapismo è un'erezione patologica del pene, non spontaneamente riducibile.
Una delle cause correlate è l’utilizzo eccessivo di sostanze contro la disfunzione
erettile.
(**)
Fonte: fisioitalia.eu
(***) Liberamente inspirato ad una concetto tratto dal romanzo ‘Colori
Proibiti’ (Kinjiki – Yukio Mishima, 1953), Feltrinelli, 2009
~Note dell’autrice:
Ho iniziato a scrivere
questa fan fiction nell’Ottobre del 2012.
Dopo averla terminata e riletta, mi sono accorta che faceva a dir poco pietà.
Così l’ho riscritta di nuovo, da capo. L’ho
terminata giusto qualche giorno fa; quattordici mesi dopo l’inizio di questa
avventura. Mi rendo conto da sola che è un polpettone immondo, per cui deh…non ho scusanti.
Volevo creare una Post-Reichenbach tutta mia; una Post-Reichenbach in cui John, dopo la morte di Sherlock, ha
realmente toccato il fondo e non ha più né la forza né la voglia di
ricominciare.
Per cui niente Mary, niente matrimoni in vista, niente al di fuori di una
quotidianità depersonalizzante capace di reprimere nell’inconscio qualsiasi
rigurgito di vita, sino a quel
fatidico giorno.
Non ho idea di quando sarò in grado di postare il secondo
capitolo; sicuramente non presto, visto che sono impelagata con la tesi di
laurea. Ma abbiate fede!
Prima o poi, arriverà!Nel frattempo, non posso che ringraziarvi
per aver letto questo primo capitolo! ^_^
~ Ringraziamenti:
*Il mio più grande
ringraziamento va’ alla mia beta, Silvia (Narcy), che
segue questa fan fiction sin dalla sua ideazione, che ha sopportato i miei
dialoghi sconclusionati al riguardo PER
BEN QUATTORDICI MESI senza mai mandarmi a quel paese (santa donna!), che ha
saputo darmi dei consigli VITALI perché questa fan fiction sia oggi quella che
avete potuto leggere, e che semplicemente, è l’amica migliore che poteva capitarmi
in questo periodo della mia vita.
Ti voglio tanto, tanto bene. <3
*Un immenso ringraziamento
va anche al mio gruppo, il TCTH, che ancora una volta, si conferma essere una
colonna indistruttibile della mia quotidianità, una certezza su cui fare sempre
affidamento e che mai, mai verrà meno. Siete delle grandi e non riuscirei mai a
rinunciare a voi!
*Un grazie infinite anche
ai miei scrittori preferiti: John Irving,
Yukio Mishima, Tim Winton, Lev Tolstoj e Evelyn Waught. Se solo la mia scrittura un giorno arrivasse a
somigliare un briciolino alla loro, potrei veramente
definirmi una donna felice.