Quando Ryouta era stato
invitato a casa di Akira per cenare con lui e Jun, innanzitutto aveva dato per
scontato che fosse per il rientro del collega al lavoro. Di certo non poteva
immaginare ciò che invece si era poi rivelata quella serata.
Raggiunta l’abitazione che già più di una volta aveva visitato, era stato
accolto da Jun; il ragazzo lo aveva fatto accomodare nel piccolo salotto,
chiedendogli se potesse offrirgli qualcosa. Il primo dettaglio che aveva notato
era stata l’assenza di Akira, che lo aveva portato a domandare se il ragazzo
fosse di turno al lavoro. Jun aveva sorriso con quell’accondiscendenza che gli
aveva sempre visto rivolgere al compagno, rispondendo inizialmente con
un’alzata di spalle: «Era al lavoro, ma ora è al locale… quello dove ti ha
portato l’altra volta, da quello che so.» disse, ricevendo un cenno affermativo
da parte di Ryouta, che era comunque in un certo senso perplesso. Era difficile
pensare che Akira avesse preferito andare in un locale da solo piuttosto che
tornare a casa da Jun, vista la recente aggressione; d’altronde non credeva
nemmeno che ci fosse un litigio di mezzo, perché altrimenti dubitava che i due
sarebbero stati nella stessa casa. Anche se in realtà non poteva sbilanciarsi
molto su questo, non sapendone poi molto della loro relazione nel dettaglio.
«È successo qualcosa?» azzardò comunque, osservando Jun sospirare: «Non abbiamo
propriamente litigato. Solo una discussione. Akira ci mette un po’ a smaltire
la rabbia, quando è preoccupato e ultimamente… non è stato molto tranquillo.»
disse, buttando là con un’occhiata al proprio braccio sinistro, il cui polso si
era slogato ed era stato fasciato per i giorni precedenti. Era chiaro che si
riferiva all’aggressione e Ryouta non aveva bisogno certo di altre spiegazioni.
«Visto che domani riprendo a lavorare» riprese Jun «avevo pensato di andare a
bere qualcosa. Ma ho fatto andare prima Akira perché c’è qualcosa di cui vorrei
parlarti. È anche il motivo per cui abbiamo discusso e non volevo che si
agitasse di nuovo.» ammise con un sospiro rassegnato, segno che probabilmente
avevano davvero discusso a lungo per qualsiasi cosa l’altro dovesse dirgli.
Ryouta non riusciva proprio ad immaginare di cosa si trattasse, perché di una
cosa era sicuro, ed era che Akira stravedeva per Jun; gli voleva un gran bene.
O, in effetti, ne era sinceramente innamorato. Nonostante l’iniziale imbarazzo
nel formulare quel pensiero, ora Ryouta ci pensava con un pizzico di invidia: a
prescindere da tutto doveva essere bello avere una persona che riuscisse ad
amarti in quel modo, che ti rivolgesse lo sguardo che Akira indirizzava solo e
unicamente a Jun – e lo stesso il collega, chiaramente.
«Va bene.» disse, accomodandosi per non doverne parlare in piedi «Dimmi.» lo
incalzò.
Jun non ci aveva girato
troppo intorno: con sincerità aveva raccontato a Ryouta tutto quello che c’era
da dire – di come il giorno dopo essere stato dimesso si fosse presentato alla
scuola di Aomine per parlargli e di come ci fosse riuscito. Gli aveva riportato
il discorso fatto all’ex compagno di squadra, e Kise aveva avuto un momento di
panico vero e proprio. Se Jun lo aveva notato o se il resto del discorso che
gli fece fu casuale, questo il modello non l’aveva capito; tuttavia il ragazzo
gli aveva spiegato di non aver fatto il minimo accenno al suo orientamento
sessuale e, in generale, di aver fatto il suo nome solo come amico suo e di
Akira. Gli aveva spiegato di aver parlato con Aomine in primis per se stesso e
per il proprio compagno, e in secondo luogo anche perché credeva che Ryouta
fosse in un momento estremamente delicato. E quando Kise lo aveva guardato
stupito, Jun aveva sorriso con un leggero impaccio che raramente gli era
capitato di scorgere sul viso del ragazzo.
«Tu forse non te ne rendi conto» aveva iniziato a spiegargli «ma per me il tuo
modo di reagire quando ti ho detto di stare con un ragazzo è stato importante.
Sono stato davvero felice quando hai reagito come se nulla fosse, perché sono
davvero in pochi a farlo. Ero pronto a molte cose, ma non a quello, lo ammetto.»
aveva confessato ridacchiando appena e guardandolo dritto negli occhi. E Ryouta
si era sentito lusingato, ma anche un po’ in imbarazzo; lui stesso non
comprendeva l’entità di un gesto o un modo di fare che aveva rivolto all’altro
senza nemmeno pensarci più di tanto. Ma prima ancora che potesse farlo presente
allo stesso Jun, il ragazzo aveva ripreso a parlare: «Per questo quando sei
venuto a parlarmi dei tuoi dubbi mi sono sentito lusingato da tanta fiducia. Può
sembrare esagerato, ma più del rapporto tra colleghi che si incontrano spesso e
lavorano abbastanza insieme, non pensavo ci fossero le basi per una fiducia
simile.» aveva proseguito, occhieggiando il cellulare posato sul tavolo, forse
in attesa di un messaggio di Akira o qualcosa del genere.
«Voglio esserti d’aiuto.» aveva detto, assumendo un cipiglio più deciso, pur
mantenendo lo sguardo gentile che lo aveva sempre contraddistinto: «Non è tanto
un discorso di dire o meno ad Aomine-kun quello che provi, o di mandare avanti
una relazione. E non ho la presunzione di credere di poterti evitare di stare
male.» aveva ammesso, con una nota di rammarico nella voce; era chiaro che
parlasse di un tipo di sofferenza attraverso la quale Jun era passato: «Ma
voglio che tu sappia che sono qui. E non solo per chiedermi un consiglio o dei
chiarimenti. Sono qui come amico.» e aveva calcato appena la parola «E questo
significa che se Aomine-kun o chi per lui ha intenzione di farti stare male,
non rimarrò a guardare.» aveva chiarito.
E probabilmente Ryouta si sarebbe davvero commosso se Jun, avendolo intuito o
meno, non avesse aggiunto divertito: «Sappi però che io non sono bravo a menare
le mani come Akira.» che fece ridacchiare anche Kise.
Quando Jun aveva poi rivelato di avergli voluto parlare temendo che –
giustamente, in un certo senso – Ryouta avrebbe potuto arrabbiarsi per la sua
iniziativa di parlare con Aomine, Kise aveva pensato che non fosse possibile
arrabbiarsi quando qualcuno faceva una cosa simile non solo per se stesso, ma
anche per te.
Perché, dopotutto, per Ryouta non c’era ancora qualcosa che considerasse così
difficile e terrificante come stare di fronte a qualcuno e parlare di sé
sentendosi fieri di ciò che si era, come invece aveva fatto Jun.
La seconda volta nel locale – dove avevano raggiunto Akira – aveva dato a
Ryouta una sensazione strana: si era sentito in un certo senso “isolato”, in
una realtà dove aveva meno bisogno di curarsi delle apparenze ma, al tempo
stesso, che gli dava l’impressione che sarebbe stato ancora più difficile una
volta uscito in strada e tornato di nuovo a casa. Si era sentito sciocco, in un
certo senso, ma aveva capito osservando le altre persone che frequentavano quel
luogo: si trattava semplicemente di non sentirsi sotto osservazione e avere
coscienza che fuori sarebbe stato diverso.
Quando una volta usciti Jun gli aveva chiesto se era tutto a posto, e Ryouta
aveva espresso quel suo pensiero, l’altro aveva sorriso: «Andrà meglio.» gli
aveva assicurato «Quando riuscirai a parlarne andrà meglio. Non c’è fretta,
ognuno ha i suoi tempi.»
Ryouta aveva pensato di aver finalmente compreso cosa volesse dire Akira,
quando gli aveva parlato di non abbandonare anche gli amici che si dimostravano
ben disposti ad ascoltarlo e consigliarlo, o semplicemente a stargli accanto.
Forse avrebbe dovuto chiamare lui Satsuki, per fare un “primo passo” questa
volta.
Forse avrebbe—
«Kise, muovi il culo!» sbraitò il capitano, riportandolo alla realtà e
facendogli recuperare per un pelo il passaggio di un compagno di squadra,
rilanciandola subito ad un altro libero e in una buona zona di tiro; pochi
istanti dopo, il canestro andava a segno e il fischio dell’allenatore indicava
l’interruzione dell’allenamento. Nello stesso momento, Hayakawa gli passava
affianco, dandogli uno scappellotto: «Vedi di fare attenzione!» gli fece
presente, animandosi come sempre in un attimo e accennando con la testa verso
l’entrata della palestra. Seguendo il suo cenno, inquadrò Kasamatsu poco
distante dalla soglia che si era avvicinato al coach, probabilmente in visita
come faceva ogni tanto quando gli orari universitari glielo consentivano.
Kise sorrise più ampiamente, avvicinandosi all’ex capitano quasi saltellante –
dopotutto il loro rapporto era sempre stato così, ed era un modo di
approcciarsi naturale che Kise non aveva mai finto, anzi; anche se all’inizio
era stato strano, venendo dall’ambiente della Teikou: «Senp—
Senpai perché?!» esclamò in risposta allo scappellotto ben più violento che gli
mollò Kasamatsu sulla nuca ancor prima che il saluto del kohai fosse completo.
«Se chiedi perché te lo sei meritato a prescindere!» rimbeccò Yukio,
guardandolo con iniziale cipiglio severo che andò a sciogliersi con l’avvicinarsi
degli altri ex compagni che lo accoglievano calorosamente.
«Come va l’università,
senpai?» domandò Kise, portando lo sguardo sull’altro che camminava al suo
fianco. Si erano separati dagli altri compagni dopo essere andati a mangiare
tutti insieme a fine allenamento, e
ora stavano facendo un pezzo di strada insieme.
Da quanto Kasamatsu gli aveva raccontato, ora viveva in un appartamento vicino
l’università, a basso costo – per ora era solo, ma sembrava che entro massimo
una settimana si sarebbe presentato un coinquilino, o così gli aveva comunicato
il padrone di casa – che era a metà strada tra il locale dove avevano salutato
gli altri e casa dello stesso Kise.
«Normale.» commentò il ragazzo con un’alzata di spalle leggera: «Tu stai
prendendo seriamente gli allenamenti, voglio sperare.» disse, un accenno di
rimprovero e un sopracciglio inarcato, portando gli occhi chiari su di lui.
Ryouta abbozzò un sorriso divertito – il bello di Kasamatsu era che sembrava
non cambiare niente con lui, anche se non erano più in squadra insieme e
c’erano molte meno occasioni di parlarsi. Era grato al ragazzo tanto quanto lo
era all’intera squadra del Kaijou: la concezione che aveva ora del basket, e
dello sport in generale, era merito loro.
«Certo che sì, senpai, perché hai dei dubbi?» si lagnò, imbronciandosi e
strappando un sorriso a Yukio, benché quest’ultimo stesse cercando di
nascondere l’incurvarsi di labbra. La sua domanda non ricevette risposta
tuttavia, e cadde il silenzio mentre continuavano a camminare; fu comunque il
più grande a interrompere quel momento di stallo, pur senza spostare lo sguardo
sull’altro.
«Va tutto bene?» domandò. Di tante cose che Ryouta si era aspettato, quella era
la più insospettabile di tutte. Non tanto perché Kasamatsu non fosse il tipo di
persona che si prende cura degli altri, sebbene a modo suo, o perché non fosse
tipo da affezionarsi agli altri tanto da sentirsi quasi “in dovere” – in senso
buono, assolutamente – di informarsi che tutto andasse per il verso giusto e
che stessero bene. Quel che lo stupì fu che già chiedere come andavano gli
allenamenti era, di per sé, un modo implicito di informarsi sulla forma fisica
– e perché no, anche quella psicologica – di un compagno di squadra. E il fatto
che Yukio non avesse sfruttato quella sorta di codice segreto tra sportivi,
portava Kise a chiedersi se non fosse stata una scelta voluta.
Se la domanda non fosse, invece, mirata per una sfera personale; la cosa non
sarebbe stata strana in altri momenti – inaspettata, forse, ma non in accezione
negativa. Ma Ryouta in quel momento temette di stare fallendo: aveva sempre
nascosto facilmente pensieri e stati d’animo, o meglio ancora, aveva sempre
avuto la capacità innata di mostrare ciò che voleva e quando lo voleva.
La possibilità che così non fosse più, tanto che anche ad una persona che lo
vedeva molto meno del solito come Kasamatsu risultasse facile inquadrare che
qualcosa non andava, era preoccupante e spaventoso.
Avvertì il bisogno di riuscire di nuovo a nascondere le cose, se voleva.
Ma, soprattutto, comprese per la prima volta la grande differenza di stato
d’animo quando era con Jun e Akira e quando, invece, si trovava con chi non sapeva. Era sempre stato così?, si
chiese: passare il tempo con le persone stando attento a controllare le parole,
i gesti, per far sì che non capissero e – anzi – nemmeno sospettassero? Aveva finto molto spesso, lo ammetteva: un po’ per
inclinazione naturale, un po’ per (pessima) abitudine presa sul lavoro e nel
suo ambiente, un po’ influenzato dall’ambiente delle medie e infine perché era più
facile farlo, alcune volte.
Il che, capiva, non lo rendeva un granché come persona; specialmente nei
confronti di quelli come Yukio, capaci di preoccuparsi per gli altri nell’unico
modo che conoscevano e che probabilmente credevano esistesse: con affetto
sincero.
«Non proprio.» lo disse prima ancora di rendersi conto di che tipo di
ammissione si trattasse; di cosa due semplici parole potessero implicare, del
discorso che avrebbero potuto far iniziare all’altro, dei dubbi che potessero
instillare. Lo pronunciò con naturalezza, sentendosi forse quasi in dovere di
ricambiare un interesse sincero come quello di Kasamatsu con una sincerità
almeno parziale, ma quanto più naturale possibile. Perché Yukio era il tipo di
persona a cui nemmeno Ryouta credeva sarebbe riuscito a mentire senza battere
ciglio.
L’ex capitano, però, non fece domande scomode: non gli disse di parlare, non
gli chiese a grandi linee quale fosse il problema. Prese solo atto del fatto
che ce n’era uno, camminando fianco a fianco con l’altro ragazzo, in silenzio;
Kise temeva che stesse cercando il modo migliore di dire qualcosa che, a conti
fatti, non sarebbe mai risultata giusta. Semplicemente perché Kasamatsu non
sapeva, e quello non era il tipo di cosa che puoi commentare senza conoscerla.
Se ripensava a quando aveva ingenuamente preso con leggerezza la confessione di
Jun, Ryouta si rendeva conto di aver davvero peccato di ignoranza, sebbene con
le migliori intenzioni.
E quando raggiunsero un incrocio – quello dove le loro strade si sarebbero
divise, ognuno diretto alla propria abitazione – Kise aveva iniziato a trovare
quel silenzio strano, confortante e colmo d’ansia al tempo stesso; convinto che
si sarebbero salutati come se quella piccola ammissione non fosse mai stata né
pronunciata né ascoltata, si stupì quando Kasamatsu si prese anche la briga di
fermarsi e guardarlo dritto negli occhi prima di pronunciare quanto doveva aver
ponderato fino a quel momento.
«Non so quale sia il problema» premise, forse un’ovvietà «ma se avessi bisogno
di un consiglio o qualcosa del genere, puoi chiamare. Se non hai nessun altro
disposto ad ascoltarti, cosa che reputo probabile visto la lagna che sei.»
aggiunse, trasformando quel commento nella cosa più bella che Kise avesse
sentito nell’ultimo periodo. Il che poteva sembrare strano, visto che non era
certo un complimento quello che gli era stato rivolto, ma Ryouta sapeva che
quello era niente più che il personale modo di Yukio di dirgli che ci sarebbe
stato, se avesse avuto bisogno di qualcuno.
Fu la prima volta, quella, in cui Kise avvertì l’istinto di dire a qualcuno che
non fosse Jun – o che, semplicemente, non fosse palesemente “a posto” con i
discorsi sulla sessualità altrui – di Aomine. Ed era incredibile, a suo avviso,
che si trattasse proprio di Kasamatsu: non solo perché in fondo non erano mai
stati più di senpai e kohai, in ambito di confidenze, ma anche perché Yukio era
sempre stato tipo da imbarazzarsi su determinati argomenti, ed era di quella
riservatezza che non ti taglia fuori per cattiveria ma per una pudicizia
difficile da trovare in un adolescente. Ryouta quasi riusciva a figurarselo, se
gli avesse davvero detto cos’aveva per la testa: Kasamatsu, totalmente a
disagio, lo avrebbe di certo picchiato e forse anche insultato.
Eppure, chissà perché poi, Ryouta aveva la sensazione che non sarebbe stato un
disagio negativo, quello da parte del più grande; questo lo fece sorridere.
Ma non disse nulla se non un: «Grazie, senpai.»
Ed era un ringraziamento sincero.
L’unica cosa i cui Kise era certo, era che non se l’era aspettata così.
In realtà sarebbe stato più corretto dire che non aveva minimamente messo in
conto l’accaduto: dopo la discussione – se così la si poteva definire – con
Aomine in ospedale, il modello si era ritrovato con molta più chiarezza in
testa di quanto si sarebbe aspettato. Era stato evidente, ancor più di quanto
per lui non lo fosse stato fino a quel momento, che sarebbe stato inutile spiegare ad Aomine; così come lo sarebbe
stato aspettarsi qualcosa. Non lo pensava negativamente, o attribuendo qualche
colpa a Daiki. Aveva cercato di razionalizzare, riuscendoci abbastanza da poter
dire che, dopotutto, se si fosse dichiarato ad una ragazza anche lei avrebbe
potuto rifiutarlo; o che se fosse stata una ragazza a dichiararsi a Daiki, sarebbe
potuto succedere lo stesso – eppure,
si era detto all’inizio per poi ricacciare indietro quel pensiero, se io fossi una ragazza sarebbero molte le
cose diverse per Aomine.
Aomine, non più “Aominecchi”. Almeno per un po’: il tempo di abituarsi ad un’assenza
più mentale che fisica.
E in quel modo aveva lasciato passare un altro mese e mezzo, fatto di lavoro e
basket, nient’altro.
Mai aveva pensato che Daiki si sarebbe presentato da lui, specialmente non per
“chiarire”. Per dirla tutta, Kise era stato abbastanza codardo da convincersi
che non ci fosse nulla da dire e aveva sperato nel disinteresse dell’altro,
perché dopotutto sarebbe stato più facile: niente complicazioni, nessun bisogno
di discutere – una cosa che Kise, per sua scelta più che per indole, non era
solito fare – e soprattutto nessuna necessità di prendere il coraggio a due
mani e parlare.
Tutto sarebbe stato semplicemente rimandato e, si era convinto, si sarebbe
sistemato da solo; perché dopotutto te lo insegnavano come perla di saggezza di
una volta, che il tempo sistema tutte le cose e guarisce tutte le ferite – e
Ryouta tutto sommato credeva che non fosse del tutto una bugia, che ci fossero
cose che dopo anni uno semplicemente non ci pensava più, ma non perché fosse
del tutto “guarito” o perché le avesse dimenticate. Era solo che le persone non
erano insostituibili, non erano essenziali e il tempo non cancellava ciò che
qualcuno una volta ti aveva detto o fatto: ti rendeva solo meno sensibile alle
cose, perché con esso le persone “sbiadivano”.
E quando qualcuno non era più importante come una volta, ecco, forse – aveva
pensato Kise – era a quel punto che riuscivi a stare meglio; perché le parole
pronunciate da qualcuno che per te era stato tutto diventavano solo parole
dette da qualcuno che ricordavi essere stato nella tua vita, così come poi ne
era uscito.
Di passaggio.
Nessuno mai si ricordava dei dettagli di passaggio – i cartelli per la strada,
il particolare curioso di un negozio; li vedevi, ma non li ritrovavi mai perché
non ci avevi fatto davvero attenzione.
Così Ryouta aveva pensato che anche le parole di Aomine un giorno sarebbero
diventate il suo “dettaglio di passaggio”. Quindi non c’era bisogno di
spiegarsi nulla, dopotutto; avrebbe solo aspettato e pensato ad altro, perché a
scappare era sempre stato davvero bravo.
«Il tuo amico è venuto a parlarmi tempo fa.» fu Aomine, com’era prevedibile, a
rompere il silenzio una volta che si furono allontanati da occhi indiscreti.
Ryouta pensò che fosse ironico parlare su un campo di street basket: pallacanestro sempre e ovunque, si disse tra sé e sé con
un mezzo sorriso. D’altronde, era lo scenario più adatto, a modo suo.
«Lo so, Jun me l’ha detto.» ammise, mantenendo lo sguardo sull’altro. Jun gli
aveva riportato tutto ciò che aveva riferito ad Aomine, anche se Kise non aveva
avuto davvero bisogno che lo facesse per sapere che il collega non avrebbe mai
detto nulla di veramente “scomodo”; soprattutto, Jun non avrebbe mai rivelato i
sentimenti di qualcuno al posto del diretto interessato. Gli aveva riferito il
tutto per correttezza, questo era stato subito chiaro. Ma Kise pensò che forse
lo aveva fatto anche per metterlo in guardia, in un certo senso. Come a
suggerirgli che doveva aspettarsi che Aomine si sarebbe presentato, se con
delle domande o delle semplici affermazioni questo Ryouta non lo sapeva.
Sentì Daiki schioccare la lingua producendo un verso stizzito e sospirò piano,
senza aggiungere altro: non capiva se lui non gradisse l’idea di essere stato
anticipato, o proprio Jun come persona – o forse Akira, per associazione
diretta, il che era già più comprensibile.
«Bene.» riprese, seccato «Ho parlato con Satsuki tempo fa. Forse» calcò la parola «all’ospedale ho fatto un commento che
potevo risparmiarmi. Quel tuo amico, lì, Jun. È venuto a spiegarmi che il nano
normalmente non avrebbe alzato le mani e tutto il resto.» riassunse e
francamente Ryouta si chiese un po’ dove volesse andare a parare. Gli aveva
appena detto che Jun aveva parlato anche con lui, riferendogli la conversazione
che avevano avuto; non capiva quindi la necessità di rimarcare la cosa, a meno
che Daiki non volesse essere sicuro di dare una propria versione, pensando che
magari a Kise potesse esserne arrivata una distorta.
«Mi ha anche detto di non usare loro due» e Ryouta capì che si riferiva anche
ad Akira «come scusa per arrabbiarmi con te. E a me non importa quello che fai,
ma su una cosa ha ragione.» ammise e puntò lo sguardo direttamente in quello
del modello. Kise sapeva che Aomine era il tipo di testa calda che ti chiede le
cose senza giri di parole, a volte risultando persino sgarbato o privo di tatto
– ma poteva anche interpretare il tutto come il tipo di sincerità che a lui
mancava, e che a volte non era necessariamente un male, rispetto ad altri modi
di fare. Nonostante però conoscesse ben quel lato di Aomine, non si sentiva
pronto ad affrontarlo in quel momento: perché quando Daiki ti parlava con
sincerità poi ne pretendeva altrettanta; e Kise non aveva mai preferito di
poter mentire a ruota libera come in quell’occasione.
«Mi fai veramente incazzare.» disse senza mezzi termini «Sono mesi che ci eviti. E sei libero di fare
quel che ti pare, per quel che mi riguarda. Non sono come Satsuki, io non ho
intenzione di correrti dietro e pregarti di onorarci
con la tua presenza.» e quel “onorarci” era palesemente carico di sarcasmo «Ma
mi fa incazzare che ci prendi— che mi prendi
per imbecille. Pensi che sia stupido? Che non abbia capito che ci stai
evitando?» lo interrogò, con la stessa forza di un ciclone che passa e trascina
tutto via, impietoso, senza scrupoli.
Aomine era sempre stato così: pura, indomabile forza naturale.
E sapere che in fondo avesse ragione, non aiutava a contrastarlo.
«Quindi ora mi fai il cazzo del piacere di dirmi che problemi hai. E non
rifilarmi stronzate su quanto lavori.» lo anticipò «È una scusa che non puoi
usare per sempre.» concluse, rimanendo in attesa di una risposta che Ryouta non
credeva di avere o di essere pronto a dare. Ed era abbastanza certo che
nonostante fosse in grado di mentire, Aomine lo avrebbe capito: magari non
avrebbe mai indovinato la vera motivazione – e come avrebbe potuto – ma di
certo avrebbe compreso che non gli stava dicendo la verità e tutto non avrebbe
fatto che peggiorare.
Rimase fermo, a guardare un punto imprecisato oltre la spalla del ragazzo che
aveva di fronte, intravedendo dietro di lui la familiare forma del canestro. In
una partita Kise poteva concedersi il lusso di copiare le tecniche o le giocate
che vedeva; era stato persino in grado di farlo con i membri della Generazione
dei Miracoli. Ma non c’era nessuno che potesse copiare in quel momento: non la
razionalità di Midorima, non la sfacciataggine – seppur tutta personale e
particolare – di Murasakibara, non il controllo di Akashi né la sincerità
spesso disarmante di Kuroko. C’erano solo le molteplici bugie che avrebbe
potuto costruire nel migliore dei modi o la verità, scomoda e spaventosa.
«Non vi sto evitando.» pronunciò quindi, con un sospiro tirato, vedendo Aomine
inarcare un sopracciglio e tornare subito all’attacco: «Allora non ci siamo
capiti—»
«Sto evitando te.» sputò fuori prima
ancora di rendersene conto o di capire perché mai l’unica verità che non
avrebbe voluto dire – non in quel modo, non in quel momento – fosse stata
l’unica a sfuggirgli tra le labbra. Sbirciando il volto di Aomine e
intravedendo un sopracciglio inarcato capì che se non avesse aggiunto subito
qualcosa, se non avesse dato immediatamente una spiegazione sarebbe peggiorato
tutto in pochi istanti.
«Che cavolo vuol dire che stai evitando me?» chiese infatti l’altro,
osservandolo ora confuso e stupito; evidentemente doveva essersi aspettato una
motivazione diversa e non era escluso che avesse congetturato un qualche
problema che Kise potesse avere con l’intera ex Teikou, o ancora, che non avesse
a che fare con loro ma che al tempo stesso non volesse rivelargli.
«Vuol dire quello che ho detto.»
«Non è una risposta.»
«Vuol dire che sto…» indugiò, cercando velocemente il modo migliore di dirlo «cercando
di non incontrarti spesso.» lo pronunciò, ma suonò assurdo persino a lui che lo
diceva.
Aomine non doveva averla presa molto più filosoficamente di Ryouta stesso: «E
il motivo sarebbe?» domandò spazientito.
«Non posso dirtelo.» replicò subito Kise, quasi frettolosamente, come quando
vuoi toglierti subito di mezzo qualcosa e tagli corto per non andare oltre; di
solito si faceva per far implicitamente capire all’altra parte di non volerne
parlare.
Di solito, l’altra parte non insisteva.
Di solito.
«Mi dici che mi stai evitando, Kise, direi che me lo puoi dire eccome. Direi
che devi dirmelo.» fece notare
spazientito all’idea di dover sottolineare una cosa che reputava assolutamente
ovvia. Dal punto di vista di Aomine, probabilmente il tergiversare di Kise non
era che una perdita di tempo.
«Non posso. Sarebbe impensabile anche solo spiegartelo. E non capiresti. E non
vuoi saperlo, comun—»
«Ora basta.» sputò fuori e Kise si ritrovò spinto all’indietro, la mano di
Aomine che nell’afferrargli il colletto della camicia della divisa lo aveva
sbilanciato indietro; si ritrovò a cozzare contro la rete metallica che divideva
il campo dalla strada, momentaneamente deserta per propria fortuna. Chiuse gli
occhi d’istinto non tanto aspettandosi un pugno, quanto più per il movimento
improvviso di per sé; li riaprì quasi immediatamente e si pentì di averlo
fatto: il viso di Aomine, ad una distanza troppo esigua per i suoi gusti, era
deformato dall’irritazione.
«Non capirei? Non sei nemmeno nella mia testa, cosa cazzo ne sai se lo capirei
o no!» sbraitò, puntando lo sguardo nel suo e rendendo impossibile a Kise
concentrarsi su qualsiasi altra cosa che non fossero gli occhi decisi di Aomine
e quello che stava dicendo: «E se non avessi voluto saperlo non mi sarei
nemmeno scomodato per venire a chiederlo. Direi che ho il diritto di sapere
qualcosa che sembrano già conoscere tutti tranne me, come quei due!» continuò
ad alzare la voce, riferendosi a Jun e Akira.
«Quindi ora fammi il favore di smettere di cercare scuse e parlare, perché non
ti lascerò andare finché non avrai avuto le palle di dirmi che problemi hai con
me, dovessi anche prenderti a pugni. E smettila di fare come se sapessi tutto,
perché non sai niente!» sbottò, senza allentare la presa ma lasciandogli un
poco più di spazio, aspettandosi una risposta che sembrava certo sarebbe
arrivata, a quel punto.
Quella sfuriata lo ebbe, un effetto; uno che forse solo Aomine con quel suo
modo di fare avrebbe potuto raggiungere in così breve tempo, laddove la
gentilezza discreta di Satsuki aveva fallito molte volte.
Kise rimase in silenzio, lo sguardo che si abbassò per qualche istante, con
fare quasi arrendevole; poi incurvò le labbra in un sorriso sbieco, qualcosa
che Aomine credeva di aver già visto da qualche parte ma che non riuscì ad
inquadrare subito, dando il tempo all’altro ragazzo di posare le mani sulle sue
per guidarle ad abbandonare la sua camicia e a diminuire la pressione che lo
teneva fermo contro la rete.
Daiki lo assecondò un po’ perché era preso nella sua personale ricerca di
quell’espressione tra quelle che Kise aveva assunto mille volte in sua
presenza, un po’ perché avvertì che l’altro non si sarebbe defilato una volta
che non fosse stato più alle strette. E quando finalmente catalogò
quell’incurvarsi di labbra, era troppo tardi per cercare anche di dargli una
motivazione – ma era indubbiamente quel sorriso di chi si rassegna
all’incapacità altrui, di chi si è impegnato a non dirtelo fino alla fine ma
poi rinuncia a proteggerti dalle verità scomode. Somigliava al sorriso di
quando Kise aveva dichiarato che avrebbe smesso di ammirarlo; quell’espressione
che implicitamente era stata un po’ come un abbandono.
«Tu sei veramente stupido.» esordì Kise, e il fatto che fosse un modo di
parlargli così poco da lui – seccato, in qualche modo quasi derisorio, lontano dall’ammirazione,
lo scherzoso e il paziente che l’altro aveva sempre riservato a lui – lo
confuse, lasciandolo per un istante a chiedersi chi avesse davanti.
Di nuovo quella fastidiosa, irritante sensazione: era Kise e, al tempo stesso,
non lo era affatto.
«Cos’hai detto?» lo incalzò, rancoroso.
«Ho detto che sei stupido.» ripeté Ryouta sistemandosi la camicia della divisa «Non
so cosa c’è nella tua testa? Non so se vuoi saperlo?» ripeté le sue parole, con
sempre crescente incredulità: «Aominecchi» se lo concesse, quel nomignolo «stai
parlando con la persona che ti ha osservato più di tutte. Persino più di
Kurokocchi, anche se è chiaro che non ti ha mai nemmeno sfiorato l’idea.» sputò
fuori, prendendosi quella piccola soddisfazione personale di rimarcare come
fosse stato lui – Kise – a fare di Aomine il centro di troppe cose, non Kuroko
come il ruolo a basket dei due alle medie aveva sempre lasciato intendere.
«Credi davvero che io non sappia come ragioni?» lo apostrofò retoricamente: «Vogliamo
scommettere Aominecchi? Uno contro uno.» scherzò laconicamente su quel modo che
avevano sempre usato di “scontrarsi” o mettersi alla prova, di tentare – a
conti fatti – di superare i propri limiti.
«Piantala.» gli ringhiò contro l’altro: «E parla.»
«Hai bisogno che te lo dica.» osservò come una rivelazione Ryouta «Non ci hai
davvero pensato. O non hai indovinato. Sai perché? Perché per te è impensabile.»
riprese a parlare, puntando finalmente lo sguardo in quello di Daiki.
Sarebbe andata uno schifo, Kise lo aveva sempre pensato le poche volte che –non
senza una certa inquietudine – aveva pensato a come sarebbe stato dire le cose
come stavano ad Aomine. Ed era ancora convinto che sarebbe andata male, ma mai
come ora aveva creduto che sarebbe stato così pieno di… sentimenti negativi,
tanto da avere l’impressione di stare oscurando completamente ciò che di
davvero importante avrebbe dovuto comunicare.
«Per te è impensabile che due persone come Akira e Jun stiano insieme. Pensare
che due uomini o due donne possano piacersi. O magari sei di quelle persone che
se sono due donne va bene, perché stuzzica la fantasia dei ragazzi, ma se sono
due maschi invece può farti solo schifo. È così?» lo interrogò senza aspettare
di sapere la risposta, perché credeva di non averne bisogno – da una parte si
disse che impedirgli di dire la sua forse fosse un colpo basso, ma sapeva anche
che avendo iniziato a parlare non poteva concedersi il lusso di fermarsi.
«Lo hai già pensato, vero? “Perché Kise è con due così?”, oppure come mai fossi
coinvolto in un’aggressione del genere. La sai la risposta. Vuoi solo
sentirtelo dire.» concluse, più duro tanto nel tono quanto nello sguardo. Ma
provocare, con Aomine, non era mai stato il modo migliore di risolvere le cose.
«Certo che me lo sono chiesto! Satsuki ti chiama al telefono, e all’improvviso
sbianca e mi dice che ha sentito nominare un ospedale prima che la chiamata
venisse interrotta. Arriviamo lì e ti trovo sano e scopro che ci sei finito per
un’aggressione a qualcuno che nemmeno conosco.»
«Da quando devo renderti partecipe di tutte le persone che conosco?!» sbottò
Kise «Da quando ti interessa? Da quando siamo così amici?!» alzò la voce,
pentendosi di quanto detto quando sentì Aomine riacciuffarlo per il colletto e
spintonarlo: «Giusto, come si fa a essere amici di uno che non ha nemmeno la
faccia per venire a dirti che ti evita! Ti riesce molto meglio mentire e
mettere su quel sorriso del cazzo che ti ritrovi!» sbraitò.
«Proprio tu parli di come essere amici? Ma stai scherzando?!» ribatté,
togliendosi di nuovo di dosso le mani di Daiki e facendo un passo in avanti: «Tu
hai ignorato tutti quelli che cercavano di aiutarti. Tutti. Hai ignorato Akashicchi, hai
ignorato Momoicchi che ti corre ancora dietro per evitare che tu faccia
stronzate, hai ignorato Kurokocchi che era il tuo compagno di squadra ideale, l’unico degno.» disse con
sarcasmo «E tu vuoi insegnare a me
come si fa l’amico? Quando mai sei venuto a confidarti, o a rendere conto a me
di quello che facevi? Mai! Io sono sempre venuto a chiedere, io ti sono sempre stato dietro, perciò
ora non venire a dirmi che ti senti ferito» ironizzò pesantemente «se non sono
venuto a raccontarti i miei problemi degli ultimi mesi, perché veramente,
saresti ridicolo!»
Dovette fermarsi, reggersi alla rete dietro di sé quando il pugno di Aomine lo
colpì; sentì il sapore del sangue sulla lingua e immaginò di essersi morso – o che
quel cretino gli avesse spaccato il labbro.
Era intontito, arrabbiato, stupito, indignato e troppe cose che non sapeva
nemmeno più distinguere.
«E quando avrei dovuto chiederti dei tuoi problemi in questi mesi?!» ripeté in
parte le parole usate dallo stesso Kise: «Quando, eh?! Nemmeno Satsuki ne sa
niente, e mi pare che sia venuta a chiederlo. Che problemi puoi avere, da non
poter dire nemmeno a chi te lo chiede se poi ti lamenti che nessuno se ne
interessa?!»
«Mi piaci, va bene?!» sbottò gridando e non sapeva se qualcuno fosse in ascolto
o di passaggio, rispetto a quando aveva adocchiato la strada poco prima, ma non
se ne curò; aveva in corpo troppa rabbia e troppa adrenalina.
«…Tu cosa?» domandò Aomine, confuso evidentemente da
come fossero arrivati a quello che per lui era un commento del tutto scollegato
al resto.
«Mi piaci, ecco il mio problema, ecco quello che volevi sapere! E ora commenta
pure come ti pare. Tanto la tua idea in proposito si è già capita in ospedale.
Non che mi aspettassi nulla di diverso!» sbottò, recuperando la cartella che
gli era caduta di mano nella prima colluttazione e avanzando.
Non rivolse nulla ad Aomine: non uno sguardo, non un’altra parola – nulla, solo
una spallata involontaria nel passare oltre per raggiungere la strada e poi
sparire oltre un angolo.
Solo quando fu lontano dallo sguardo di Daiki – e, per propria fortuna, da
quello di eventuali passanti – batté rabbiosamente un pugno contro il muretto
alto che nascondeva il giardino di un’abitazione come tante nel quartiere,
mordendosi forte il labbro inferiore.
«Cazzo.» sibilò.
Dal momento che più di
qualcuno aveva sperato in un aggiornamento natalizio – e che i miei parenti con
le barbose attività del 25 l’hanno reso possibile – arrivo, anche se con un
pochino di ritardo. Ma fingiamo che sia un regalo per l’anno nuovo XD
Non sapevo di preciso quando far dichiarare Ryouta, ma…
boh, il capitolo è venuto da sé XD
Ora mi attende il parto di Aomine. Perirò nel tentativo.
Di sicuro il prossimo aggiornamento sarà più a lunga distanza (oggi la sventura
del calendario esami si è abbattuta su di me e non posso più oziare ;_;). Sto
cercando di farmi perdonare da subito con questo capitolo, sì *ruffiana*