Anime & Manga > TSUBASA RESERVoir CHRoNiCLE / xxxHOLiC
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Autore: Kuri    24/05/2008    0 recensioni
Shubun no hi. L'equinozio d'autunno.
Dopo la calura dell'estate trascorsa a raccontarsi storie di fantasmi attorno ai falò, con la stoffa leggera degli yukata a sfiorare la pelle, è tempo che gli spiriti ritornino dall'altra parte, fino al successivo equinozio di primavera.
E' quello il momento giusto per onorare i morti, affinchè si comportino bene con i vivi.
Non altrettanto giusto è, secondo Yuuko, è l'invasione che c'è stata in questa ricorrenza del suo negozio e della sua serena tranquillità.
Ma ogni momento è buono per capire quanto quello che abbiamo può essere importante, anche se si è uno degli essere magici più potenti di tutti i mondi.
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Kimihiro Watanuki , Yūko Ichihara
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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23 Settembre - Tra distese scarlatte di sangue e di vita


Watanuki strinse il nodo della cravatta con attenzione, mentre le punte del colletto, rivolte all'insu per consentirgli l'operazione, gli sfioravano le guance.
Gli abiti che indossava avevano l'odore delicato del deodorante che teneva nell'armadio. Era rimasto indeciso fino all'ultimo istante, tentato di mettere la divisa scolastica come ogni giorno, ma alla fine aveva ceduto e aveva indossato il completo elegante.
Forse era anche colpa di Yūko.
Quando la donna creola se ne era andata dal negozio, la sera precedente, la strega gli aveva detto che non c'era più bisogno di lui. L'abito da cerimonia era già pronto su una sedia, ben piegato, e Maru e Moro l'avrebbero aiutata ad abbigliarsi ed acconciarsi come il solito. L'indomani Watanuki avrebbe potuto dedicare l'intera giornata alle sue attività, perché in ogni caso Yūko sarebbe stata assente fino al tramonto della luna dell'equinozio.
Poi gli si era avvicinata, ancora con quel sorriso divertito.
«Apri la mano.» gli aveva detto.
Lui aveva obbedito, stendendo il palmo liscio verso di lei.
Il fermacravatta d'argento era caduto con un luccichio, tanto che lui non l'aveva riconosciuto subito.
«Spero che si abbini all'abito che indosserai domani.» aveva concluso sparendo poi tra i fruscii del kimono di seta, lasciandolo inebetito a stringere tra le dita quell'oggetto freddo.
Watanuki sistemò il fermacravatta. Aveva una decorazione preziosa a forma di farfalla, il cui corpo era formato da una pietra blu a forma di goccia. La sfiorò con i polpastrelli, incredulo, come se si aspettasse di vedere quel piccolo insetto prendere il volo da un momento all'altro.
Watanuki scosse la testa con vigore. Non era certo che fosse una buona idea tenere quella spilla, visto che ogni cosa proveniente dal negozio spesso era legata a vicende o fenomeni poco chiari.
Eppure non riusciva a toglierla.
Si staccò dal lavandino come se separarsi dalla propria figura replicata allo specchio fosse una fatica immane.
La volpe della pipa si avvicinò a lui e si infilò dentro la manica della sua camicia, provocandogli il solito brivido di solletico.
Uscì allora dal bagno ed indossò la giacca, sistemandosi il bavero con i palmi delle mani.
La sua immagine, riflessa ancora allo specchio attraverso la porta lasciata aperta, lo osservò con angoscia lisciare la stoffa scura dell'abito. Alzò la mano, come per richiamare la sua attenzione, ma Watanuki aveva già la mano sulla maniglia della porta all'entrata.
Il ragazzo si bloccò, come se avesse sentito qualcosa.
Sorrise, rassicurato dal silenzio, e uscì dall'appartamento mentre il riflesso muto tentava disperatamente di chiamarlo battendo i pugni dalla sua prigione di vetro.


Pioveva a dirotto. Come aveva predetto quel maledetto.
Watanuki lanciò un'occhiata distratta attorno a sé mentre si avviava verso l'ingresso del tempio della famiglia di Doumeki, sotto il suo ampio ombrello rosso che assomigliava alla corolla di una lycoris.
Il piazzale antistante era gremito di persone che parlottavano e si alternavano dentro e fuori dal perimetro del tempio. Alcuni indossavano abiti comuni, altri avevano preferito i kimono colorati dagli obi preziosi, anche se dovevano sollevarne i lembi per evitare che si inzaccherassero. Altri ancora stringevano tra le mani mazzi di fiori o piccole offerte che avrebbero lasciato nel cimitero per onorare i defunti.
Le aiuole che fiancheggiavano quello spazio enorme erano esplose del colore carminio dei lycoris che il grigiore della pioggia non riusciva a spegnere.
«Watanuki!»
Il ragazzo sollevò il viso. Himawari era in piedi vicino ad uno dei pilastri dell'entrata del tempio e lo salutava con il braccio teso in alto, il palmo che si agitava a destra e a sinistra.
Indossava un cappottino leggero, bianco dall'ampio bavero nero, e il visino era illuminato da un sorriso di dolcezza che gli fece battere il cuore più forte.
«Ciao Himawari-chan...»
«Andiamo, Doumeki ci sta aspettando dentro per la preghiera. Suo nonno poi ci ha preparato il pranzo.» la ragazza lo disse veloce, eccitata dall'idea «Sono molto felice che tu oggi sia venuto al tempio, Watanuki.»
Quelle ultime parole le aveva scandite con lentezza, quasi tutto il significato di quella giornata si condensasse in quell'unica frase.
Watanuki arrossì, scompigliandosi i capelli con la mano.
«Yo...» sentirono dire con voce atona alle loro spalle.
Quando si voltarono, trovarono Doumeki che li aspettava, vestito della veste cerimoniale del tempio.
«La signorina Yūko ci raggiunge dopo?» chiese Himawari incamminandosi di fianco ai due ragazzi.
«No. Andava a pregare altrove.» le rispose Watanuki, senza riuscire ad impedirsi un brivido gelido lungo la schiena.
Compiere tutti i gesti meccanici della preghiera, percependo accanto a sé la presenza rassicurante di Doumeki e Himawari, gli riuscì spontaneo. Il gorgoglio dell'acqua, il suono della campana, tre battiti forti di mani davanti al viso. Sorprendendosi da solo, a differenza di tutti gli equinozi passati, riusciva a respirare.
Sbirciò alla sua destra, dove Himawari si trovava intenta con i palmi delle mani giunti di fronte al viso.
La ragazza aveva un'espressione concentrata, come se quella preghiera, concepita nel cortile del tempio invaso dal profumo dei lycoris, avesse un'importanza vitale.
Di tanto in tanto stringeva gli occhi e le ciglia che tremavano con delicatezza gettavano un'ombra tremula sui suoi zigomi.
Doumeki teneva il viso alto, rivolto a tutto quello che accadeva nel tempio. Saltuariamente accennava ad un saluto nei confronti dei devoti che passavano loro accanto.
Watanuki sollevò la testa. L'aria era immobile e silenziosa. C'era solo il mormorare placido dei visitatori del tempio e lo scricchiolio della ghiaia sotto i loro piedi.
Nessuna voce angosciosa, nessun lamento o mano spettrale rivolta verso di lui.
Solo una profonda pace e la sensazione, che gli provocò un sussulto di piacevole stupore, di non essere solo.


Le bambine le girarono intorno un'ultima volta per controllare che l'ampia gonna nera dell'abito fosse perfetta, senza pieghe.
Yūko attendeva immobile, le mani giunte sul grembo, le palpebre abbassate.
Si sentiva un leggero trambusto all'interno del negozio, ma lei non se ne curava.
Se avesse potuto scegliere, avrebbe voluto non doversi recare al fiume, o almeno poterlo fare da sola, ma anche lei era sottomessa all'inevitabile.
Avrebbe voluto intorno la pace di quella landa desolata e ricoperta di leggera umidità per poter guardare dall'altra parte e, finalmente, vederlo, anche se in tutti quegli anni dalla sua scomparsa non era mai accaduto.
Strinse le lunghe dita in un moto di stizza.
Se avesse potuto parlare con lui, affacciata sopra il corso d'acqua placido che gorgogliava, lo avrebbe rimproverato per questo. Non si poteva scomparire all'improvviso e sobbarcare un'altra persona di una scomoda eredità. Quando ancora lui andava a trovarla nelle sue stanze invase di dolci volute di fumo, intrattenendola con disquisizioni sulla realtà di tutti i mondi possibili, le aveva sempre detto che una sola cosa sarebbe rimasta immutabile e comune per tutti. L'egoismo dei morti, la loro crudeltà sui ricordi dei vivi.
«Bene, possiamo andare.»
Yūko si incamminò fuori dalla camera, lungo il corridoio che conduceva al giardino sul retro. Al suo passaggio, due porte si aprirono. Da una uscì la principessa Emeraude fiancheggiata dal monaco giuda, dall'altra Hinoto veniva trasportata dai propri servitori su un'agevole portantina.
Si accodarono in silenzio, formando una strana processione avvolta da un silenzio profondo, pervaso di misticismo.
Quando sbucarono nel giardino, Yūko alzò istintivamente gli occhi al cielo. Pioveva e tutta la volta era tinta di grigio.
Sorrise tra sé e sé, con dolcezza.
Probabilmente i ragazzi avevano già consumato il loro pasto al tempio e si stavano godendo la giornata a sorbire il thé nella quiete di quell'aria umida.
In ogni caso, l'unica cosa che le importava era che Watanuki comprendesse che a Shubun no hi si doveva essere in grado di dire addio senza rimpianti.
Era buffo però come alla fine lei per prima non si fosse mai trovava nella condizione di farlo davvero, perchè lui era semplicemente scomparso senza dirle una parola.
Yūko alzò il mento in un gesto di decisione altera.
«Mokona, siamo pronti.»
Chiuse gli occhi mentre la bocca dell'animaletto si allargò a dismisura e l'aria iniziò a vorticare furiosamente in quella porta nera.
Nessuno le avrebbe impedito di venire meno alla sua tacita promessa. Nessun destino scritto in qualsiasi dei mondi possibili l'avrebbe sconfitta, per quanto fossero inevitabili. La sua resistenza sarebbe stata implacabile, perché anche questa cosa era scritta nel futuro.
Il vento fischiò con più forza. Yūko sentiva già il profumo delle enormi distese di lycoris che ricoprivano le sponde del fiume.


«Tra poco sorgerà la luna.»
Doumeki teneva lo sguardo rivolto verso il cielo tinto di violetto, un braccio ripiegato sul busto che stringeva una scatola zeppa di polpette, spuntino che avevano acquistato da una bancarella poco lontano. Aveva smesso di piovere e le nubi si stavano disperdendo, liberando ampi lembi di blu.
Watanuki alzò gli occhi. La giornata era stata piacevolissima e placida, libera di ogni sorta di ansia. Avevano già accompagnato Himawari a casa e ora di stavano dirigendo verso il negozio. Watanuki era sicuro che a Yūko avrebbe fatto piacere trovare i suoi abiti pronti per l'indomani mattina, unica nota di ordine nel caos di quei giorni.
«Torna pure al tempio. Proseguo da solo.»
«Non ho nulla da fare, e al tempio è tutto ok.»
Doumeki si infilò in bocca un'altra delle polpette che aveva pescato con uno stecchino dalla propria scatola.
«Non farti problemi.»
L'aveva detto con un tono di voce brusco, reso ancora più smorzato dal fatto che stesse masticando, come se davvero non gliene importasse nulla.
Watanuki sorrise nervoso, grattandosi la nuca con le dita in un gesto imbarazzato.
Se ci fosse stata Yūko, gli avrebbe dato un colpetto nel fianco con il gomito e gli avrebbe ingiunto di ringraziate con un sorriso di affettuosa derisione. Watanuki sapeva che sarebbe stato sufficiente aprire la bocca e pronunciare una semplice parola, ma ogni volta che ci provava qualcosa gli strozzava la gola impedendogli di parlare.
Allungò la propria scatola di polpette sotto il naso di Doumeki.
«Vuoi anche le mie? La tua presenza mi ha fatto perdere l'appe...»
Watanuki si interruppe. Verso di loro si muovevano due figurini che parlottavano piano e i cui passi risuonavano lungo l'asfalto e il silenzio nella notte.
Watanuki sbatté le palpebre quando le due ragazze che avanzavano verso di loro vennero illuminate dalla pozza di luce di un lampione.
Non le aveva mai viste insieme e il quadro che formavano, mentre chiacchieravano tra loro percando da un cartoccio comune piccoli wustel a forma di polipo, era sicuramente bizzarro.
La gotic lolita dai capelli azzurri sorrideva arricciando un po' il piccolo naso in un'espressione lieta che sul bel viso pallido appariva inconsueta. La ragazzina al suo fianco, dal tradizionale kimono fiorito, parlava a voce bassa con una certa foga, come se avesse tantissimi piccoli segreti da raccontare all'amica. Watanuki notò che i suoi capelli scuri erano trattenuti di lato da due piccole mollette con una decorazione a forma di ali.
Quando si accorsero che i due si erano fermati ad osservarle, le ragazze sollevarono lo sguardo ammutolendo di colpo, mentre le loro guance di coprivano di rossore per essere state colte in un atteggiamento così ingenuo e confidenziale.
«Kimihiro Watanuki!» esclamò con foga la Amewarashi puntandogli contro il dito della mano guantata «Non ti ha detto nessuno che è sconveniente fissare le ragazze?»
«Ecco, io... veramente...»
«Ciao...» il saluto della Zashikiwarashi fu solo un pigolio appena sussurrato. Subito avvampò, portandosi una mano a schermare la bocca quasi avesse urlato, e abbassò lo sguardo verso i propri zoccoli di legno.
«Ciao.» anche il saluto di Watanuki era venato di imbarazzo «Siete state a festeggiare Shubun no hi
Appena pronunciata la frase si diede dell'idiota. Probabilmente erano state in compagnia di Yūko dall'altra parte e non come loro in un normalissimo tempio della città.
«Non dire idiozie, Kimihiro Watanuki! Figurati se noi abbiamo bisogno di onorare gli spiriti degli esseri umani!»
«Ehi...»
Lo schiocco furioso della frusta accanto a loro esplose improvviso.
Alzarono gli occhi, sgomenti, mentre il cielo sembrava essersi tinto del nero più cupo. Echi di risate femminili rimbalzavano da una parte all'altra, come se provenissero da ogni angolo del quartiere. Nell'aria si spanse l'odore dolciastro dei ciliegi in fiore. Ma non era il consueto profumo dei delicati petali rosa, quanto piuttosto un tanfo nauseabondo e appiccicoso, come sangue.
«Guarda un po' quanti bei pulcini... non si dovrebbe stare fuori fino a tardi, la sera. Si possono fare incontri sgradevoli.»
In piedi su uno dei lampioni svettava la figura dell'uomo vestito di bianco che li aveva aggrediti due giorni prima. Poco lontano, come un'ombra, stava il ragazzo vestito di nero. Voltava loro le spalle e l'ovale pallido del viso era appena intuibile dietro lo schermo degli occhiali scuri.
L'Amewarashi strinse le spalle della Zashikiwarashi in un gesto di protezione, mentre anche gli altri due ragazzi si facevano più vicini.
«Cosa volete!?» Watanuki cercò di sembrare minaccioso, ma la voce gli uscì arrochita e stentata per la paura.
«Assolutamente nulla dai tuoi amici. Ci hanno chiesto di scambiare quattro paroline con te, piccolo insetto...» in piedi sul muro comparvero le due donne che il giorno prima erano state cacciate da Yūko. La donna dai lunghi capelli neri che aveva parlato lo fissò con gli occhi di ghiaccio come se avesse potuto schiacciarlo solamente con lo sguardo, e lui fosse la nullità più rivoltante della terra.
Doumeki fece un passo in avanti, stendendo il braccio per schermare Watanuki.
«Se c'è una cosa che adoro di questo lavoro sono i tiepidi momenti di coraggio che hanno gli esseri umani. Sono commuoventi.» disse Yuto Kigai mentre la sua frusta schioccava ancora nell'aria.


Dal prato punteggiato di corolle vermiglie sembrava salire il mormorio soffocato di una canzone, come se ogni più piccolo filo d'erba stesse recitando un mantra propiziatorio.
Yūko stava in piedi, la veste mossa dal vento, e avvertiva dietro di sé la presenza di tutte le persone accorse per lo Shubun no hi. Erano giunte da ogni mondo per rendere omaggio, per ricordare che c'era un luogo dove, malgrado la potenza dell'anima, prima o poi ci si sarebbe ritrovati a transitare, non aveva importanza se si aveva a disposizione un solo giorno o centinaia d'anni.
Sull'altra riva, oltre il velo di umidità che saliva dal fiume, si intuiva l'affollarsi di anime. Alcune non erano altro che confuse macchie grigie. Di altre si poteva distinguere una sagoma più definita, qualche particolare importante, che rendeva quella visione unica e straziante.
Yūko alzò gli occhi dalle palpebre pesantemente truccate. La luna era enorme, argentea e traslucida e galleggiava sul cielo lilla e viola.
«È davvero bellissima.»
La strega rivolse lo sguardo verso Mokona che se ne stava placida ai suoi piedi. Sorrise, e il viso cereo assunse un'aria malinconica.
«Già, è davvero bellissima.»
«A Watanuki piacerebbe molto.» continuò l'animaletto dopo un cenno affermativo «Per il prossimo Shubun no hi lo porteremo con noi, Yūko?»
La donna non fece in tempo a rispondere. I suoi occhi riuscivano solo a vedere la gemma blu al centro della fronte dell'animaletto lampeggiare in un angoscioso segnale d'allarme.


Un lembo del vestito dell'Amewarashi sbucava dall'enorme blocco di ghiaccio in cui era intrappolato il corpo dello spirito.
Fili invisibile bloccavano la Zashikiwarashi, tenendola sospesa a pochi centimetri dal suolo.
Gli esserini che solitamente proteggevano lo spirito domestico erano appesi a testa in giù da un albero e si dimenavano mugolando sotto bavagli che non si potevano vedere.
Doumeki era riverso a terra, svenuto, e la veste stracciata del tempio lasciava intravedere le lunghe ferite orlate di sangue provocate dalla frusta di Yuto Kigai.
Watanuki chiuse gli occhi mentre storceva la bocca in una smorfia.
Cercò di riprendere fiato. Poteva anche essere un brutto sogno, il frutto di un'abile illusione. Dopotutto, come gli aveva insegnato Yūko, tutte le sensazioni che un uomo poteva provare erano solo una proiezione della sua mente, di pensieri e pulsioni dettate dai desideri.
Per questo, probabilmente, era solo qualche abile magia a fargli sentire quella sensazione di freddo che dalle punte delle dita gli stava ghermendo il petto e gli faceva pulsate gli occhi nelle orbite.
Seishiro Sakurazuka contrasse con più forza le dita intorno al collo di Watanuki mentre la volpe della pipa tentava di difendere il proprio padrone, mordendo con la piccola bocca la mano guantata dell'assassino.
Il ragazzino della strega delle dimensioni stava dimostrando molta più tenacia e attaccamento dalla vita di quando Seishiro si fosse aspettato.
Si stava aggrappando fiducioso agli ultimi brandelli di vita che gli erano rimasti.
Non se ne voleva andare.
Seishiro abbassò lo sguardo sul fermacravatta di Watanuki, la cui pietra blu pulsava di una debole luce intermittente.
Lo strappò con la mano libera e lo gettò a terra, pestandolo poi con la suola della scarpa, finché non sentì l'oggetto frantumarsi in mille briciole.
Watanuki tremò sotto la sua presa, il corpo sottile sollevato da terra che si scuoteva come in preda ad un brivido, poi esalò un sospiro mentre gli occhi rimanevano spalancati in un'espressione di attonito dispiacere.
Seishiro allargò le dita della mano e il corpo di Watanuki rovinò a terra immobile, come una bambola rotta.
«Possiamo andare.»
Yuto Kigai rimase a guardare il giovane ragazzo occhialuto. Il suo sguardo non tradì nulla, né rammarico, né compiacimento.
Tutti i loro destini erano già stati scritti. Quella era davvero l'unica cosa che contasse.
I quattro sicari svanirono nella notte densa della strada.
Su ogni cosa brillava, indifferente, la luna.


«Benvenuto.» sussurrò una voce modulata vicino al suo orecchio.
Watanuki aprì gli occhi di scatto, come se la sveglia del mattino gli avesse rimbombato con forza nella testa.
Su di lui erano chine una decina di persone che gli sorridevano con dolcezza, sussurrando appena frasi rassicuranti.
Poteva sentire i lunghi steli d'erba carichi di rugiada solleticargli le guance e il vento sussurrare tra i lycoris.
La donna che aveva parlato aveva un viso pallido circondato da una massa di riccioli scuri e ribelli. Aveva labbra morbide truccate di rosso e un sontuoso abito bianco da cui spuntavano due piccole ali che sembravano meccaniche.
«Sei un angelo?» anche la sua voce risuonava gentile nell'aria rarefatta.
La donna ridacchiò chiudendo gli occhi e inclinando la testa di lato.
«No, non ci sono angeli qui. Solo persone. Uh...» la donna sollevò la testa, l'attenzione rivolta altrove «Sei arrivato in un momento davvero speciale, sai?»
Watanuki sbatté le palpebre.
Fu in quel momento che avvertì, trasportato dal vento, il mormorio della preghiera. Era basso e indistinto, e le parole si accavallavano l'una sull'altra, senza forma.
«Stanno pregando per la nostra serenità. È un gesto di rara dolcezza ed è proprio per questo l'atto più prezioso di tutti.» continuò la donna volgendo gli occhi verso l'altra sponda del fiume.
Watanuki portò lo sguardo nella stessa direzione.
Mentre la nebbiolina scorreva tra le rive accarezzando i fiori sempre più rossi e vividi, iniziò ad intravedere le sagome di uomini e donne vestiti di abiti preziosi, dritti in piedi, rivolti verso di loro.
Pur avendo capito dove si trovava, Watanuki non provò alcuna angoscia.
Era semplicemente lì, e basta.
Poi, un pensiero lo colpì con una forza inaspettata che gli fece mancare il respiro.
I suoi genitori. Se davvero si trovava dall'altra parte, avrebbe potuto rivederli, conoscerli, ritrovare tutti i gesti che non aveva avuto in quegli anni trascorsi senza di loro.
Iniziò a percorrere la moltitudine degli spiriti con lo sguardo, nella speranza di rispecchiarsi in volti dai tratti conosciuti. Avanzava tra quelle ombre opalescenti, incurante dei saluti garbati che gli rivolgevano e dei sorrisi di gentilezza. Procedeva fendendo la folla con la spalla, come durante le affollate serate estive tra le bancarelle e le lanterne cinesi. Morto tra i morti, stava cercando qualcuno che lo aveva abbandonato troppo presto.
Watanuki non sentiva più la litania che giungeva dall'altra sponda, il suo gonfiarsi come una fiamma crepitante, per poi tornare ad essere un sussurro. I suoi piedi scostavano i fiori rossi che punteggiavano la landa incantata.
«Mamma! Papà!» pronunciò quelle parole con un tremito incontrollato. Dopo molti anni – tanti che ormai non voleva neppure più conteggiarli – li chiamava con la speranza di una vera risposta, di vederli comparire davanti a lui con i visi gentili e affettuosi.
«Watanuki...»
Si voltò al richiamo di quel sussurro.
I suoi occhi si dilatarono nell'incontrare le figure della Zashikiwarashi e della volpe della pipa nella sua forma completa, con le nove code che si agitavano nell'aria rosa.
«Ah...»
«Watanuki, dobbiamo andare. Devi ritornare. Non è ancora il tempo per te di stare qui.»
La volpe avanzò mentre lo spirito domestico parlava con dolcezza, stringendo le mani in una preghiera carica di lacrime. L'animale gli afferrò delicatamente la manica con i denti e gliela tirò, mugolando piano.
«Vorrei vedere i miei genitori. Vorrei solo vederli per un istante, poi verrò con voi, ve lo prometto.»
La Zashikiwarashi scosse la testa stringendo gli occhi e la sua piccola bocca si chiuse in una smorfia di diniego.
«Non puoi, non abbiamo tanto tempo. Devi venire subito, Watanuki, altrimenti dovrai rimanere qui per sempre, e non puoi...»
Il ragazzo rimase come sospeso.
«Ma...» allargò le braccia, come a voler circondare tutta quella distesa di pace su cui splendeva la luna dell'equinozio.
Watanuki si guardò le mani. Erano le mani di uno spirito. Mani che non avrebbero più potuto stringere nulla, se non quell'erba sottile e quei fiori dal colore splendente.
Chiuse gli occhi.
Cosa aveva detto, Yūko?
Si doveva lasciare andare le cose e le persone ormai perdute. Vivere senza rimpianti, lasciando che il passato sfumasse lievemente alle spalle con il procedere del cammino.
Dire addio, sciogliere le dita intrecciate, e sollevare la testa con il desiderio dell'orizzonte.
E lui non era ancora pronto a dire addio ai bentō preparati per Doumeki ed Himawari, ai gridolini di Maru e Moro, al chiassoso chiacchiericcio di Yūko e Mokona dopo che avevano alzato troppo il gomito. Non poteva rinunciare a tutti i visi incontrati fugacemente per strada, alle giornate di sole vissute con leggerezza, ai mille piccoli dolori che lo avrebbero aspettato.
Non riusciva a pensare di dover fare a meno di tutto quello che ancora non conosceva. Non poteva pensare ad una vita più bella della propria, qualsiasi cosa l'avesse sorpreso nel passato e qualsiasi angoscia lo aspettasse nel futuro.
Non era ancora pronto.
Si voltò, d'istinto, e tra le volute della nebbia la vide che lo fissava con intensità, con quelle iridi rosse che sfidavano il confine del mondo dei morti per posarsi su di lui con ansiosa attenzione.
Le sorrise, inclinando appena la testa di lato.
Non era pronto a dirle addio, ed era sicuro che lei si sarebbe arrabbiata moltissimo, se lui se ne fosse andato senza neppure un saluto.
La figura ammantata di nero di Yūko svanì, mentre l'aria, sul fiume, ritornava immota e silenziosa.
«Andiamo. È ora di tornare a casa.»





   
 
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