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Autore: Macaron    05/01/2014    8 recensioni
“Non ho niente, John. Lascia perdere.”
“Penso di avere ancora un po’ di punti bonus da -il mio migliore amico si è finto morto e mi ha lasciato due anni ad elaborare il lutto- non farmeli usare tutti adesso per farti salire quelle scale a calci in culo e vedere cosa diavolo è successo alla tua schiena.”
“Pensavo che solo gli elefanti avessero una memoria così sviluppata, non sapevo che anche i medici militari fossero così bravi a rinfacciare argomenti vecchi e stravecchi.”
“Giuro che ti ammazzo con le mie mani e mi accerto che tu non possa più tornare indietro. Ora sali quelle scale che voglio controllare che tu stia bene.”

Di ferite sulla schiena, migliori amici che tornano dal regno dei morti e violini suonati sulle scale.
Note: Spoiler 3x01 The Empty Hearse
Genere: Fluff, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note dell’autore (prima stavolta, a sentimento): ambientata durante la 3x01. Diciamo in quel momento subito dopo la scena del vagone della metropolitana, era un momento che sentivo la necessità di raccontare. C’è un po’ di diabete e sicuramente troppe coccoline ma io scrivo sempre di coccoline. Buona seconda puntata *offre darjeeling, copertine antishock e peluche da abbracciare*

 

 

 

John Watson non è un uomo acuto. È un uomo intelligente, è un uomo pratico, è il tipo di persona a cui faresti tirare l’ultimo colpo di pistola se da questo dipendesse la tua vita ma non è un uomo acuto. Sherlock gli ha ripetuto quella frase “Tu guardi ma non osservi, John” in così tante declinazioni che ogni tanto pensa di andare all’anagrafe a chiedere di inserirla come secondo nome. John-Tu guardi ma non osservi- Watson, non male. Gli dispiace un po’ per Hamish, ma non è male. Non è un uomo acuto, non ha spirito d’osservazione ma se c’è una cosa che sa fare, se c’è una cosa che è nato per fare è vedere Sherlock Holmes. E da certe cose non puoi scappare, nemmeno dopo due anni in cui il tuo migliore amico si è finto morto. Non puoi scappare da quello che sei, nemmeno quando vorresti solo mandare a fanculo la persona che hai davanti. Non puoi scappare dall’essere destinato a guardare le spalle a Sherlock, dall’essere la persona verso cui si gira ogni volta che sciorina una delle sue deduzioni. Non puoi scappare da tutti quei “fantastico” che senti sulla punta della lingua ogni volta che apre bocca e legge il mondo intero e non puoi scappare dal tuo essere forse l’unica persona al mondo in grado di leggerlo come lui legge tutti gli altri.

Non si accorge subito di cosa non vada esattamente ma non riesce a fare a meno di non notare che sicuramente c’è qualcosa di strano in Sherlock. Qualcosa che va al di là del fatto che è vivo, cosa che fino a un paio di settimane prima gli sembrava quantomeno impossibile. Sono appoggiati al muro nel corridoio del 221, davanti alle scale, e ridono e tutto è come quel secondo giorno, dopo la corsa alla ricerca del tassista, dopo la scena del distintivo e “Benvenuti a Londra”. Tutto è così familiare, non dovrebbe perché lui non vive più qui, perché è andato avanti maledizione, che gli fa male. Tutto tranne i movimenti di Sherlock che mentre si appoggia alla parete è rigido, impostato quando dovrebbe essere sereno, rilassato. Questa gestualità nel suo migliore amico è l’unica cosa della scena a stridere, è l’unica cosa a renderla diversa da quel giorno con il tassista, è l’unico segno che da quel giorno ad oggi sono passati due anni in cui non si sono parlati e che tutto non può tornare come prima. John non è un uomo acuto, non lo è mai stato, ma sa leggere Sherlock Holmes e riesce a capire quando qualcosa non funziona.

“Cos’è successo alla tua schiena?” ci prova con le buone anche se sa benissimo che Sherlock non gli darà la risposta che spera così facilmente.

“Alla mia schiena? Nulla.” Appunto.

“Nulla? E allora perché invece di essere normalmente appoggiato al muro ti stai tipo contorcendo come se fossi preda di una crisi epilettica o stessi imparando un qualche nuovo ballo che sicuramente non ti si addice?”

“Non vedo di cosa tu stia parlando, John. Riesco benissimo a stare appoggiato al muro. Benissimo.” Un gemito sfugge dalle labbra del consulente investigativo mentre schiaccia la sua schiena contro la parete. Peggio di un bambino, John non riesce a fare a meno di trattenersi dal pensarlo, è peggio di un bambino con cui non puoi averla vinta.

“Benissimo. Già. Andiamo al piano di sopra.”

“Perché?”

“Perché non ho la minima intenzione di toglierti giacca e camicia sulle scale, la nostra padrona di casa potrebbe andare avanti a parlarne per mesi. Andiamo che voglio controllarti.”

Dice proprio così: “la nostra padrona di casa” e quelle parole rimangono a galleggiare per tutto il 221, sospese. Non è più la sua padrona di casa, non è più la loro padrona di casa eppure non può essere nulla di diverso.

“Non ho niente, John. Lascia perdere.”

“Penso di avere ancora un po’ di punti bonus da -il mio migliore amico si è finto morto e mi ha lasciato due anni ad elaborare il lutto- non farmeli usare tutti adesso per farti salire quelle scale a calci in culo e vedere cosa diavolo è successo alla tua schiena.”

“Pensavo che solo gli elefanti avessero una memoria così sviluppata, non sapevo che anche i medici militari fossero così bravi a rinfacciare argomenti vecchi e stravecchi.”

“Giuro che ti ammazzo con le mie mani e mi accerto che tu non possa più tornare indietro. Ora sali quelle scale che voglio controllare che tu stia bene.”

C’è così tanto di non detto in questa frase, ci sono così tante incongruenze, c’è così tanto del loro rapporto. Ti odio per quello che mi hai fatto e non ti azzardare ad andartene. Non ci provare nemmeno.

 

 

 

 

Salta fuori che al 221B c’è ancora una cassetta del pronto soccorso. Probabilmente qualsiasi posto in cui transiti Sherlock Holmes dovrebbe essere dotato dei più semplici kit di emergenza, di qualche cassetta del pronto soccorso, un paio di pistole illegali, un  gigantesco materasso gonfiabile (ci sono sempre troppi tetti in una città come Londra) e altre piccole amenità.

Sherlock finge naturalezza nei movimenti mentre si spoglia di giacca e camicia e intanto continua a lamentarsi di come John sia diventato peggio di una madre apprensiva e veda problemi dove non ci sono.

“Se ti stai per far prendere da un attacco di panico e svenire potresti farlo sulla tua poltrona? La vita di coppia ti fa bene, sembri aver preso qualche chilo e vorrei evitare di farmi venire un’ernia nel sollevarti.”

La schiena di Sherlock è un campo di battaglia. Peggio è un campo di battaglia dopo che un intero esercito è stato sterminato nel modo più violento possibile e per un attimo John si sente davvero sul punto di svenire. In realtà si chiede come Sherlock stesso non sia sul punto di svenire.

Alcune cicatrici ormai hanno fatto il loro tempo e sono vecchie di più di un anno,

Cos’hai passato mentre non ero con te?

Per quanto tempo?

 

Altre escoriazioni invece sono fresche, non possono avere più di un mese. La pelle è martoriata dai lividi e alcuni tagli sono ancora sporchi di un misto tra sangue e pus come se non avessero avuto il tempo di guarire a dovere.

“Non sei andato da un medico per questi?” dice sfiorandogli la pelle.

Sherlock mugugna appena. Potrebbe essere un sì, potrebbe essere un sacco di cose.

“Ti hanno fatto delle radiografie? Anche volendo escludere la rottura di una vertebra, e non sono sicuro di poterlo fare, ti avrebbero dovuto ricoverare per qualche giorno per le contusioni.”

“Come al solito stai reagendo eccessivamente. Non c’era alcun bisogno di ricoveri e lastre, mi sono fatto sistemare alla buona e basta. Non c’è bisogno di fare tutte queste scene.”

“Non c’è bisogno di fare tutte queste scene? Maledizione, la tua schiena è ridotta così male che mi stupisco del fatto che tu riesca a muoverti e non dovrei fare tutte queste scene? E perché diavolo ti sei fatto mettere a posto alla bell’e meglio e basta? Non c’era nessun dottore tra i venticinque vagabondi che tu, Mycroft e Molly avete assunto?”

Non voleva dirlo, gli è scappato. Probabilmente gli scapperanno sempre frasi del genere. Probabilmente non smetterà mai di essere arrabbiato con lui. L’ha perdonato nel momento esatto in cui è tornato perché non aveva alternative, non ha mai alternative quando si tratta di Sherlock Holmes, ma non smetterà mai di essere arrabbiato e ferito.

“Avevano tutti la barba, non ci si può fidare davvero delle persone con troppi peli sul viso*. Per fortuna ti sei rasato, o dovrei dire hai rimesso in libertà quei poveri scoiattoli di S. James Park, altrimenti non lascerei avvicinare nemmeno te alla mia schiena.”

“Come se una tua frase potesse fare la differenza.” Come se qualsiasi cazzata potessi dire potesse impedirmi di essere qui a controllarti, a rimetterti a posto, ad occuparmi di te. Vorrebbe dirlo ma non lo dice. Non ce n’è bisogno, non sono fatti così loro due. Parlano in continuazione, dovrebbe dire parlavano?, ma c’è sempre tanto non detto, tanto del loro rapporto che è appena sussurrato. E va bene così. È sempre andato tutto bene così.

Mi è sempre andato tutto bene di te.

 

 

 

 

Non ci pensa subito. Non ci arriva subito a collegare le ferite ancora aperte sulla schiena del suo migliore amico a quello che è successo al ristorante solo qualche sera prima. Tutti i tagli più recenti sembrano appartenere allo stesso periodo ma quelli ancora aperti, quelli con tracce più evidenti di sangue sembrano appartenere a ferite che sono state riaperte in seguito a qualcosa. A qualcuno. Nel dettaglio a lui che spinge Sherlock sul pavimento di un locale e cerca di strozzarlo con le sue mani.

Quei momenti, quegli attimi confusi, li ha ancora ben memorizzati nella sua mente e in nessun fotogramma c’è Sherlock che prova a fermarlo con violenza. Non è un idiota, non è un dilettante in fatto di combattimento corpo a corpo, è Sherlock Holmes andiamo lui sa fare qualsiasi cosa, ed è più grosso di lui, gli ci sarebbe voluto così poco per assestargli un pugno e far finire lui a terra, per proteggersi. Invece quello che ricorda di quei momenti sono le mani del suo migliore amico che si aggrappano alle sue e che anche quando l’aria inizia a mancargli (era molto arrabbiato ok? Potrebbe aver leggermente esagerato con la violenza, ok?) rimangono sulle sue, quasi a volersi attaccare a lui, più che a volerlo allontanare per ricominciare a respirare. In nessun movimento di Sherlock c’è un gesto di protezione verso se stesso, verso la sua schiena martoriata, verso la sua successiva asfissia, è come se invece volesse aggrapparsi a John e non volesse permettersi di fargli male.

Sfiora ogni taglio con le dita e per la prima volta da quando ha iniziato a controllare la schiena di Sherlock nei suoi gesti non c’è nulla di professionale, non c’è il medico, c’è l’amico. C’è una parte di lui che vorrebbe chiedergli scusa, c’è una parte di lui che vorrebbe sapere se in quel momento quando cadeva sul pavimento si stava punendo pensando che permettergli di fargli del male avrebbe reso più semplice il perdono (ti ho già perdonato, ti avevo già perdonato solo che non potevo dirlo ad alta voce).

John le conosce le ferite di guerra, si ricorda benissimo quanto è stato male durante la permanenza in Afghanistan, si ricorda la sensazione di ogni escoriazione, di ogni livido, si ricorda ogni minuto della guarigione dalla ferita alla spalla e non può fare a meno di chiedersi se è lui ad essere il personale campo di battaglia per Sherlock Holmes. A chiedersi quante di quelle ferite inflittegli negli ultimi due anni abbia sopportato solo per proteggerlo, per garantirgli salva la vita, per permettergli di andare avanti, di trovare una ragazza in gamba da sposare (perché non sei tornato prima? Perché non mi hai portato con te?), di essere felice.

Sono il tuo campo di battaglia? Hai davvero fatto tutto questo non solo perché sei un genio supponente che vuole sempre vincere ma anche per salvarmi? Ne è valsa la pena? Ne vale ancora la pena?

 

“Su quanti di questi tagli c’è il mio nome sopra?”

Gli sembra di avvertire un tremito sotto le sue dita mentre continua ad accarezzargli la schiena sperando di poter ammorbidire la muscolatura completamente irrigidita dal dolore. Sperando di riuscire a fargli passare tutto il male.

“John mi hai spinto sul pavimento di un locale alla moda, non mi hai scagliato su dei cocci aguzzi. Non essere stupido.”

“E tu non iniziare a non rispondere alle domande. Quanti di questi tagli hanno permesso che io sia qui?”

“Nessuno più del necessario. Nessuno che non valesse la pena.”

 

 

Rimangono così mentre il tempo sembra dilatarsi all’infinito. Così semplicemente a parlare e non parlare. Qualche frase appena accennata, qualche battuta sulla stupidità degli agenti che li hanno trovati nella carrozza della metropolitana, qualche domanda su quel Moran che a John non convince proprio per niente, che sembra troppo ovvio perfino per una persona poco acuta come lui. Qualche frase a interrompere un silenzio fatto solo dei loro respiri e delle dita di John che spalmano un gel lenitivo sui lividi della schiena di Sherlock. È tutto come due anni prima e al tempo stesso è tutto così diverso, ma la sensazione di casa, di calore, di essere esattamente nel posto giusto quella non riesce a mandarla via nemmeno costringendosi a ripensare a tutto quello che ha sofferto in questi ultimi due anni e invece a tutto quello che di buono lo aspetta con Mary in futuro. Com’è possibile? Com’è possibile che sia così facile non dico dimenticare ma far passare in secondo piano dolore, rabbia, rancore, delusione, solo sentendo battere il cuore di una persona sotto le tue dita? Come può bastare solo questo a farlo sentire vivo? A farlo sentire completo?

John non ha mai creduto all’anima gemella, erano tutte sciocchezze da ragazzine. Ha sempre creduto nel farsi una famiglia, nel cercare una persona in gamba, una persona che voglia le tue stesse cose nel tuo stesso momento e provare a costruire qualcosa insieme, facendosi il culo giorno dopo giorno. Ha sempre creduto in quello eppure, in questo momento, con la schiena calda di Sherlock sotto le sue dita e il suono dei loro respiri che si regolano l’uno con quello dell’altro a riempire la stanza non riesce a fare a meno di chiedersi se per ogni John Watson non esista uno Sherlock Holmes al mondo capace di riempire totalmente la sua vita e fargli desiderare di rimanere bloccato in un limbo per sempre. Un limbo fatto di casi che ti fanno rischiare la vita, di pistole, di corse in giro per Londra, di ferite da ricucire, di violini suonati, di toast smozzicati appena e di casa.

“Ho sentito il violino quando sono tornato l’ultima volta a Baker Street, lo sai? Quando sono venuto a trovare Mrs. Hudson.”

“Il violino? Quello che si sente quando s’incontra per la prima volta il grande amore?”

“Quelle sono le campane, Sherlock! O al massimo i fuochi d’artificio.” Ride.

“Le hai sentite con Mary?”

“Le campane? I fuochi d’artificio? Non ero proprio predisposto, sai, in quel periodo ma sì direi che le ho sentite.”

“E quando hai visto me la prima volta?”

“Con te ho sempre sentito il rumore del campo di battaglia. E della mia melodia preferita al violino, che coincide con quello che tu più odi suonare, quando non riuscivo a riaddormentarmi dopo un incubo.”

“Non pensavo te ne fossi mai accorto.”

“Te l’ho già detto in passato: non sono stupido, lo sai? Ma tu tendi sempre a dimenticarlo.”

“Non ho mai dimenticato nulla di te.”

 

 

 

 

 

*Citazione del casebook, più o meno.

 

 

 

  
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