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Autore: Kim WinterNight    05/01/2014    4 recensioni
«Samuele era un ragazzo allegro.
Amava salire sul palco e cantare, suonare, improvvisare, qualsiasi cosa.
Amava modulare la sua voce, amava renderla sempre migliore e amava sperimentarla durante i live.
Gli piaceva da matti l’idea di avere un pubblico, ma non si montava la testa.
Samuele era semplicemente se stesso.»
Una storia introspettiva, una storia d'amicizia, di musica e d'amore.
Semplicemente una storia, la storia di Samuele.
Una dedica speciale va alla persona che mi ha ispirato. Probabilmente non leggerà mai queste righe come io ascolto le sue canzoni, però sono certa che ha già compreso quanto sia riuscito a rubarmi l'anima in una sola serata.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Samuele'
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Post-concerto

 

 

 

 

 

 

 

Samu!”

Sobbalzai, spalancando gli occhi, allarmato.

Samu, svegliati, ma insomma! Sembri un deficiente!”

“Ma si può sapere cosa cazzo…?”

“Ti prendo a ceffoni, hai capito? Modera i termini!”

In quell’esatto istante mi resi conto che a parlarmi era mia madre e sbiancai.

“Ehm, mamma… scusami, io… sognavo e…

“Disgraziato! A che ora sei rientrato ieri?!” sbraitò, trascinandomi giù dal divano.

“Mamma, un attimo! Ehi!”

Caterina, mia sorella minore, si stagliava nella soglia della cucina e se la rideva, osservando quella scena che si ripeteva spesso e volentieri la domenica mattina (ehm, pomeriggio).

“Ma quale attimo e attimo, scansafatiche che non sei altro!”

“Oh, mamma, siete una comica” proruppe Caterina, cercando di guardarsi allo specchio che stava appeso all’ingresso.

“Zitta tu!” esclamai, quando mia madre mi lasciò andare.

“Insomma, venite o no a pranzo?” sentii domandare dalla cucina.

Era stata mia sorella maggiore a parlare. Si chiamava Alessia e aveva otto anni in più di me.

Mia madre sospirò e la raggiunse in cucina.

Io fulminai Caterina con lo sguardo e mi diressi verso il bagno.

Quello era il mio tipico risveglio dopo le serate. La tortura era appena all’inizio.

 

 

­­­

***

 

 

 

Cos’era successo la sera precedente?

C’era stato un concerto.

Sì, fin qui potevo arrivarci, mentre pian piano riaprivo gli occhi e mi stiracchiavo nel mio caldo e accogliente letto.

‘Devastante’, pensai.

Sì, fu quella la prima parola che mi venne in mente, l’unica cosa che riuscii ad associare a ciò che era accaduto soltanto poche ore prima.

Mi venne in mente un ritmo, come una melodia che però non riuscii a tradurre in suoni concreti.

Era una melodia che non avevo mai udito prima di quella sera.

Era qualcosa di strano, emozionante e impalpabile.

Era stato quel ragazzo a cantarla, di questo ero certa al cento per cento.

Come si chiamava?

Samuel, sì, si chiamava Samuel.

O forse no? Ero confusa.

Ricordai nitidamente tutto, in un unico fulminante istante.

Lui che cantava, che si agitava come un ossesso e sembrava galleggiare in un’altra dimensione. Perfino a fine concerto rimase così, a ballare, mentre un dj selezionava brani che la folla ballava.

Ma quello che si agitava più di tutti era lui.

“Mia, alzati, è arrivata nonna!” gridò mia sorella, strappandomi a quei ricordi.

“Sì, arrivo…” Sbadigliai, mettendomi a sedere.

La mia camera era sempre la stessa, la casa idem.

Forse, quella che era realmente cambiata ero essenzialmente io.

 

 

 

***

 

 

 

Samuele ci raggiunse in cucina e io gli sorrisi, felice.

La sera precedente ero andata a vederlo cantare ed era stata – come al solito – una gioia per il cuore e per le orecchie.

Mio fratello era così, emozionava e basta.

Mia madre era incazzata, come al solito. Non vedeva di buon grado il fatto che suo figlio rientrasse sempre più spesso ad orari improponibili per lei.

Avrebbe preferito che Samuele avesse un impiego normale, un lavoro che gli garantisse degli orari più regolari e tutto il resto.

Mia madre era una tradizionalista, non c’era niente da fare.

Mio padre, invece, non aveva semplicemente niente da dire. Tra lui e Samuele le cose non funzionavano, perciò fingeva che ogni cosa riguardante il figlio gli fosse indifferente.

Caterina era un po’ come lui ma io riuscivo a comprenderla: era un’adolescente forse un po’ troppo viziata, con gusti musicali diversi e ristretti. Aveva assistito raramente agli spettacoli di nostro fratello e riteneva quella musica “una palla da fenomeni da baraccone”.

Per non parlare poi dell’acconciatura leonina di Samuele che aveva destato imprecazioni e discussioni tendenti al tragico per almeno un mese.

Ma, si sa, prima o poi ci si rassegna a certe cose, mentre ad altre no.

Dal canto mio, mi divertivo a stuzzicare i miei famigliari, raccontando con entusiasmo dei concerti di Samuele.

“Ah, dovevate esserci ieri sera, è stato stupendo!” esordii, versando della pasta nel piatto di mia madre.

“Per carità!” sibilò quella, scuotendo il capo. “Mi sarebbe venuto mal di testa!”

Ehm… mamma ha ragione!” esclamò Caterina, rimirandosi in uno specchietto da borsetta che portava sempre con sé.

“Ma cosa ne capirai tu” la punzecchiai, strappandole l’oggetto dalle mani.

“Stronza, ridammelo immediatamente!”

Samuele scoppiò a ridere, strizzandomi l’occhio.

“Caterina, non usare questi termini” ordinò mio padre, intervenendo per la prima volta.

Ma…

“Dimmi, Cati, sei andata in disco ieri?” ironizzò Samuele, ficcandosi in bocca una forchettata di penne al pomodoro.

“Sì, perché? Sei invidioso?”

“Di te? No, grazie!”

Eccola, la mia famiglia.

Quella era la tipica atmosfera post-concerto-di-Samuele, sempre la stessa.

E io l’adoravo così com’era, imperfetta e solo nostra.

 

 

***

 

 

 

Sì, che palle!

Mia mi aveva trascinato per l’ennesima volta ad uno di quei concerti di musica schifosa.

Cantavano di religione, di dio, di tutte queste stronzate.

Io stavo desiderando un bel concertine black metal con i controcazzi!

Meno male che a Mia piaceva tutta la musica, almeno sarebbe stata felice di accompagnarmi a sentire qualche gruppo che veramente mi interessava.

Si era incantata fissare un caprone con capelli attorcigliati, rasta.

“Si chiamano dread!” mi correggeva spesso.

Chi se ne frega, sempre facevano schifo! Possibile che quella ragazza potesse apprezzare quegli orrori?

Mentre pulivo la mia camera, ascoltai in ordine sparso canzoni di vari gruppi metal che amavo e mi sentii subito meglio.

Bastava dimenticare quel concerto e pensare al futuro.

Mia, comunque, era matta da legare.

 

 

 

***

 

 

 

Dopo pranzo, mi rintanai in camera mia e mi stesi sul letto.

Dormire sul divano mi dava sempre la sensazione di non riposare a dovere. Il problema era che, quando rientravo dopo aver cantato o suonato, non riuscivo mai a trovare le forze per salire le scale e mettermi a letto.

Rientravo a casa sfinito ma soddisfatto.

Era soltanto mia madre, la mattina seguente, a rovinare il mio ottimo umore.

Allora mi ripromettevo di salire in camera la prossima volta, in modo che lei non avesse l’occasione di riprendermi ma ogni volta era sempre la stessa storia.

In quel momento ricordai qualcosa che era successo, qualcosa a cui momentaneamente non avevo dato importanza.

Dopo il concerto diverse persone avevano chiesto di poter fare una foto con me e io ero stato felice di accontentare tutti.

Nel frattempo, ballavo e mi muovevo a tempo di musica, lasciandomi trascinare dal ritmo incalzante del basso che mi penetrava nell’anima.

Quando il mio amico Stefano selezionò il featuring tra Damian Marley e Skrillex, venne il turno di una ragazza.

Mi aspettava sotto il palco una sua amica, una tipa strana e completamente vestita e truccata di nero e – non appena riuscì ad intercettare il mio sguardo – mi fece cenno di avvicinarmi.

La sua amica, non appena mi avviai verso di loro, indietreggiò di qualche passo.

“Ciao, possiamo fare una foto?” domandò la ragazza, sorridendomi.

“Certo, volentieri” acconsentii.

“Ehm, Je? Potresti farci la foto?” gridò la ragazza alla sua amica.

Quella sbuffò e afferrò la macchina fotografica.

Quella ragazza così cupa mi incuriosì. Aveva due occhi verdi splendenti, i capelli mossi e un’espressione imbronciata.

Era bella e gli occhiali la rendevano ancora più affascinante.

La ragazza che mi aveva chiesto di fare la foto si mise in posa, posandomi timidamente una mano sulla spalla.

“Dai, sorridete” disse la sua amica, senza entusiasmo.

La ragazza che mi stava accanto sorrise e io feci lo stesso, senza distogliere lo sguardo dalla fotografa improvvisata.

Lei scattò, il flash mi abbaccinò per un attimo la visuale.

“Un’altra!” disse la mia ‘fan’, avvicinandosi un poco a me.

La dark scattò ancora.

“Grazie.”

“Di niente” risposi.

“Sei stato bravissimo, davvero!”

Sorrisi imbarazzato, non sapendo cosa dire. Ero poco abituato a quel tipo di complimenti, perciò non sapevo quasi mai come comportarmi.

Salutai le due ragazze e le guardai allontanarsi.

“Samuel!” gridò Stefano nel microfono.

Allora mi voltai e raggiunsi il mio amico.nizio. era appena all'glio dopo le serate. i verso il bagno.

se la rideva, osservando quella scena che si ripeteva spesso e vol

  
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