Film > The Avengers
Ricorda la storia  |      
Autore: Alley    06/01/2014    3 recensioni
“Occhio di falco” legge Maria a voce alta, gli occhi fissi sulla prima pagina del fascicolo. È in piedi davanti alla scrivania del direttore, appena rientrato con il bottino – un bottino piuttosto iperattivo e logorroico, ma allo S.H.I.E.L.D. non interessa chi o come sei, ma quello che sai fare. “Emblematico, ma…da quando si diverte a dare soprannomi ai nuovi arrivati?”
[a Nemeryal, per il suo compleanno]
Genere: Commedia, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Agente Phil Coulson, Clint Barton/Occhio di Falco, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Alla mia bellissima MogliA: sposa devota, amica preziosa e narratrice superba.
Tanti, tanti, tanti auguri. 






Abby aveva la grazia di una libellula e un viso da bimba. Clint non riusciva a credere che avesse più anni di lui. Quando le chiedeva dove fosse prima del circo, rispondeva: “Da nessuna parte. Sono sempre stata qui” e poi cambiava discorso. Lui non insisteva.
 
Non era bella, eppure, Clint la trovava magnifica. Quando glielo diceva, lei arricciava le labbra in un sorriso che era una smorfia dimessa.
 
Se fossi bella, gli uomini mi guarderebbero.
Ma ti guardano. Tutti lo fanno quando ti esibisci.
Non è per me; è per quello che faccio.  
Io ti guarderei anche se non volassi.
Io non volo, Clint.

 
E invece Abby, per Clint, volava. Non esistevano altre parole per descrivere quello che faceva quando volteggiava da un trapezio all’altro con la leggerezza di un petalo. Abby volava e lui passava ore e ore ad ammirare le traiettorie che disegnava nell’aria, il naso puntato verso l’alto e gli occhi che schizzavano frenetici da una parte all’altra, rincorrendo le sue evoluzioni.    
 
Non aveva mai conosciuto sua madre, ma era sicuro che le assomigliasse. Gli angeli si assomigliano tutti.
 
Non sei mai caduta?
Mai.
E non hai paura che possa succedere?
Non è una cosa a cui penso. Se riesci a non pensare, non hai paura. E poi, ci saresti tu a prendermi, no?

 
*
 
“Questa è la parete delle esperidi. Sono farfalle di dimensioni piuttosto modeste con colori non molto vivaci - generalmente ocra o giallognoli, macchiettati di bianco o nero. Possono riconoscersi per la testa massiccia, il corpo tozzo e le ali anteriori piuttosto corte e triangolari…”
 
Maria annuisce, malgrado abbia smesso di ascoltare a metà della prima parete.
 
“…la postura delle ali è molto particolare - si dice che sono ‘a riposo’. Quelle anteriori sono tenute in verticale, le posteriori in orizzontale.”
 
“Interessante.”
 
Quando Jasper l’ha invitata a guardare la sua collezione di farfalle – che potrebbe parere il più classico dei tentativi d’abbordaggio, ma Maria sapeva che la proposta era assolutamente scevra da doppi fini – ha provato di tutto per declinare: ha revisionato l’intero archivio delle missioni dell’ultimo anno, ha impiegato ore e ore a compilare rapporti che, in realtà, avrebbero richiesto pochi minuti, ha accettato di parlare con quelli della CIA (e Dio solo sa quanto ad un agente dello S.H.I.E.L.D. possano star simpatici quelli della CIA), ha fatto le pulizie di primavera nell’ufficio di Fury…
 
Se è un modo per ottenere un aumento, Hill, puoi anche sporcare di nuovo
 
Alla fine, ha dovuto cedere. Sarebbe stato impossibile – nonché estremamente faticoso – continuare a trovare pretesti per rifiutare.
 
“Questa è un’esperide della malva. L’ho trovata a Rio nel ’99.”
 
Jasper addita un quadretto al centro dell’ultima fila. Dietro il vetro è intrappolato un gigantesco lepidottero color arancio, sulle ali due grosse gocce rubino simili a occhi irrorati di sangue.
 
“È uno dei pezzi forti della collezione. Ti piace?”
 
“È…”
 
Inquietante
 
“…meravigliosa.”
 
Jasper sorride orgoglioso, nemmeno fosse appena stato promosso al livello nove. “Non è stato facile procurarmela. Ho dovuto cerca-”
 
Una bussata discreta lo interrompe. Maria prega che sia scoppiata una catastrofe mondiale o sia in corso un’invasione aliena, in modo da poter interrompere quel supplizio.
 
“Avanti.”
 
La faccia di Phil fa capolino da dietro la porta e lei vorrebbe gridargli ‘Tirami fuori di qui!’, ma non sarebbe molto dignitoso, né tanto meno cortese – malgrado si stia annoiando a morte, non vuole ferire i sentimenti del collega.
 
“Buongiorno” li saluta e il sorrisetto divertito che le rivolge è la cosa più irritante che abbia mai visto in vita sua – bastardo
 
“Buongiorno a te, Phil. Vuoi unirti a noi?” domanda Jasper, e questa volta è lei a sogghignare.
 
“Mi piacerebbe molto, ma il direttore mi aspetta nel suo ufficio – ha detto che ci retrocederò di un livello per ogni minuto di attesa.”
 
“Ci?”
 
Phil annuisce con aria greve: “Ha chiesto che venisse anche Maria.”
 
Costringersi a non esultare è più difficile di quanto pensasse. Per fortuna, l’autocontrollo non le manca e le riesce persino di apparire desolata. “Mi dispiace, Jasper. Possiamo continuare un’altra volta.”
 
L’espressione dell’agente è tanto delusa da riuscire a farla sentire in colpa – ma solo un pochino e solo per un nano secondo. Le basta lanciare un’occhiata alle altre due pareti e mezzo che l’attendevano per far sì che la gioia ed il sollievo riprendano il sopravvento.
 
“Certo” risponde lui, sorridendo debolmente “Fammi sapere quando sei libera.”
 
“Controllerò la mia agenda” dice e si precipita fuori dall’ufficio, trascinando Phil per un braccio e farfugliando un saluto frettoloso.
 
*
 
“Mi devi una cena.”
 
“Ti devo la vita.”
 
Phil ridacchia e imbocca il corridoio a sinistra. L’ufficio di Fury è dall’altra parte dell’edificio. “Se i distributori non fossero rotti, mi accontenterei di un caffè.”
 
“Io proprio non riesco a capire. Cosa c’è di bello nel riempirsi l’ufficio di farfalle morte?”
 
“Il collezionismo ha ragioni che la ragione non conosce” sentenzia Phil, scrollando le spalle, e Maria rotea gli occhi al soffitto. Non ha scelto l’interlocutore migliore per affrontare l’argomento – sicuramente, non il più imparziale.
 
“Non voglio sindacare sui gusti di Jasper, ma…perché così tante? Duecentoventisei mi sembrano un tantino troppe.”
 
“A noi collezionisti piacciono i grandi numeri” ribatte lui, con aria saputa “Io ho trecentoquindici figurine.”
 
“Sì, ma non hai mai preteso di mostrarmele tutte.”
 
“È un privilegio che concedo a pochi.”
 
“Non mi interessa beneficiarne” ribatte Maria, scansando un manipolo di agenti che cerca – invano - di estorcere del caffè al distributore accanto alle ascensori a suon di calci e pugni.
 
Ah, le matricole. Hanno così tanto da imparare
 
“Non essere scorbutica. Ti ricordo che ho appena mentito a Jasper per...” Phil si interrompe e le lancia un’occhiata interrogativa “Come facevi a sapere che Fury non ci voleva davvero nel suo ufficio?”
 
La donna si ferma davanti all’ascensore. A giudicare dal clangore sinistro che strepita oltre le porte di metallo quando schiaccia il pulsante e la cabina si mette in movimento, non sono soltanto i distributori ad aver bisogno di manutenzione.
 
“Allora?”
 
Maria si volta nella sua direzione ed esibisce un sorriso volutamente melenso: “Perché so che, da vero amico quale sei, sei disposto a dire una bugia per aiutarmi.”
 
L’alzata di sopracciglia di Phil vuol dire chiaramente inventatene un’altra – non si può nascondere nulla, a quell’uomo.
 
“Perché Fury non è qui” confessa e Phil sgrana gli occhi, stupito e palesemente preoccupato. La sua reazione è più che legittima: Fury lascia il proprio ufficio soltanto in caso di calamità planetarie dalle diecimila vittime in su – o per le partite dei New York Knicks, ma l’NBA è in pausa.
 
“Tranquillo, non è successo nulla” lo rassicura e Phil tira un sospiro di sollievo “È soltanto andato al circo.”
 
“Al circo?” ripete lui, perplesso “A vedere i clown?”
 
Le porte si spalancano stridendo ed entrambi varcano l’uscio dell’ascensore. Maria sa che le possibilità di rimanere bloccati sono spaventosamente alte, ma se c’è qualcuno con lei è disposta a correre il rischio. In fondo, nell’arco della sua esistenza, ha sperimentato cose ben peggiori.
 
“Non esattamente.”
 
*
 
Fury avanza tra le roulotte ammassate sul retro del tendone a passo deciso, ignorando gli sguardi astiosi e diffidenti che gli astanti gli rivolgono. Il circo è un mondo a se stante che non ammette intrusi: puoi sederti sugli spalti e goderti lo spettacolo oppure restare fuori.
 
L’aria è pregna di un lezzo rivoltante – le gabbie degli animali sono proprio lì, dietro l’angolo, e i servizi igienici devono essere un’utopia – e, molto probabilmente, quella che ha appena calpestato è merda di cavallo.
 
Splendido. Fottutamente splendido
 
“Ehi bellezza, stai cercando qualcuno?” squittisce una voce alle sue spalle e Fury si volta, ritrovandosi davanti una donna ingioiellata e imbellettata fino all’inverosimile. È alta e smilza, ha la pelle raggrinzita malgrado non paia affatto in là con gli anni e due occhi piccoli e scaltri. Il sorriso storto  che gli indirizza svela una bocca quasi del tutto sdentata e un chewing gum masticato da un tempo presumibilmente molto lungo. Lo stomaco del direttore fa un triplo carpiato rovesciato e poi si accartoccia su se stesso – e il tanfo e il sudiciume stavolta non c’entrano nulla.
 
Farebbe volentieri a meno di un consulto, ma la verità è che ne ha bisogno e che non approfittare della…gentilezza della signora potrebbe significare dover vagare in mezzo a quella stalla all’aria aperta chissà per quanto – e la sua priorità è tornare quanto prima nel suo ufficio. Il suo accogliente e candido ufficio.
 
Estrae una foto sgualcita dalla tasca della giacca e la porge alla donna. Lei le lancia una rapida occhiata e fa un palloncino con la gomma da masticare – il suddetto palloncino impiega un secolo a scoppiare. Non era così irritato dai tempi della guerra fredda.
 
“Nel tendone” biascica la donna, staccando gli occhi dalla foto “È con Tantor.”
 
A Fury non passa nemmeno per l’anticamera del cervello di chiedere chi sia questo Tantor – si augura solo che sia un individuo almeno un pochino più decente di colei che gli sta dinnanzi.
 
“La ringrazio” si obbliga a dire e Cristo, quel sorriso – se così può esser definito – è la cosa più raccapricciante che abbia mai avuto la sfortuna di vedere.
 
“Di nulla, dolcezza. Sicuro di non aver bisogno d’altro?”
 
L’ ‘assolutamente sì’ con cui replica è deciso e autoritario – e anche un tantino allarmato, ma Fury è sicuro che il tono inflessibile che ha utilizzato non l’abbia lasciato trapelare. Prima che la donna abbia il tempo di aggiungere altro, si volta e si dirige ad ampie falcate verso il tendone.
 
“Sai, ho sempre avuto un debole per gli uomini con un occhio solo. Li trovo terribilmente sexy.”
 
Se il ragazzo non è bravo come gli è stato detto, tra gli i suoi informatori salteranno delle teste.
 
*
 
“Hai rubato di nuovo le mie noccioline!”
 
Tantor ha due grosse orecchie a sventola e una lunga proboscide. Considerato l’incontro precedente, è una scoperta magnifica e rassicurante – il fatto che il ragazzo gli stia parlando lo è un po’meno, ma Fury preferisce soprassedere.
 
“Mi dici adesso cosa mangio? È la quarta volta in una settimana che mi fai andare a letto senza cena!”
 
A quanto pare, il ragazzo è troppo preso dalla diatriba unilaterale a cui sta prendendo parte per accorgersi della sua presenza. Fury avanza fino a raggiungere la pista circolare all’interno della quale si sta consumando la disputa, vi entra e si avvicina ai due contendenti.
 
“E io che ti faccio il bagno tutti i giorni! Hai mai sentito parlare di ‘riconoscenza’?” domanda stizzito, incrociando le braccia all’altezza del petto “Me lo dica lei, signore, ho ragione o no?”
 
Lo sguardo del ragazzo scatta nella sua direzione e Fury non fa in tempo a nascondere la sorpresa. “Pensavo non mi avesse visto.”
 
La bocca del giovane si storce in un ghigno di divertita impertinenza. “Spero di non offenderla, ma è un pensiero molto sciocco. È piuttosto…raro che io non veda qualcosa e lei non passa di certo inosservato. Lucinda sarebbe entusiasta di conoscerla. Ha un debole per gli orbi.”
 
Stando a quelle parole, la sua fama non è priva di fondamenta – né quella di cecchino infallibile, né quella di ciarliere instancabile.
 
“Immagino che lei non sia il nuovo contorsionista…”
 
“Molto perspicace” replica Fury, avvicinandosi. Tantor barrisce rumorosamente e il ragazzo gli accarezza la proboscide per quietarlo.
 
“Domatore di leoni? Sergey era molto più minuto, non sono sicuro che la sua testa riuscirà ad entrare nelle fauci de-”
 
“Non sono qui per unirmi alla compagnia, signor Barton, ma per farle un’offerta.”
 
Nel sentirsi chiamare per nome, l’arciere aggrotta le sopracciglia. “Sarà pur vero che soffro di perdita di memoria a breve termine ma, se mi fossi presentato, suppongo che me lo ricorderei.”
 
“Sarebbe interessato ad un lavoro ben retribuito, con tanto di vitto e alloggio gratuiti?”
 
Fury vede un barlume di interesse accendersi nei suoi occhi e sa che, questa volta, è lui aver fatto centro. “Né la cena né altri pasti consisteranno in noccioline, ma immagino che non sia un problema per lei.”
 
*
 
“Occhio di falco” legge Maria a voce alta, gli occhi fissi sulla prima pagina del fascicolo. È in piedi davanti alla scrivania del direttore, appena rientrato con il bottino – un bottino piuttosto iperattivo e logorroico, ma allo S.H.I.E.L.D. non interessa chi o come sei, ma quello che sai fare. “Emblematico, ma…da quando si diverte a dare soprannomi ai nuovi arrivati?”
 
“Non gliel’ho dato io” replica Fury seccamente, mentre la donna scorre il dossier – il motivo per cui il direttore si ostini a mantenere il cartaceo, con la tecnologia che hanno a disposizione, rimarrà sempre un mistero insondabile. “Se l’è guadagnato al circo.”
 
“Meritatamente, a quanto pare” commenta, impressionata dai punteggi spaventosamente alti riportati sul documento “Continuo a pensare che l’arco sia un’arma un po’troppo obsoleta ma, a parte questo, è davvero notevole. Ha già deciso a chi assegnarlo?”
 
Proprio in quel momento la porta cigola alle sue spalle e Phil fa il suo ingresso.
 
“Voleva vedermi, signore?” domanda al direttore, avanzando fino ad affiancarla. Prima che Fury abbia il tempo di rispondere, lei si volta e gli porge il fascicolo.
 
“Buon divertimento.”
 
*
 
Clint trafigge l’ennesimo bersaglio e, finalmente, ha un attimo per riprender fiato. Quando Fury gli aveva parlato di ‘esercitazioni’ non aveva immaginato che si riferisse a qualcosa di così sfiancante. Pensava che si sarebbe trattato di allenamenti tradizionali – infilzare una fila di sagome ben allineate, colpire il centro di bersagli concentrici, giocare a freccette con le fotografie dei supercattivi… - e non di simulazioni 4D con tanto di proiettili – Clint non vuole sapere se fossero finti o meno – da scansare.
 
“Può fare di meglio, agente.”
 
Clint sobbalza e, istintivamente, serra la presa attorno all’impugnatura dell’arco, per poi voltarsi nella direzione da cui la voce è provenuta. Un uomo in giacca e cravatta lo fissa con una faccia priva d’espressione a pochi metri di distanza. Stringe tra le mani una piccola ventiquattro ore. Clint si domanda come abbia fatto ad entrare senza che lui se ne accorgesse.  
 
“Ne ho colpiti quarantanove di fila.”
 
“Ma ne ha mancato uno.”
 
Era vero. Clint aveva fallito per un soffio il primo tiro, perché l’obiettivo era comparso prima di quel che s’aspettasse. 
 
“Mi ha colto di sorpresa. Non ero ancora pronto.”
 
“Sul suo dossier c’è scritto che lei è il miglior cecchino in circolazione” replica l’uomo senza scomporsi “Dev’essere sempre pronto.”
 
Clint si chiede come reagirebbe Fury se, il primo giorno di lavoro, uccidesse un suo dipendente. Non bene, probabilmente.
 
“Sono l’agente Phil Coulson” si presenta e Clint non può fare a meno di notare che il suo tono non ha la benché minima inflessione. È piatto ed indecifrabile, così come il volto. È la cosa più simile ad un automa che abbia mai visto in vita sua – e non sarebbe poi così strano che allo S.H.I.E.L.D. lavorino dei robot. “Sarò il suo supervisore.”
 
Qualsiasi cosa significhi – e implichi, soprattutto – Clint è sicuro che non gli piacerà.
 
“Sarebbe un incrocio tra un baby sitter e una guida spirituale?”
 
L’uomo – Phil Coulson - riflette per qualche istante e una ruga sottile, quasi invisibile, gli increspa la fronte. Clint voleva soltanto fare una battuta, non ricevere una risposta, ma preferisce non precisarlo.
 
“Io direi più tra un custode e un mentore, ma è libero di utilizzare le immagini che più la aggradano.”
 
“Ed è venuto qui per presentarsi?”
 
“No” risponde prontamente l’agente “Per constatare se il suo dossier è attendibile.”
 
Clint storce le labbra, emettendo una suono indistinto. “E…lo è?”
 
Coulson torna a rimuginare – o meglio, finge di farlo, perché questa volta non compare alcuna ruga di concentrazione sul suo viso (Clint è un osservatore molto meticoloso) – e poi apre la valigetta.
 
“Grosso modo, sì” dice alla fine, tirando fuori un fascicolo e porgendoglielo “Ma, lo ribadisco, può fare di meglio.”
 
A giudicare da quant’è voluminoso il suo dossier, lo S.H.I.E.L.D. deve sapere parecchie cose sul suo conto.
 
“Grazie, ma non mi serve. Mi conosco già a sufficienza.”
 
“Non è il suo dossier” replica Coulson, richiudendo la valigetta “È una copia del regolamento.”
 
Un ‘ah’ borbottato a mezza bocca è la risposta più eloquente che riesca a formulare. “E che dovrei farci?”
 
Clint non sa se essere preoccupato per il modo in cui Coulson ha strabuzzato gli occhi – con un misto di perplessità e commiserazione – o sollevato per il fatto che abbia finalmente lasciato trapelare una qualche emozione.
 
“Leggerlo. E impararlo.”
 
Non s’era sbagliato. Non gli piace affatto.
 
*
 
“Ha letto il fascicolo che le ho dato ieri?”
 
Il secondo giorno Clint comincia a sospettare che Coulson abbia il potere di materializzarsi dal nulla, perché è impossibile che non l’abbia sentito arrivare nemmeno questa volta. L’ipotesi ‘fantasma’, attualmente, ha superato quella ‘automa’ – in ogni caso, è certo che non sia qualcosa di completamente umano.
 
Buongiorno a lei, agente. Sì, la sessione d’allenamento procede bene, la ringrazio per l’interessamento
 
“Ehm…Certo.”
 
Malgrado Coulson non muova un muscolo, Clint è convinto di vedere l’ombra di uno sberleffo passare sul suo viso.
 
“Quindi, se io adesso le chiedessi qual è la prima regola…”
 
“Non l’ho nemmeno aperto.”
 
Coulson, un come immaginavo vistoso come una gigantesca insegna luminosa stampato in faccia (non che abbia un’espressione saccente o soddisfatta – né una qualsiasi altra espressione - ma, in qualche modo, Clint sa che lo sta pensando), apre la valigetta e prende a trafficarvi all’interno. “Apprezzo la sua sincerità”
 
Senso dell’umorismo. Wow. Questo non se l’aspettava.
 
Nemmeno il tempo di prendere atto di quell’inattesa manifestazione di normalità che si ritrova sotto gli occhi un fascicolo con il marchio dello S.H.I.E.L.D.
 
Dio, ancora
 
“Lo leggerà oggi insieme a questo.”
 
Clint lo afferra, ingoiando uno sbuffo – Coulson non sembra il tipo di persona a cui piace la gente che sbuffa -, e abbassa lo sguardo sulla prima pagina, dove incontra una tabella con degli orari.
 
“Quella le servirà a sapere dove e a che ora si tengono i suoi allenamenti.”
 
“Allenamenti?”
 
Quel plurale è decisamente preoccupante.
 
“Allenamenti” ripete Coulson, annuendo “Esercizi di preparazione in vista di una prova, di un'attività o…”
 
“So cosa sono” lo interrompe Clint e no, non è divertente, nemmeno un po’ “Ma non sapevo che fossero così tanti. Ieri sono stato solo al poligono.”
 
“Era il suo primo giorno, non volevamo spaventarla.”
 
Che carini – naturalmente, si limita a pensarlo.
 
“Fury non aveva fatto cenni a ritmi così…serrati.”
 
Ok, dopo la parte su ‘retribuzione’ e ‘vitto e alloggio gratuiti’ si era un tantino distratto, ma se gli avesse parlato di tutta quella roba se lo sarebbe ricordato.
 
“Può sempre tornare al circo, se non le stanno bene” replica Coulson, scrollando appena le spalle - decisamente, non è la persona giusta con cui recriminare. Rassegnato, Clint riprende a studiare la tabella che, da quel giorno, scandirà le sue giornate. Nel leggere gli orari odierni, aggrotta la fronte.
 
“Qui c’è scritto che l’addestramento del Giovedì comincia alle nove. Che ore sono adesso?”
 
Coulson controlla l’orologio da polso. “Le conviene affrettarsi. È in ritardo di venticinque minuti.”
 
*
 
A Phil sembra una buona idea portare Barton a Guadalajara. Si prospetta una missione tranquilla ai limiti della noia e lui si premura sempre di procurare un esordio morbido ai nuovi arrivati. 
 
La sua prima missione è stata un incubo. Negli anni ha affrontato situazioni ben peggiori – e carneficine ben più terribili -, ma nessun ricordo lo perseguita allo stesso modo – ‘la prima volta non si scorda mai’, evidentemente, è un dogma universalmente valido.
 
Il bollettino di guerra fu di venti morti – tra cui il suo supervisore – e un numero spaventosamente alto di feriti. Ricorda i nomi di tutti coloro che caddero quel giorno; ricorda i loro volti e a volte li scorge nell’ombra, o nei sogni, e sente di nuovo il sangue ghiacciarsi, proprio come allora. Ma quella era un’operazione su vasta scala e ad alto rischio e, soprattutto, quello era un altro uomo – era un ragazzo con troppe paure e nessuna certezza. Gli piace raccontarsi che, adesso, non sia più così – e a volte, quando non la voglia né la forza di guardarsi dentro, riesce persino a crederci.
 
Guadalajara doveva essere poco più di una formalità, eppure, Phil non sa bene come, si trasforma in un inferno. Succede quando Robert Hall, che ha ventidue anni ed è alla sua quarta missione, si ferma all’improvviso in mezzo alla radura che stanno percorrendo. Dal foro che gli buca il centro della fronte sgorga un rivolo di sangue che scorre a imbrattargli il viso ormai privo d’espressione.
 
“Via!” grida e lui e gli altri agenti cominciano a correre, mentre Robert e i suoi ventidue anni crollano sul terriccio e gocce vermiglie imporporano le erbacce su cui frana. 
 
*
 
Phil e il resto della squadra corrono senza fermarsi per un tempo che a lui pare interminabile. Alla fine, esausti, si fermano in un piccolo spiazzo all’apparenza ben nascosto. Durante la fuga, Donna Peterson è stata colpita alla spalla. Phil la fa sedere contro un tronco e la fascia alla meglio, mentre gli altri riprendono fiato. L’unica cosa che possono fare, adesso, è aspettare.
 
*

“Dobbiamo ispezionare la zona.”
 
Sono trascorse delle ore e tutto è rimasto immobile. Continuare ad attendere è un azzardo che potrebbe costare altre vite e Phil non vuole concederselo.
 
Mills e Walker, seduti sul terriccio, si sollevano e imbracciano i fucili. Barton ha appena messo la faretra in spalla quando Phil gli si avvicina e gli sbarra la strada.
 
“Tu resti qui.”
 
“Cosa?”
 
“Non possiamo lasciare Donna da sola.”
 
Il ragazzo lancia un’occhiata alla collega che dorme adagiata contro il tronco. Ha perso molto sangue ed è crollata poco dopo esser stata medicata.
 
“Va bene” acconsente, seppur malvolentieri, e Coulson annuisce e ordina agli altri due agenti di seguirlo.
 
“Se succede qualcosa, contattami.”
 
*
 
I nemici, di chiunque si trattasse, paiono essersi volatilizzati. Phil e i due agenti più giovani ripercorrono a ritroso il percorso seguito per raggiungere la radura, poi si allontanano e frugano nella boscaglia, ma non trovano nessuno. Mentre perlustrano la zona, Phil si domanda quanto disti il punto in cui giace il cadavere di Robert.
 
“Sembra che se ne siano andati” dice Mills, spostando un groviglio di arbusti per farsi strada tra la vegetazione. Phil vorrebbe essere altrettanto ottimista.
 
“È più probabile che si stiano nascondendo.”
 
Le sue parole si rivelano profetiche. Un scoppio improvviso esplode nell’aria, assordante, mancando Walker di un soffio.
 
“A terra!”
 
Nel chinarsi, Phil scorge un luccichio metallico nella macchia verde e bruna che ricopre l’altura al di là della selva. Provare a sparare è impensabile: la distanza che li separa da quel punto e siderale e, cosa più importante, sono sotto tiro – senza contare che, da lì, è impossibile individuare l’esatta posizione dei nemici.
 
Phil e i due agenti restano schiacciati contro il terriccio e le erbacce fino a quando gli spari non cessano e poi, dopo aver strisciato per qualche metro per allontanarsi, si sollevano e tornano al loro rifugio.
 
*
 
“Sicuro che te la senti?”
 
Barton impugna l’arco con fare sicuro e controlla che l’auricolare sia ben saldo al suo orecchio. “Lei mi dica solo dove devo andare, al resto penserò io.”
 
*
 
“Dove sei?”
 
“Credo d’aver raggiunto l’altura di cui parlava” risponde Barton, la voce coperta da un leggero fruscio “È alta davvero.”
 
“Ce la fai ad arrampicarti?”
 
Phil sente dei rumori sordi e il brusio diviene più acuto e fastidioso. “Barton?”
 
“Da adesso è meglio che stia zitto, se sono appostati qui potrebbero sentirmi. Mi farò vivo appena li avrò colpiti.”
 
Phil non sa se tutta quella convinzione sia autentica o soltanto ostentata, ma sa che quella è l’unica possibilità che hanno di andarsene da quel posto – e di farlo sulle proprie gambe.
 
“Va bene. Fa’ attenzione.”
 
*
 
Il tempo passa e la ricetrasmittente tace. Phil sente le dita fremere d’impazienza e vede un’inquietudine tesa e angosciosa sui volti degli altri agenti. Sono seduti l’uno accanto all’altra, le braccia conserte e le gambe raccolte, gli sguardi bassi e velati dall’ansia.
 
Lui non riesce a stare fermo. Cammina in tondo, pestando con i piedi contro il terreno con molta più forza del necessario. Di tanto in tanto si ferma e lancia occhiate speranzose alla ricetrasmittente. In risposta, riceve soltanto un silenzio che, istante dopo istante, sa sempre più di sconfitta.
 
Poi, finalmente, un ronzio risuona nell’aria carica d’apprensione e arrivano le parole tanto agognate: “Via libera.”
 
*
 
C’è solo una cosa che Clint desidera: dormire, e per una quantità di ore composta da almeno due cifre. È in procinto di crollare sul letto quando una serie di tonfi rovinano i suoi programmi. Per un istante, un magnifico istante, vaglia l’ipotesi di ignorare la bussata, ma quando la sua coscienza gli ricorda che lavora per un’agenzia spionistica internazionale con il compito di salvaguardare la sicurezza del pianeta giunge alla conclusione che sarebbe troppo irresponsabile persino per uno come lui fingere di dormire – senza contare che, probabilmente, la persona che è lì fuori sfonderebbe la porta nel giro di un paio di minuti.
 
Lancia un’occhiata rammaricata alle lenzuola già sfatte e si trascina fino all’uscio. Apre senza nemmeno chiedere chi sia e si ritrova davanti Coulson, le labbra strette e lo sguardo teso e stanco.  
 
“È successo qualcosa?”
 
“Posso entrare?”
 
Clint annuisce e arretra di un passo per liberare la soglia. Coulson avanza con le mani in tasca e la testa bassa fino a raggiungere il centro della stanza. Clint richiude la porta e attende che sia l’altro a parlare.
 
“Non sarebbe dovuta andare così” dice e sembra trattenere a stento un sospiro “Ti ho portato con me perché doveva essere una missione priva di rischi. Mi dispiace.”
 
Clint è preso a tal punto alla sprovvista che, all’inizio, non è nemmeno in grado di formulare una risposta. “Sapevo a cosa andavo in contro quando ho accettato quest’incarico. È per questo che mi sono allenato, in questi mesi.”
 
“Lo so” risponde Coulson, guardando dritto di fronte a sé “Ma preferisco che gli agenti abbiano con le esperienze sul campo un impatto meno…traumatico.”
 
“Se è di Robert che parla…”
 
Il ricordo è una scheggia di vetro acuminato; basta sfiorarlo per tagliarsi.
 
“…non è la prima volta che vedo qualcuno morire” riesce a dire e gli occhi sono spenti e assenti e la voce è un’eco lontana in cui riecheggiano i singhiozzi e le grida che, allora, gli spezzarono il fiato.
 
Coulson aggrotta appena la fronte, negli occhi una domanda inespressa che Clint non vuole dargli il tempo di porre.
 
“La ringrazio per essere venuto, ma non ce n’era bisogno. Ho fatto una scelta e sono pronto ad affrontarne le conseguenze.”
 
Il suo superiore lo fissa con aria greve e assorta. “C’è un’altra cosa.”
 
“Mi dica.”
 
“L’obiettivo dello S.H.I.E.L.D. è proteggere le persone, non uccidere. A volte è inevitabile, ma non deve diventare un’abitudine. Devi pensare prima di scoccare una freccia. Capisci cosa intendo?”
 
“Sì” risponde, annuendo “Lo capisco.”
 
“Uccidere non è un gioco. Devi farlo solo se non hai alternativa.”
 
Clint non dimenticherà mai quella lezione.
 
*
 
Quando entra nel suo ufficio, Clint trova Coulson assorta nella lettura di un fascicolo. Si piazza davanti alla scrivania e si schiarisce la voce per attirare la sua attenzione, ma quello non muove un muscolo e non solleva lo sguardo. Continua a fissare il documento, ignorando la sua presenza.
 
“Dov’è il rapporto, agente?” gli domanda, dopo svariati minuti di silenzio. Ha ancora gli occhi puntati sul documento, ma Clint dubita che stia davvero leggendo.
 
“Ehm, in realtà ero venuto proprio per quello.”
 
“C’è qualche problema?” chiede, in tono pacato, e Clint non può fare a meno di deglutire. La finta placidità di Coulson è la cosa più spaventosa e letale con cui abbia mai avuto a che fare e in quei mesi ha imparato a riconoscerla e, soprattutto, a temerla.
 
“Io…non so compilarlo.”
 
“Non sa compilare il rapporto?”
 
Clint potrebbe ritrattare, potrebbe dire che era una burla o che si riferiva alla lista della spesa – e in effetti, vista la qualità del cibo della mensa dello S.H.I.E.L.D., non gli dispiacerebbe fare un giro al supermercato per procurarsi qualcosa di commestibile. Potrebbe ma non lo fa, perché sa che, ormai, ha firmato la sua condanna a morte.
 
“Non so compilare il rapporto” ripete, rassegnato “Non l’ho mai fatto prima.”
 
Giustificarsi non servirà a nulla, ma tentar non nuoce.
 
“Le sue difficoltà mi sorprendono” dice Coulson – naturalmente non sembra affatto stupito - e Clint sente il patibolo avvicinarsi inesorabilmente “Nel regolamento che le ho consegnato il giorno successivo al suo arrivo e che lei, diversi mesi fa, mi ha assicurato d’aver studiato, c’è un paragrafo che esemplifica come fare e…”
 
Coulson alza lo sguardo con studiata lentezza – è terrificante. “…è un paragrafo molto chiaro.”
 
Clint pensa che, in fondo, se l’è meritato. Avrebbe dovuto sapere che non c’è modo di giocare quell’uomo.
 
Mentre è impegnato a cercare un modo per uscire vivo dalla situazione – non è così ingenuo da sperare di poterne uscire indenne, quindi punta direttamente alla sopravvivenza – un oggetto attira la sua attenzione. Dal un mazzo di chiavi poggiato sul bordo della scrivania pende un ciondolo di forma circolare, su cui si alternano circonferenze bianche e rosse che racchiudono una stella su sfondo blu.
 
“Quello è lo scudo di Capitan America?” domanda, additandolo.
 
“No, è un portachiavi.”
 
“A forma di scudo di Capitan America.”
 
“Sta cercando di tergiversare?”
 
“E ce n’è anche uno appeso alla parete!”
 
Agente Barton” sibila Coulson e oh, allora anche lui perde la pazienza. Interessante. “Lei ha cose più impellenti da fare rispetto all’esaminare l’arredo del mio ufficio.”
 
“Facciamo un patto.”
 
Ecco l’occhiata perplessa e compassionevole. Era da parecchio che Coulson non la esibiva e Clint cominciava a preoccuparsi.
 
“Sono un suo superiore, non scendo a patti con lei.”
 
“Io leggo…”
 
“Studio.”
 
Studio il regolamento se la smette definitivamente di darmi del lei. È ai vecchi che si da del lei, non ai…”
 
Clint impiega diversi secondi a recepire il significato delle sue parole – era al bar mentre il suo cervello le elaborava, e anche mentre la bocca le pronunciava. Nel frattempo, le sopracciglia di Coulson si sono sollevate in modo vertiginoso.
 
“Cioè, volevo dire…” farfuglia e bravo Clint, sei veramente un genio “Non è il caso che sia così formale, è sufficiente…”
 
“Come vuoi” lo interrompe Coulson, scrollando appena le spalle, e abbassa il capo per riprendere la lettura.
 
Clint è piacevolmente sorpreso. Ha disobbedito agli ordini del suo supervisore, gli ha mentito, gli ha detto del vecchio – il tutto nel giro di cinque minuti – e ne viene fuori con tutti gli arti al proprio posto e senza lesioni. Dev’essere la sua giornata fortunata.
 
“Voglio il rapporto sulla mia scrivania entro stasera.”
 
“Sarà fatto” risponde con prontezza e si affretta a lasciare l’ufficio prima che l’altro cambi idea e lo condanni ai lavori forzati. Prima di voltarsi, gli sembra di vedere gli angoli della bocca di Coulson piegarsi impercettibilmente.
 
*
 
Più che un appartamento, quello in cui risiedono a Varsavia è una catapecchia: due stanze – o meglio, una stanza più un buco che, a giudicare dalla presenza del gabinetto, dovrebbe fungere da bagno e in cui c’è a malapena lo spazio per stare in piedi – con un tavolo in precario equilibrio su tre piedi e un paio di divani rivestiti di pelle consunta. Per fortuna, dovranno restarci solo per tre giorni.
 
“La qualità degli alloggi è sempre così scadente?” domanda Barton, lasciando cadere un borsone sul pavimento. Phil preferisce non rivelargli che, in passato, ha sperimentato residenze ben peggiori e ha dovuto soggiornarvi per tempi molto più lunghi – avrà modo di scoprirlo personalmente.
 
“Insomma, non mi aspettavo una suite, ma nemmeno una topaia…Come facciamo senza frigorifero?”
 
“Io vado a dare un’occhiata in giro. Tu…familiarizza con l’ambiente.”
 
“Non mi occorrerà molto.”
 
*
 
Phil apre la porta e resta impalato sulla soglia, la mano stretta attorno alla maniglia e le labbra schiuse per lo stupore. La schiena di Barton è un groviglio di cicatrici che si inseguono e si intrecciano, un intrico tremendo che solca e sfigura la pelle dalle spalle alla vita.
 
È un istante, un flash che dura meno di un attimo, e poi il tessuto della t-shirt corre a celare gli sfregi, ma il viluppo continua a districarsi davanti ai suoi occhi e lo vede ancora quando Barton si volta verso di lui, le labbra contratte e un’ombra inquieta a velargli lo sguardo.
 
“Trovato niente?” chiede e se non ci fosse quell’impercettibile nota di disagio a tradirlo Phil potrebbe addirittura pensare che non abbia nulla da nascondere, che sia stata assolutamente casuale la fretta con cui ha abbassato la maglia quando ha sentito il cigolio della porta.
 
“No.”
 
Qualcosa aleggia e sfrigola nell’aria, una tensione dura e densa di non detti.
 
“E tu, hai fatto amicizia con l’arredo?”
 
Barton lo osserva un istante più del dovuto, lo sguardo fitto e indagatore di chi nutre sospetti o attende risposte.
 
“Certo” replica e adesso il tono è di nuovo disteso e privo di increspature “Ma ho preferito non dare confidenza al tavolo. Chi va con lo zoppo impara a zoppicare.”
 
*
 
Malgrado l’aspetto da funzionario statale che induce ad accostarlo al lavoro d’ufficio, Phil detesta l’inattività. Per questo, mentre la dottoressa esamina la sua cartella clinica, prega che la convalescenza che l’attende sia breve.
 
“Quando tornerò operativo?”
 
“Presto” risponde la donna, sollevando lo sguardo e rivolgendogli un sorriso rassicurante “Si tratta solo di una fissurazione. Venti giorni dovrebbero bastare.”
 
È la prova che la il relativismo è una scienza esatta, perché a lui pare un tempo interminabile. Quando sei inchiodato su un letto e il tuo compito è quello di assicurarti che la Terra non esploda, anche un solo giorno sembra un’eternità.
 
“Passerò nel pomeriggio per un controllo.”
 
Quando la dottoressa lascia l’infermeria, Barton si allontana dalla parete contro cui era poggiato, si posiziona davanti al letto e gli rivolge il miglior – o peggiore, a seconda dei punti di vista – ghigno del suo repertorio.
 
“Vuole che le porti dei cruciverba?” domanda e Dio, si sta divertendo un mondo “O preferisce qualcosa di più tecnologico? Non so, un tablet…”
 
“Non avevi dei rapporti da compilare?”
 
Barton arriccia le labbra e si sfrega il mento, nel tentativo – mal riuscito - di simulare un’espressione pensosa. “Forse sì, ma stare qui a guardarla soffrire è infinitamente più divertente.”
 
“Vai.”
 
Barton si raddrizza, piega il braccio avvicinandolo alla testa e fa il saluto militare.
 
“Signorsì signore!” esclama, gonfiando la voce, e si avvia verso l’uscio. Quand’è ad un passo dalla porta, volta la testa e lo guarda da sopra una spalla, il sorrisetto insolente sempre in bella mostra.
 
“Si goda la vacanza.”
 
Fuori.”
 
Barton ridacchia e sparisce.
 
*
 
Phil è sicuro che il trillo che l’ha fatto trasalire non sia quello della sveglia. L’orario sul display – le 2.45 – glielo conferma.
 
Ricevere una telefonata a quell’ora non è affatto rassicurante, soprattutto se sei il numero due – o tre, a seconda che si consideri la gerarchia dal punto di vista suo o di Maria – dello S.H.I.E.L.D.
 
Allunga il braccio, allarmato, e cerca il cellulare a tentoni, sperando che nessuna capitale sia stata rasa al suolo e che il presidente degli Stati Uniti e il Papa siano in buona salute – a pensarci bene, è sufficiente che siano ancora vivi.
 
“Pronto?”
 
“Perché ci ha messo tanto?”
 
Phil non sa se tirare un sospiro di sollievo o provare a spiegare a Barton il concetto di ‘fuso orario’. Alla fine, propende per la prima opzione.
 
“Visto che lo conosce da tanto…Quante possibilità ci sono che Sitwell diserti?”
 
Impiega diversi secondi per registrare le parole e il loro significato – non sa se per colpa del sonno, dell’assurdità della domanda o di tutte e due le cose. “Nessuna. Perché?”
 
“È uscito dicendo che ‘andava a caccia di farfalle’ - che sa terribilmente di ‘Vado a prendere le sigarette’, quindi non ho potuto fare a meno di…” Barton lascia la frase in sospeso e tace per qualche istante. Di sicuro non lo fa per prendere fiato - Phil sa che sarebbe perfettamente capace di sproloquiare molto più a lungo senza aver bisogno di rifiatare “Sa cosa succede quando un padre esce dicendo che va a comprare le sigarette, vero?”
 
“Sì, lo so” risponde, allontanando le coperte e sedendosi sul bordo del letto “Ma ti assicuro che non si tratta di una scusa. Sitwell colleziona veramente farfalle.”
 
“Dio, perché tutti collezionate qualcosa? Un tempo era una credenziale per entrare allo S.H.I.E.L.D. o è una semplice coincidenza?”
 
“La seconda. E comunque non lo fanno tutti; è un vezzo dei pezzi grossi.”
 
“La Hill cosa colleziona? Scarpe, borse, francobolli, soldatini…?”
 
“Lei è l’eccezione.”
 
“E Fury? Bende colorate?”
 
Phil cerca di impedire alla propria mente di elaborare l’immagine del direttore con una benda rosa shocking – troppo tardi.
 
“Come va la gamba?”
 
“Bene” risponde – vorrebbe che la dottoressa fosse dello stesso avviso “Lì come procede?”
 
“Alla grande. Non ho chiuso occhio da quando siamo arrivati perché Sitwell russa come un ghiro – non che abbia mai sentito un ghiro russare, ma ci sarà un motivo se si dice così, no? -  ma a parte questo tutto ok.”
 
“Mai andare in missione con Sitwell senza un paio di tappi.”
 
“Grazie per avermelo detto prima della partenza.”
 
Phil ridacchia e no, non sta pensando che gli piacerebbe portare avanti quella conversazione – per quanto stupida e insensata – per tutta la notte, nient’affatto (però, in effetti, se Sitwell si trattenesse ancora un po’a cacciare farfalle non sarebbe male).
 
“È strano non avere la sua voce a dare ordini e indicazioni per tutto il tempo” dice Barton all’improvviso e Phil è felice che abbia ripreso a parlare – se è occupato ad ascoltare non può pensare o, almeno, può prestare meno attenzione ai suoi pensieri.  

“Vuoi dire che è petulante?”
 
“No” ribatte e il silenzio che segue è denso e prolungato “È…rassicurante.”
 
Prima che Phil abbia il tempo di aprir bocca, un cigolio risuona dall’altra parte del telefono e Sitwell farfuglia qualcosa in sottofondo – gli sembra di captare le parole ‘Panorpa germanica’ e ‘esemplare unico al mondo’.
 
“Sarà meglio che vada, sembra ansioso di mostrare a qualcuno il suo trofeo. Non faccia arrabbiare l’infermiera.”
 
La voce di Sitwell si fa più nitida – dal vivo è ancora più bella che in fotografia! - e Barton riattacca senza aggiungere altro. Phil si convince che la sensazione di calore che sente alla bocca dello stomaco è solo il frutto della sua immaginazione.
 
*
 
Barton è una macchia sfocata e due mani tremanti che lo sorreggono.
 
“Avevo detto ‘tutti fuori’” mormora e ogni parola è una lama acuminata che infilza la gola, ogni respiro un cappio soffocante.
 
“Non ho sentito” replica l’arciere e il panico vibra ed esplode nella sua voce, mentre le dita pressano l’addome lacerato con la foga di chi lotta contro il tempo.
 
L’odore del sangue impregna l’aria, un olezzo ferruginoso e denso che punge le narici e mozza il fiato. Barton è solo un’ombra e la sua voce un’eco lontana, un barlume opaco che va spegnendosi nella tenebra.
 
“Guardami, Coulson, guardami.”
 
Vorrebbe farlo, vorrebbe aprire gli occhi e guardarlo e dirgli che va tutto bene, ma le palpebre pesano come macigni e ogni parola è una spina ficcata nei polmoni e il lezzo è riluttante, ed è così facile smettere di respirare, così facile assopirsi e…
 
“Apri gli occhi!”
 
Uno scossone feroce, un supplica disperata che si insinua nelle piaghe del torpore e gli rimbomba nella testa col fragore di un’esplosione – ma non può assecondarla, non ha la forza per farlo, non ce la faccio, mi dispiace
 
“Non voglio vedere altre persone morire” sussurra il cecchino e l’angoscia scorre tra le parole e penetra nella nebbia  che lo avvolge e gli scoppia nel petto “Non tu.”
 
Suoni e immagini sfumano fino a perdere i contorni, la realtà si trasforma in una nebulosa indistinta. L’unica cosa che continua a percepire è il tocco di Barton contro la ferita.
 
*
 
Quando si sveglia, ha davanti agli occhi un muro accecante di bianco.
 
Il suo corpo è rigido è intorpidito, la testa gli pesa e le tempie pulsano forsennate. Quando prova a sollevarsi, lo sforzo è pari a quello che richiederebbe spostare un monte.
 
 “Stia buono o chiamo l’infermiera.”
 
Barton è in piedi accanto al letto in cui giace e ha un sorriso che Phil è sicuro di non avergli mai visto prima: pieno, caldo, rincuorato - bellissimo.
 
“Se voleva una vacanza più lunga bastava dirlo, non c’era bisogno di farsi sparare.”
 
I ricordi sono frammenti confusi e sbiaditi, fotogrammi sparsi e senza colore. Il boato dello sparo affiorato dal nulla, le gambe che cedono e l’impatto contro il terreno, l’odore del sangue e poi…
 
Sbatte le palpebre, cercando di scacciare lo stordimento e di fare ordine nel caos di suoni ed immagini. Barton lo fissa col capo chino e Phil impiega diversi istanti per mettere a fuoco l’alone violaceo che gli cerchia gli occhi.
 
“Da quanto sono qui?” chiede, anche se in realtà vorrebbe domandargli da quanto non dorma.
 
“Una settimana. E dovrà restarci ancora per po’.”
 
Qualcosa gli dice che le due risposte coinciderebbero.
 
“Stanno tutti bene?”
 
“Fino a prova contraria, lei è l’unico che ha rischiato di morire” risponde e Phil sente l’eco della paura smorzargli la voce.
 
“Sto bene.”
 
Barton è sul punto di dire qualcosa, ma non lo fa. Adesso la sua faccia è seria e assorta e i segni della stanchezza paiono a un tratto più evidenti, rimarcati dai pensieri che sembrano essersi riversati tutti nella ruga che gli increspa la fronte, nei cerchi scuri che gli contornano gli occhi, nelle labbra premute l’una contro l’altra.
 
Phil vorrebbe chiedergli cosa gli passi per la testa, o rassicurarlo ancora, ma prima che ne abbia il tempo una carezza leggera gli sfiora il dorso della mano. Il tocco è impacciato e ruvido, eppure delicato, ed è quasi impercettibile ma basta a bloccargli le parole in gola; un attimo e Barton serra la presa e stringe piano, e le sue dita sono callose e fredde ma il contatto è morbido e caldo e così incredibilmente confortante che Phil chiude gli occhi, affonda il capo nel cuscino e inspira forte, e quando rilascia l’aria anche la tensione gli scivola via dalle membra. 
 
“Io credevo…” mormora il cecchino, la voce impastata e un po’rotta, e allenta la stretta e prende a strofinargli il dorso con il pollice. Phil non ricorda quando sia stata l’ultima volta che un gesto gli abbia dato tanto sollievo, né che l’abbia riempito a tal punto. 
 
“Va tutto bene. Sto bene” ripete, riaprendo gli occhi, e non sa se sia rivolto più all’altro o a se stesso. Barton annuisce e cala il silenzio. Restano così, muti e con le mani l’una nell’altra, e tutto – la testa, la ferita, i ricordi – fa meno male.
 
“Sarà meglio che la lasci riposare. I medici hanno detto che ne ha bisogno.”
 
Quando ritrae la mano, Phil deve lottare contro la tentazione di trattenerla. Vorrebbe chiedergli di restare, invece lo invita ad andare a riposare. I desideri vanno messi a tacere, quando chiedono qualcosa che non ti spetta.  
 
“Barton.”
 
Si ferma a un passo dall’uscio e, quando si volta, Phil deglutisce per ingoiare le parole che gli rimbombano nella testa.  
 
“La prossima volta ubbidisci agli ordini.”
 
Ha di nuovo l’impressione che abbia qualcosa da dire, ma il cigolio della porta che viene aperta e richiusa è l’unico rumore che si spande per la stanza.
 
*
 
È notte fonda quando il picchiettio delle bussate sovrasta quello della pioggia. L’ultima volta che ha ricevuto visite a quell’ora la Casa Bianca rischiava di saltare in aria. Memore di quell’esperienza, Phil si precipita giù dal letto e corre alla porta. Quando la apre, si ritrova davanti Barton, bagnato dalla testa ai piedi e ricoperto di graffi e lividi.
 
Dovrebbe essere sollevato, invece il suo sesto senso gli suggerisce che rimpiangerà l’attentato a Washington. 
 
“Prima di arrabbiarsi, mi faccia spiegare.”
 
Quando intravede alle spalle dell’agente il profilo di una donna, quello che fino ad allora era stato solo un presentimento si trasforma in un’ineluttabile certezza.
 
*
 
“Spiega” tuona, incrociando le braccia sul petto “E sii convincente.”
 
Non è sicuro che esistano giustificazioni plausibili al fatto che Natasha Romanoff si stia rassettando nel suo bagno, ma vuole comunque dare a Barton una possibilità – l’alternativa sarebbe strangolarlo prima che abbia il tempo d’aprir bocca.
 
“Può essere utile.”
 
“Può essere utile a chi?”
 
“Allo S.H.I.E.L.D.”
 
A Phil occorrono diversi secondi per elaborare la risposta. Vorrebbe credere d’aver capito male – o, ancor meglio, che si tratti solo di un brutto sogno -, ma non è il tipo di uomo a cui piace rifugiarsi dietro le illusioni. 
 
“Barton...”
 
“Lei non l’ha vista combattere. È spaventosa.”
 
Questo non fatica a crederlo. La fama della Vedova Nera è ben nota e, anche se così non fosse stato, lo sguardo gelido che gli ha rivolto entrando è stato sufficientemente eloquente.
 
“Sì, lo è. È spaventosa e pericolosa e imprevedibile, ed è proprio per questo che ti era stato ordinato di…”
 
“Le ho parlato. Starà dalla nostra parte.”
 
“Dalla nostra parte?” ripete e deve sforzarsi per alzare la voce “Ti rendi conto di quello che stai dicendo? Quella donna è una mina vagante e noi non possiamo reclutarla sulla base di una promessa.”
 
“Era sincera.”
 
“Era disperata. Doveva trovare il modo per evitare che la uccidessi.”
 
“E pensa davvero che le servissero le parole?” chiede, alludendo alle ferite e alle contusioni che ha sulle braccia e sul viso.
 
“Non puoi chiedermi di fidarmi di lei.”    
 
“Non è di lei che le sto chiedendo di fidarsi, ma di me.”
 
Phil fa per ribattere, poi desiste. Sprofonda in una delle sedie che attorniano il tavolo del salotto e si massaggia le tempie. Non sa se abbia più bisogno di un calmante o di un’aspirina.
 
“Perché non hai eseguito gli ordini?” chiede e non è un rimprovero, ma il tentativo di dare un senso a quello che, ai suoi occhi, appare un rischio che non ha motivo di essere corso. Quando è impossibile abbattere il muro dell’ostinazione, allora non resta che provare a guardare quello che nasconde – per cercare di capire o, almeno, per rassegnarsi.  
 
“Perché mi hanno insegnato che bisogna uccidere solo quando non c’è alternativa.”
 
Ricorda il giorno in cui gli ha affidato quel monito, la propria voce che scandisce quelle esatte parole. 
 
Non è un ritornello che rifila ai nuovi arrivati per convenzione, ma un principio che ha fatto suo quando ha capito che premere un grilletto può diventare un vizio in grado di cancellare il limite tra i buoni e i cattivi – ammesso che questo confine esista davvero. Natasha Romanoff è un pericolo che preferirebbe evitare, ma l’unica cosa che in quegli anni non è riuscito ad imparare è tradire le proprie convinzioni. 
 
“Non spetta a me decidere, ma parlerò con Fury.”
 
Sperando che non chieda la mia testa
 
“Grazie. Non se ne pentirà.” 
 
Phil se lo augura di cuore.
 
*

Phil getta sul terreno un’ultima manciata di rametti ed erbacce e si inginocchia accanto al cumulo che ha ammassato. Afferra un ramo più sottile degli altri, lo pianta nel mucchio e lo sfrega tra i palmi fino a quando non si levano delle spire di fumo grigio.
 
Barton, seduto sui resti di un grosso tronco, gli rivolge un’occhiata sorpresa. “Pensavo che accendere il fuoco con un rametto fosse roba da giovani marmotte, non da agenti dello S.H.I.E.L.D.”
 
Phil soffia sul cumulo per alimentare le fiamme. “Sono stato negli scout, da bambino.”
 
“Quindi è stato bambino.”
 
“È una rivelazione sconvolgente?”
 
“In effetti no. La mania delle figurine è un chiaro retaggio della sua infanzia.”
 
“Ricordi che sono un tuo superiore, vero?”
 
Barton ridacchia, strofinando le mani una contro l’altra. Il vento gelido frustra le fronde degli alberi e smuove le fiamme. Phil poggia sul terreno il ramo utilizzato per attizzare il fuoco, si stringe nel cappotto e si siede di fronte a lui. Dopo qualche minuto di silenzio, la voce del cecchino si mescola all’ululato delle folate. 
 
“Al circo.”
 
Phil alza la testa e aggrotta la fronte. Barton guarda dritto di fronte a sé, l’espressione assorta e gli occhi accesi dal riverbero delle fiamme. “Le cicatrici. So che le ha viste quel giorno, a Varsavia. Me le hanno fatte al circo.”
 
“Perché?”
 
Non è sicuro d’avere il diritto di chiedere, ma conosce Barton abbastanza bene da sapere di poterlo fare.
 
“Un sera una trapezista è caduta durante l’esibizione. Lo schianto è stato fortissimo, come una bomba che esplode. L’hanno trascinata fuori dalla pista e lo spettacolo è andato avanti come se niente fosse. È morta sul colpo” racconta e il fuoco diventa lo specchio di un ricordo che non ha mai smesso di sanguinare. “Sono corso dal proprietario e gli ho urlato addosso; ero fuori di me dalla rabbia. Se ci fosse stata la rete di sicurezza non sarebbe successo. Lui ha detto che era colpa della ragazza, che se fosse stata abbastanza brava non sarebbe caduta. L’ho pestato fino a quando non sono arrivati i suoi scagnozzi. A quel punto è andato a prendere la frusta per i cavalli e mi ha dato ‘la lezione che meritavo’.” 
 
Il disprezzo e il rancore puntellano le parole e storcono i lineamenti in una smorfia amara. “Ha detto che le cicatrici mi avrebbero ricordato che dovevo restare al mio posto. Una specie di promemoria.”
 
“Quand’è successo?”
 
“L’anno prima che Fury venisse a reclutarmi.”
 
Il vento ringhia più forte, le fiamme crepitano e disegnano nell’aria arabeschi dorati striati di rosso e d’arancio.
 
“Si chiamava Abby. È lei la persona che ho visto morire.”
 
Phil non dice nulla, perché sa che Barton non cercava compassione né parole, ma solo orecchie disposte ad ascoltare. Torna a smuovere le braci e l’altro continua a fissare il fuoco, immobile, immerso in un passato che forse, adesso, è più facile da sopportare. 
 
*
 
“Non scoccare quella maledetta freccia fino a quando non ti autorizzo, chiaro?” abbaia una voce sconosciuta e a Clint per poco non viene un colpo.
 
“Chi cazzo è questo?” domanda, interrompendo il collegamento radio, e Natasha si porta un dito alle labbra.
 
“Abbassa la voce o ci farai scoprire” bisbiglia “È Thomas White. Se fossi stato presente alla riunione pre missione, lo avresti saputo.”
 
“E Coulson?”
 
“È molto indaffarato in questo periodo. Non avrà avuto il tempo di seguirci.”
 
Clint si acquatta meglio contro la balaustra dietro cui sono nascosti e cerca di sfoggiare un’espressione neurale.
 
“E nemmeno quello di dircelo di persona.”
 
“Non ho detto che avrebbe dovuto.”
 
“Ma l’hai pensato.”
 
Evidentemente, non gli riesce.
 
“Arriva! Non lasciartelo sfuggire o ti metto a pulire i cessi della base per un mese.”
 
White continua a sbraitargli nell’auricolare per tre lunghe settimane.  
 
*
 
“Darcy…”
 
“No” dice lei, senza distogliere lo sguardo dallo schermo e continuando a battere forsennatamente le dita sulla tastiera “Non se ne parla nemmeno.”
 
“Come fai a sapere cosa stavo per dire?”
 
Darcy alza appena gli occhi e gli rivolge l’occhiata eloquente che si riserva alle domande particolarmente ovvie – o stupide.
 
“Perché…” scandisce, incrociando le braccia “…tu mi rivolgi la parola solo per due motivi: infastidirmi o chiedermi favori – il più delle volte roba illegale o immorale - e quando vuoi importunarmi mi chiami ‘Lewis’, non ‘Darcy’.”
 
Clint cerca di non assumere un’espressione colpevole – senza riuscirci. “Voglio soltanto porti una domanda.”
 
“Mi avvalgo della facoltà di non rispondere.”
 
“Ti prometto che ti lascerò in pace per un mese.”
 
Darcy assottiglia lo sguardo e preme le labbra una contro l’altra. “Tre.”
 
“Due.”
 
“Affare fatto” acconsente, battendo la mano sulla scrivania per sancire l’accordo “Qual è l’argomento?”
 
Clint cerca una risposta che non dia adito ad allusioni e sospetti, ma il sorrisetto maligno che Darcy gli rivolge dice che è uno sforzo inutile.
 
“Cosa vuoi sapere? Se dietro tutte quelle ore trascorse nell’ufficio di Fury non ci sono semplici questioni lavorative?” domanda e poi la sua faccia diventa improvvisamente seria “Sai che potrebbe essere? Ho sempre notato un certo feeling tra loro. Quando c’è Coulson, la quantità di parolacce che Fury infila in un discorso decresce del trentacinque per cen-”
 
“Abbassa la voce” le intima e il sorriso di Darcy si fa ancora più ampio e sornione. Clint preferirebbe chiedere aiuto al diavolo, ma purtroppo satana non può sbirciare l’agenda di Coulson. “Volevo soltanto sapere di cosa si sta occupando di tanto importante.”
 
Darcy emette un mmmh strascicato, lo fissa per qualche secondo con gli occhi socchiusi e poi riprende a scrivere al pc.
 
“Sono solo un’umile segretaria, non vengo messa al corrente dei piani super segreti del mio capo. Posso dirti che mi ha ordinato di cancellare tutti gli impegni previsti per il prossimo mese e il mio carico di lavoro è triplicato – così come la quantità giornaliera di caffeina che Coulson ingerisce. È piuttosto nervoso, insolitamente distratto e non mette piede nel suo ufficio da tre settimane. Non so cosa ci sia dietro, ma ho buoni motivi per supporre che si tratti di qualcosa di grosso. Qualche giorno fa ho captato qualche parola di una conversazione tra lui e Fury – accidentalmente, s’intende. Gliel’ho ripetuto mille volte che gli uffici andrebbero insonorizzati – e ho notato che veniva ripetuto con una certa frequenza il termine ‘Avengers’…sarà un nome in codice o un acronimo. Ti dice qualcosa?”
 
Clint riflette per una manciata di secondi prima di scuotere il capo: “Nulla.” 
 
Darcy scrolla appena le spalle e abbassa lo schermo del portatile. “Bene, ci si sente tra due mesi.”
 
*
 
Quel giorno, finalmente, Phil rimette piede nel proprio ufficio. Nelle ultime tre settimane ha trascorso talmente tanto tempo in quello di Fury che quasi gli riesce difficile orientarsi.
 
Il progetto Avengers procede a rilento. È incredibilmente complicato, molto più di quanto avesse previsto, e ci sono un mare di fattori da valutare e soppesare – più un consiglio di pitbull da tenere a bada. Tony Stark, di cui è divenuto la balia, è senza dubbio l’aspetto peggiore della faccenda. Se non ci fosse quella santa donna della signorina Potts a dargli man forte, avrebbe già chiesto a Fury d’esser sostituito – a proposito di Fury, non s’è ancora scusato per essersi addormentato sulla sua scrivania.  
 
Il suo scrittoio è sommerso da rapporti, alcuni dei quali giacciono lì da secoli. Di solito se ne occupa personalmente, ma adesso gli toccherà demandare il compito a Darcy – come ha fatto con tutto il resto. Quando esce dal suo ufficio incrocia Barton.
 
“Buongiorno age-“
 
“Buongiorno” risponde bruscamente e lo supera senza degnarlo di un’occhiata. Phil lo fissa stranito fino a quando non scompare oltre la soglia in fondo al corridoio.
 
“Penso che qualcuno ce l’abbia con lei, capo” squittisce Darcy alle sue spalle “Ma potrei anche sbagliarmi.”
 
Phil reprime un sospiro e si domanda di quale orribile colpa si sia macchiato nella sua vita precedente per meritarsi l’accanimento del mondo intero.
 
*
 
“Mi auguro che ci fosse qualcun altro quando sei arrivato, perché se ti sei fatto imbalsamare dai due trogloditi all’ingresso sarò costretto a dire a Fury di declassarti a livello uno.”
 
Quando Clint ha ripreso conoscenza e ha scoperto d’esser bendato e legato a una sedia, ha pensato che le cose non sarebbero potute andare peggio. Poi, tra tutti gli agenti che sarebbero potuti accorrere a liberarlo, è arrivato l’unico che non voleva lo vedesse in quelle condizioni – avrebbe preferito essere esposto alle prese in giro di Natasha - e ha capito quanta verità è racchiusa nei precetti di Murphy.
 
“È tutto sotto controllo.”
 
“Ed è per questo che sei legato come un salame?”
 
“Sarei riuscito a liberarmi anche da solo” sbotta, seccato. Sente il rumore dei passi che si avvicinano e poi le mani di Coulson che trafficano con le corde attorno alle sue caviglie.
 
“Beh, dal momento che ormai sono qui permettimi di aiutarti.”
 
È la situazione più imbarazzante in cui si sia ritrovato da quand’è arrivato allo S.H.I.E.L.D. – forse è persino più imbarazzante della volta in cui, durante uno spettacolo, ha infilzato la chiappa del venditore di pop corn che si aggirava tra gli spalti. Almeno la benda gli risparmia la vergogna di doverlo guardare in faccia. 

Qualche attimo, e il primo piede è libero.
 
“Scusami” dice Coulson all’improvviso, mentre districa i nodi attorno all’altra caviglia, e dietro la benda gli occhi di Clint si spalancano appena.
 
“Per cosa?”

Vorrebbe apparire scontroso, ma il suo tono suona soltanto sorpreso.
 
“Non lo so, ma se sei arrabbiato con me immagino d’aver fatto qualcosa di sbagliato. Di qualunque cosa si tratti, mi dispiace.”
 
“Non sono arrabbiato con lei.”
 
“Sì, lo sei.”
 
“No, non lo sono” ribatte, e la voce fuoriesce un po’più alta di quanto avesse programmato. “E, anche se lo fossi, non vorrei le sue scuse. Detesto esser trattato come un bambino.”
 
“Non l’ho mai fatto.”
 
“Lo sta facendo adesso.”
 
“Supporre che tu abbia un motivo valido per avercela con me è trattarti come un bambino?”
 
Clint non controbatte. No, Coulson non lo sta trattando come un bambino, ma lui si è comportato come tale e forse se n’era già reso conto, ma era troppo testardo per ammetterlo e tornare sui suoi passi, troppo  orgoglioso per confessare – persino a se stesso - la ragione che lo spingeva a farlo.
 
“Non ce l’ho con lei” dice e questa volta è vero, perché il motivo per cui era arrabbiato è tutt’altro che valido. Coulson ha solo fatto il suo lavoro e lui è un idiota e un egoista e non merita le scuse di nessuno, né tanto meno di chi non ha colpe.
 
“Non ce l’ho con lei, davvero” ripete, moderando la voce, e se si aprisse una voragine nel pavimento e inghiottisse lui e quella maledetta sedia sarebbe la persona più felice del mondo. Purtroppo non accade e allora Clint tira un respiro profondo e si costringe a proseguire. “È solo che, dal momento che ultimamente è tanto occupato, non credevo avesse ancora tempo per me.”  
 
Sente un rumore sommesso, una via di mezzo tra uno sbuffo e un sospiro. Si aspetta un sermone su quanto sia terribilmente stupido e/o terribilmente infantile e sta ancora decidendo se sia meglio – e più dignitoso – scusarsi o tacere quando la mano di Coulson si poggia sulla sua guancia e tutti i pensieri svaniscono come una bolla di sapone.
 
“Io avrò sempre tempo per te.”
 
Quando lo bacia, Clint teme che il cuore gli balzerà fuori dal petto prima che abbia il tempo di schiudere le labbra.
 
Per fortuna, non succede.
 
*
 
Certe notti fai sesso per godere, altre per ricomporre l’intero di cui ti senti la metà – e allora si chiama ‘fare l’amore’. È sfilarsi le maschere, prima che gli abiti, e darsi, prestare il fianco senza timore dei contraccolpi, offrire cicatrici che sono voglia di mostrarsi e una trama da imprimere sui polpastrelli e nella memoria.
 
Al buio, Clint è calore e una morsa che morde i fianchi; è qualcosa a cui sente di appartenere, e che gli appartiene; è una richiesta che sa di bisogno: “Guardami.”
 
Phil si solleva appena e trova il suo viso. La penombra ne nasconde lo sguardo, ma lui non l’ha mai sentito come in quel momento – certe cose non serve la luce a mostrarle.
 
Fronte contro fronte, pelle contro pelle, occhi negli occhi. Se il per sempre esistesse, Phil prolungherebbe quegli istanti all’infinito. Si muove piano, senza fretta, e non sente il bisogno di incalzare. Non vuole perdersi nulla, né sprecare un solo attimo.
 
*
 
Quando, il mattino dopo, arriva alla base, Darcy lo accoglie con un sorriso che si spande da un orecchio all’altro e l’aria di chi la sa lunga.
 
“Il principe azzurro ha salvato la sua principessa” commenta pimpante, allontanando le mani dalla tastiera “Se non ti avessi preferito morto, l’avrei trovato estremamente romantico.”
 
Clint ignora la provocazione e, raggiunta la scrivania dietro la quale è seduta la ragazza, poggia un bicchierino di plastica accanto al suo computer.
 
“Ti ho portato il caffè.”
 
Darcy distoglie lo sguardo dallo schermo e prende a fissare il bicchiere con aria sospettosa, quasi si aspettasse di vederlo esplodere da un momento all’altro.
 
“Le opzioni sono tre” dice, senza smettere di osservarlo “a) l’hai avvelenato b) ti serve un altro favore c) le cose sono andate meglio di quanto credessi.”
 
“E se fosse una gentilezza gratuita?”
 
Darcy tira fuori l’occhiata non dire idiozie e Clint alza le mani in segno di resa.
 
“Va bene, non lo è” ammette “La ‘b’ e la ‘c’ sono le risposte esatte, anche se la ‘a’ la terrò a mente per il futuro.”
 
*
 
“Un miliardario svitato, un soldato appena scongelato, un bestione verde, un divinità con grossi problemi familiari, una spia asociale e terrificante…Fury ha una strana concezione di ‘squadra ben assortita’.”
 
“Hai dimenticato ‘un cecchino affetto da logorrea cronica’.”
 
Clint, seduto sulla scrivania con le gambe penzoloni, ridacchia e lascia cadere in cima ad una pila di documenti il fascicolo sul progetto ‘Avengers’. “Si può sapere perché non me l’hai detto?”
 
“Perché erano…”
 
“…informazioni riservate” conclude al suo posto, roteando gli occhi al soffitto “Ho capito, ma potevi almeno darmi un segnale, un’indicazione vaga, qualcosa che non mi facesse fare la figura dell’idio…”
 
Si interrompe, ripensando al modo in cui sono andate le cose grazie a quell’omissione. “Come non detto. È stato meglio così. Se me l’avessi detto non saremmo mai finiti a…”
 
“Come hai fatto ad entrare? La porta era chiusa.”
 
Clint esibisce il suo ghigno soddisfatto ancora per qualche istante, prima di ostentare un’aria fintamente seria e sussurrare con fare teatrale: “Sono informazioni riservate.”
 
“Non voglio che tu e Darcy fraternizziate. A lungo andare, la condurrai sulla cattiva strada.”
 
“Io a lei?” chiede Clint, stupefatto “Si vede che non la conosci bene quanto credi.”
 
“La conosco abbastanza bene da sapere che formereste un duo potenzialmente letale” replica Phil, poi afferra una manciata di documenti e gli dà una pacca dietro la schiena che, Clint lo sa, sta per ‘Scendi e smamma’.
 
“In ogni caso, non funzionerà” sentenzia, balzando giù dalla scrivania. Phil è già immerso nella lettura del materiale sottratto al cumulo.
 
“Ti riferisci alla squadra?”
 
Malgrado abbia il capo chino, Clint riesce a vedere l’accenno di sorriso che gli piega le labbra.
 
“Naturalmente.”
 
“Io dico che funzionerà” replica Phil senza alzare la testa e Clint sorride a sua volta.
 
“Ti riferisci alla squadra?”
 
Phil solleva appena lo sguardo e Clint è sicuro di non aver mai visto i suoi occhi brillare in quel modo – ed è lo spettacolo più bello a cui abbia mai assistito.
 
“Anche.”
 
Clint ha quasi paura di pensare che forse, per una volta, tutto può finalmente andare per il verso giusto.
 
*
 
Una macchia blu e rossa gli compare all’improvviso davanti agli occhi e Clint quasi sobbalza. La mano che stringe il piccolo scudo è piccola e bianca ed è tesa verso di lui.
 
“Prendilo.”
 
La voce di Darcy è un sussurro morbido e tremolante. Clint fissa il portachiavi in silenzio, senza sollevare il capo.
 
“Gli effetti personali vanno consegnati ai parenti” riesce a dire alla fine, e il tono atono che impiega non lascia in alcun modo trapelare quanto quelle parole gli siano costate.
 
“Lo so, ho sgomberato io l’ufficio. Ho messo tutto in una scatola. Hanno detto che la manderanno ai genitori.”
 
A lui non spetta nulla, se non il ricordo – e un rimorso che azzanna alla gola.
 
“Mi sono accorta d’aver dimenticato questo, ma ormai la scatola era sigillata e non potevo lasciarlo lì e…”
 
Si ferma e sospira, serra la dita attorno al ciondolo.
 
“…no, non è vero. L’ho fatto apposta. Non mi interessa se qualcuno se n’è accorto, tanto sarei stata licenziata comunque, e se vogliono ammazzarmi per così poco allora…”
 
“Grazie.”
 
Darcy tace e se fosse un altro momento, se fosse un altro giorno, Clint sorriderebbe, perché è la prima volta che riesce a farla stare zitta. Però non è un altro momento, non è un altro giorno, e lui non ricorda nemmeno come si faccia a sorridere.
 
La mano di Darcy è ancora tesa nella sua direzione. Nel momento in cui Clint solleva la propria e sfiora il portachiavi, lei scatta in avanti e un istante dopo le sue braccia lo stringono con una forza che non pensava potesse avere.
 
“Mi dispiace” mormora e un singulto esplode contro la sua spalla “Mi dispiace tanto.”
 
Mentre piange, Darcy pare fragile come una bambola di porcellana. Eppure, Clint ha l’impressione che il suo abbraccio sia l’unica cosa che gli impedisce di andare in pezzi.
 
*
 
Le notti al poligono hanno un’unica meta: colpire il bersaglio.
 
Colpirlo una, dieci, cento, mille volte, per cancellare il sorriso mellifluo di Loki e il suono sinistro della sua risata.
Colpirlo una, dieci, cento, mille volte, per scacciare l’immagine della bara di Phil che cala nella fossa e scompare sotto la terra.
Colpirlo una, dieci, cento, mille volte, per zittire i pensieri e colmare la voragine che hai nel petto.
Colpirlo una, dieci, cento, mille volte, fino a quando non crolli e vieni inghiottito da un sonno senza sogni che è un baratro senza appigli.
 
Colpire il bersaglio. L’imperativo di una vita, l’unico modo per restare a galla.  
 
*
 
Quella mattina, quando si sveglia, trova il viso di Natasha a pochi centimetri dal suo. Dorme rannicchiata su un fianco, le dita intrecciate sotto una guancia a mò di cuscino.
 
Clint sa che sono i suoi i passi che riecheggiano ogni sera alle sue spalle, che è lei a stendergli addosso la coperta sotto cui si ritrova ogni mattina e a lasciare una tazzina di caffè sul pavimento accanto alla faretra.
 
La osserva. Nei tratti del suo viso scorge i segni di una tristezza stanca e dolente che la rende, se possibile, ancor più bella. Ricorda il giorno in cui la vide per la prima volta, il momento in cui abbassò l’arco e decise che non l’avrebbe uccisa.
 
Non c’è stata sera in cui si sia voltato a guardarla, né giorno in cui l’abbia ringraziata per la coperta o abbia svuotato la tazzina. Non le ha mai detto che risparmiarla è stata la scelta migliore della sua vita, né che, adesso, è l’unica cosa che gli sia rimasta.
 
Perdonami
 
Allunga un braccio e le sfiora la gota. Sente il cuore sprofondare quando s’accorge che è bagnata di lacrime. 
 
*
 
“Ne vuole uno?”
 
A Clint piace Bruce, perché usa la testa con una lucidità che non penseresti uno con i suoi problemi di autocontrollo possa avere. È posato, discreto e autenticamente buono, come le persone non sono mai; pensa tantissimo, agisce con criterio e non parla a vanvera. Bruce Banner non è l’altra faccia di Hulk, ma il suo opposto.
 
Le mani del dottore, in piedi di fronte a lui, sorreggono un vassoio colmo di muffin. “Virginia in questo periodo è molto indaffarata e Tony ai fornelli è più pericoloso di quando indossa l’armatura” dice e accenna una risata, la risata schiva e sommessa di chi ha costantemente paura di disturbare – o di chi crede non gli spetti più nemmeno il diritto di essere felice. “Cucinare mi è sembrato un buon modo per sdebitarmi…e per non morire di fame. Non ci avevo mai provato prima. È rilassante. L’agente Romanoff mi ha detto che lei è molto bravo. Vorrei un suo parere.”
 
Clint tiene gli occhi fissi sul vassoio. I dolci hanno un aspetto invitante. Pensa che debbano essere buoni.
 
“Grazie, ma non ho fame.”
 
“Posso sedermi?”
 
Bruce Banner non si impone e non pretende, mai. Non è nella sua natura.
 
“Potrei dirle di no?”
 
Prende posto accanto a lui, si sistema il vassoio sulle ginocchia e resta in silenzio per qualche istante – istanti lunghi, interminabili, pieni di tacite domande che Clint non vuole sentirsi porre, ma si tratta di Bruce e lui non merita d’esser mandato via in malo modo.
 
“Natasha è preoccupata per lei” dice e Clint lo intravede voltarsi nella sua direzione. Lui, invece, continua a guardare dritto di fronte a sé. “Tutti sono preoccupati per lei.”
 
“Sto bene.”
 
“No, non sta bene. Non sta affatto bene e lo sa.”
 
Niente domande, solo verità che bruciano e pesano come macigni. Non è quello che si aspettava ed è come ricevere un colpo senza aver nemmeno visto il nemico avvicinarsi. Una sensazione sconosciuta, per uno che è abituato a scorgere anche il dettaglio più insignificante.
 
“Quello che sta facendo non la porterà a nulla. Non è una soluzione, è aggravare il problema. Perché non si fa aiutare?”
 
“Aiutare?” chiede Clint, sprezzante, e un riso amaro e disperato gli soffoca la gola. “Chi dovrebbe aiutarmi, dottore, e come?”
 
Le dita si serrano in due pugni tremanti, le unghie penetrano nei palmi fino a scorticarli. Quando parla, una rabbia cieca e dolorosa gli serpeggia nella voce. “Gli altri non possono fare niente. Loro non sanno cosa significhi sentirsi…”
 
“…un mostro?”
 
Clint non risponde; non una parola, non un cenno, solo un leggero irrigidirsi della schiena e un dischiudersi appena accennato delle labbra. Un sospiro muto.
 
“Ho rotto tutti gli specchi di casa mia dopo che…l’Altro è venuto fuori per la prima volta. Non volevo guardarmi. La mia immagine mi disgustava. Ho sperato di morire tante, tantissime volte…Ho anche provato a uccidermi, una volta, e sa a cos’è servito?”
 
Finalmente, Clint solleva il capo e lo guarda. Vede nei suoi occhi i pezzi di una vita andata in frantumi e i fumi di una nebbia non ancora diradata del tutto, ed è un po’come osservare la propria immagine riflessa.
 
“A niente.”
 
Distoglie lo sguardo, quasi quelle parole fossero un fulgore insopportabile alla vista. Bruce si alza, prende un muffin e lo poggia sul tavolino di fronte al divano. “Nel caso cambiasse idea.”
 
Clint lo segue con lo sguardo fino a quando non scompare, poi si passa nervosamente le mani tra i capelli e, reclinato il capo contro lo schienale, passa un tempo lunghissimo a fissare il soffitto.
 
*
 
“…e a quel punto, l’agente Romanoff e il capitano Rogers intratterranno gli ospiti all’ingresso, mentre Stark e Thor troveranno il modo di infiltrarsi nel covo di Graviton. Il dottor Banner invece…”
 
“Tony, potresti almeno fingere di ascoltare?” bisbiglia Bruce, mentre la Hill continua ad esporre la pianificazione della prossima missione.
 
“Sto ascoltando.”
 
“Stai giocando a Ruzzle.”
 
“Non gioco a Ruzzle con le orecchie, Doc, e riesco a fare otto cose contemporaneamente” replica, senza staccare lo sguardo dal cellulare che tiene nascosto dietro un lembo della giacca “Inoltre, indicazioni quali ’Troveranno il modo di infiltrarsi’ non meritano la mia attenzione.”
 
“Siamo in riunione, non puoi…”
 
D’un tratto, la Hill s’interrompe e prende a fissare un punto alle spalle dei divani e delle poltrone su cui i Vendicatori sono seduti con espressione incredula.
 
“Agente Barton” dice, e lo stupore le anima la voce “Che sorpresa vederla.”
 
Tutte le teste scattano simultaneamente verso il fondo della stanza. Clint è fermo sull’uscio e Bruce quasi non riesce a credere ai suoi occhi.
 
“Positiva, spero.”
 
Fa vagare rapidamente lo sguardo sui presenti, poi avanza e occupa il posto vuoto accanto a lui. “Posso avere un riassuntino?”
 
“Non rispiego per i ritardatari” risponde la Hill, ma non c’è traccia di biasimo né di collera nel suo tono “Al termine della riunione, i suoi compagni provvederanno a informarla.”
 
“Sì signora maestra” mormora Tony e Bruce gli rifila una gomitata discreta – ma, a giudicare dal mugolio che emette, comunque dolorosa.
 
La Hill ha appena ripreso a parlare – e Tony a giocare a Ruzzle - quando un lieve sussurro arriva alle orecchie di Bruce: “La prossima volta ci metta un po’meno lievito.”
 
Non è mai stato così felice di ricevere un consiglio.
 
*
 
Il primo spunta fuori all’improvviso e Clint, che ha appena imbracciato l’arco, non ha nemmeno il tempo di prendere la mira. Lo manca per un millimetro, ma al secondo tentativo non se lo lascia sfuggire. 
 
Dal tetto su cui è appostato, colpisce tutti gli altri – si tratta di mostri non meglio identificati – senza difficoltà, impedendogli di raggiungere i piani bassi, dove combatte il resto della squadra.
 
“Ehi, Arrow, lasciacene qualcuno!” protesta Tony dall’auricolare. Clint ridacchia e trafigge l’ennesimo avversario. Ormai vengono fuori con frequenza sempre minore – probabilmente, hanno capito che è meglio battere in ritirata.
 
Ne è rimasto soltanto uno. Clint ignora Tony, che continua a borbottare lamentele, aggancia la corda, piega il braccio e lascia partire il colpo. Nel momento esatto in cui la freccia infilza il nemico un’altra voce gli risuona nelle orecchie, ed è intessuta di calore e di un ricordo vecchio come il tempo.
 
“Può fare di meglio, agente.”
 
Il suo cuore si blocca e l’arco gli cade di mano.
 
*
 
“Melinda May? Quella Melinda May?”
 
Clint è seduto sul cuscino a gambe incrociate, la schiena poggiata contro la spalliera del letto e il capo chino sul fascicolo che stringe tra le mani. Phil è stravaccato contro il suo fianco e gli cinge la vita con un braccio.  
 
“Ne conosci altre?” domanda e gli schiocca un bacio sulla spalla nuda. Clint fissa l’immagine di Melinda come fosse un fantasma apparso dal nulla.
 
“Non pensavo che esistesse davvero. Ero convinto che fosse una specie di leggenda o una figura mitologica…”
 
“È da qualche anno che si occupa della burocrazia. Ha avuto dei…problemi e ha deciso di lasciare il lavoro sul ca-”
 
“Ward?! Stai scherzando?”
 
“Non è così male.”
 
“No, infatti. È molto peggio.”
 
Sulla pagina successiva campeggiano le foto di due giovani con indosso un camice bianco. “Fitz-Simmons? Beh, ricordati di portare i cartoni animati e i giocattoli.”
 
“Sono due professionisti seri e qualificati.”
 
“Hanno già tolto il pannolino?”
 
Phil rotea gli occhi al soffitto, esasperato. “Per quale motivo ho accettato di farti vedere il fascicolo sulla squadra?”
 
“Perché sei sempre accondiscendente dopo aver fatto sesso con me.”
 
“Ricordami di non farlo mai più.”
 
“Sesso con me?”
 
“Accontentarti” sbotta, ed è uno di quei momenti in cui non sa se soffocarlo con un cuscino o buttarlo giù dal letto a calci – o tutte e due le cose.  
 
“Dopo tanto tempo a trafficare tra le scartoffie la May sarà sicuramente arrugginita, Ward è un sociopatico e Fitz e Simmons scoppieranno a piangere appena il bus decollerà.”
 
Phil deve ammettere (non ad alta voce, naturalmente) che non è un’analisi del tutto errata – eccezion fatta per la parte su Melinda. Eppure, malgrado tutto, crede in quei ragazzi e desidera concedergli un’opportunità. Ha un debole per le cause perse, perché è ancora più bello vincere quando il mondo ti dà per spacciato.
 
“Funzioneranno, vedrai.” 
 
“Ti ricordi cos’è successo l’ultima volta che hai detto una cosa del genere?”
 
“Ho avuto ragione.”
 
“Sei quasi morto” ribatte Clint, contrariato, e si libera dalla sua stretta “Ti dicono niente detti come ‘errare è umano, perseverare è diabolico’ oppure ‘Sbagliando si impara’ o…?”
 
Phil sbuffa e gli strappa il fascicolo di mano.
 
“Basta parlare di questo” dice e si sporge verso di lui, ma Clint gli poggia una mano sulla bocca prima che possa baciarlo e lo costringe ad arretrare. Il suo sguardo scivola sulla cicatrice e rivede vecchi spettri che, a dispetto del tempo che passa, continuano ad aleggiare – e forse non è possibile scacciarli, ma se hai qualcuno che ti tiene per mano puoi persino imparare a conviverci.
 
La fissa a lungo e poi la sfiora, la accarezza con le dita e con le labbra.
La sente sua, perché è la memoria di una ferita che è stata inferta a entrambi.
La ama, perché essersi ritrovati conta più d’aver corso il rischio di perdersi.
 
“Promettimi che andrà tutto bene.”
“Te lo prometto.”
 
È un impegno a cui Phil non ha intenzione di venir meno. 













Note
-La biografia di Clint è parzialmente ispirata al fumetto: “Mandato in un orfanotrofio in tenera età a causa della morte dei suoi genitori, Clint Barton fuggì a quattordici anni per unirsi a un circo.” (Wikipedia dixit). La storia di Abby e delle cicatrici, invece, è una mia invenzione.
-Nel mio Head Canon, Darcy è la segretaria di Coulson. Quando, come in questo caso, i fatti narrati sono antecedenti a quelli di ‘The Avengers’, mi prendo la libertà di assegnarle comunque questo ruolo, perché non posso fare a meno di lei – tra l’altro, nulla vieta che sia stata assunta subito dopo il New Messico, no? fate sì con la testa
-All’inizio avevo dubbi sul nome da assegnare all’elefante. Ringrazio la mia Lou per la (illuminante) consulenza *ride* *scuora*
 
  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Avengers / Vai alla pagina dell'autore: Alley