Fanfic su artisti musicali > Justin Bieber
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Autore: noelia    07/01/2014    8 recensioni
Dopo la morte dei genitori in un incidente d'auto, la sedicenne Rose Mary Fray è costretta trasferirsi in Indonesia, dai suoi nonni materni. Lì incontra Justin, inizialmente ostile e scorbutico nei suoi confronti, con uno scheletro nell'armadio: è infatti da pochi anni uscito da un riformatorio, accusato di aver ucciso sua madre, Patricia e sua sorella, Juliet. 
Le settimane a Bali passano monotone, finché non si innesca una serie di raccapriccianti eventi. Rapimenti, uccisioni. Ed è proprio in quest'occasione che i demoni del loro passato ritornano a tormentarli.
FAN FICTION SOSPESA A DATA ANCORA DA STABILIRSI.
Genere: Drammatico, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jeremy Bieber, Justin Bieber, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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CAPITOLO 17
   pt II
Taken





Entrai nella mia camera, chiudendomi la porta alle spalle.
Tirai il cellulare sul letto, sospirai, e mi andai a stendere sul morbido materasso.
Justin voleva vedermi.
Anche io. Anche io volevo vederlo, ma contemporaneamente prenderlo a schiaffi. C’erano troppi sentimenti contrastanti, dentro di me, che mi rendevano nervosa, irritante, confusa, più di quanto io non fossi già.
Ero certa: non avrei mai e poi mai capito cosa c’era tra me e Justin.
Cos’era? Amore? Amicizia? Odio? O forse un connubio perfetto delle tre sensazioni?
Il primo giorno che lo vidi, oh, non lo dimenticherò mai; era il mio terzo giorno a Bali, e il nonno mi aveva portato sulla sua barca. Lì c’era un ragazzo in canotta, con l’aria fredda, distaccata, che lavorava tutto solo in un angolo. I nostri sguardi si erano incrociati molte volte quel giorno. Qualche volta aveva risposto alzando un sopracciglio; qualche volta soffermandosi a guardarmi; altre volte aveva distolto gli occhi come se non potesse guardarmi.
Io invece, non facevo altro che guardarlo, e ogni volta che scorgevo una parte del suo corpo, nascosta dietro al muro, il cuore iniziava a battere forte, più di quanto avrebbe dovuto.
Amore a prima vista? O forse mi emozionava semplicemente il fatto che  fosse un bel ragazzo?
Lo rividi poi la sera successiva, al falò sulla spiaggia. Ricordo che in quel momento pensavo fosse pazzo, un ragazzo pericoloso, perché la nonna aveva accennato all’omicidio.
Poi però, aveva preso a pugni un ragazzo, perché mi stava importunando, e mi aveva portata lontana dalla festa, per farmi calmare. Quella fu la prima volta che dialogammo per qualche minuto. Quella fu la prima volta – e l’ultima – che raccontai a qualcuno del ragazzo della chitarra. Justin, ma io non lo sapevo; come potevo, d’altronde?
Dopo qualche giorno, alla festa di Daniel avevo trovato ciò che mai mi sarei aspettata. Justin e Alyssa, che si baciavano appassionatamente in una stanza sperduta del secondo piano. Oh, avevo odiato Alyssa in quel momento, e poi avevo odiato me stessa per aver provato rabbia nei confronti della mia migliore amica.
La colpa era di Justin. Solo sua, ma non l’avrei mai ammesso.
Poi, quella sera, arrivò la polizia, e finché la casa non fu sgomberata io e Justin rimanemmo chiusi in uno sgabuzzino, nel buio più totale. Gli tenevo la mano, perché sentivo il suo respiro affannato, e volevo che si calmasse.
Quando uscimmo di lì, e rimanemmo soli, ancora, Justin mi chiese scusa. Scusa per ciò che era accaduto con Alyssa.
Scusa per cosa?
Io continuavo a dire di odiarlo, lui altrettanto, eppure perché mi aveva chiesto scusa per aver baciato una ragazza?
Il momento decisivo si presentò due giorno dopo.
Era il compleanno di Daniel, ci eravamo persi su quell’isola disabitata, poi divisi. Io e Justin ci eravamo riparati in una grotta. Era notte fonda, una tempesta era in atto, e dopo essermi aperta con lui come mai prima, raccontandogli dei miei genitori, lui mi baciò… Il bacio migliore. Era assurdo pensare che fosse stato il bacio migliore, dato che era anche il primo, ma io ero sicura che mai più mi sarebbe capitato di provare tali sensazioni baciando una persona. Era un bacio quasi disperato, come se entrambi non aspettassimo altro dal primo giorno, poi, si staccò da me, e mi chiese scusa. Ancora. Ed io ancora, mi chiesi: “Scusa per cosa?”, e nemmeno quella volta riuscì a trovare una risposta.
Trasalii all’udire del mio nome, che mi fece completamente staccare da quei ricordi.
Era la voce di Alyssa. Di scatto mi tirai su, poggiandomi compostamente allo schienale imbottito. – Aly, entra.
La porta si aprì lentamente, lasciando scorgere l’esile figura di Alyssa. Mi bastò guardarla negli occhi per capire che qualcosa non andava. E poi, insomma, Alyssa non avrebbe mai aperto il quel modo pacato una porta. Piuttosto l’avrebbe sbattuta all’aria piombando improvvisamente.
- Rose Mary…- si avvicinò al letto. – Rosie…
- Sì?- chiesi squadrandola da capo a piede.
- Senti io…
- Oh, ti prego, sputa il rospo, Aly. Intuisco quando qualcosa non va. Su, dimmi!- le feci segno di sedermi affianco, ma lei scosse la testa e si posizionò ai piedi del letto.
- N-Non so da dove iniziare…
Lasciai che passasse qualche secondo affinché trovasse le parole giuste, ma più il tempo passava, più io iniziavo a preoccuparmi. – E’ successo qualcosa con Daniel?
- No- scosse il capo guardando nel vuoto, - lui non c’entra.
- Ti prego, mi spaventi- le misi una mano sulla gamba.
Lei guardò la mia mano, poi i miei occhi. I suoi erano arrossati, e lucidi. Stava per piangere, e la voglia di sapere il perché mi stava mangiando viva.
- Rosie… ehm… Justin…
- Justin cosa?- la interrupi socchiudendo gli occhi, con quello strano tono di voce che mi usciva ogni qualvolta sentivo pronunciare il suo nome; era un tono calmo, quasi rassegnato, con una sfumatura di curiosità e rabbia.
- Sull’is…
- Ragazze!- esclamò Daniel, dirompendo improvvisamente in camera.
- Che c’è?- gli urlai contro. – Non ne posso più di queste improvvise entrate in scena. Mi mettete ansia!- tuonai istericamente.
Ci furono secondi di imbarazzante silenzio. – Scusa- dissi subito dopo pentendomi di averlo trattato in quel modo.
- Tranquilla- venne ai piedi le letto. – Sei nervosa, lo capisco- mi sfiorò un braccio sorridendomi appena.
Era così bello.
No, oh no. Non era bello in quel senso, non era bello come Justin, ma lo era… oggettivamente.
- Hai qualcosa da dire, Daniel?- domandò Alyssa estremamente irritata, come se dalla voce stesse fuoriuscendo veleno. – Stavamo parlando.
Lui la guardò stranito, aggrottando le sopracciglia, dopodiché fece spallucce. – Mi ha chiamato Fred- lanciò uno sguardo a me, poi ad Alyssa. A quel punto ci disse che il nonno si era completamente dimenticato di avvisarci che quella sera ci sarebbe stata una ricorrenza locale, La festa dei pescatori. Era un’antica ed estremamente importante tradizione dell’isola, un po’ come il giorno del ringraziamento negli Stati Uniti. Tutti accorrevano al porto: vecchi, bambini, giovani donne e uomini, e la notte si trascorreva tra danze, giochi e pesce arrostito. Il nonno non sarebbe venuto; era troppo stanco, aveva detto, e voleva tenere compagnia alla famiglia Cheyenne, e Mayer. – E così dobbiamo andarci noi- concluse con voce fiacca.
Ci scambiammo delle occhiate.
Quante cose sono cambiate pensai con un orribile vuoto allo stomaco. Fino a qualche mese prima sapere che avremmo dovuto partecipare ad una festa ci rendeva euforici, ci faceva uscire di testa… d’altronde, era così che avrebbero dovuto reagire dei normali adolescenti, no?
Il problema era proprio legato a quell’ultima frase: noi non eravamo dei normali adolescenti. Tutto ciò che stava accadendo ci stava segnando terribilmente, senza nemmeno che noi ce ne accorgessimo. Ci stava facendo invecchiare, ma senza capelli bianchi o rughe… ci stava facendo invecchiare dentro. Oh, un bell’e grosso inganno.
- Una festa!- esclamai subito dopo fingendomi entusiasta, e cercando per qualche secondo, di comportarmi come facevo una volta. – Ci divertiremo…- accennai un sorriso sforzato.
- Ci divertiremo- mi fece eco Alyssa, atona. – Vado a vestirmi.
E così scomparve dietro la porta.
- Che diavolo le prende?- chiese Daniel sottovoce.
- Non ne ho idea- puntai lo sguardo fisso sul parato glicine di fronte a me. – E’ strana, ultimamente… non mi sembra nemmeno lei- confessai con una nota di malinconia.
Lui tirò un sospiro. – Mi tratta come se mi odiasse, e non ne capisco il motivo.
Questa volta mi girai a guardarlo negli occhi, curiosa. – Tu… davvero non ti sei accorto di nulla?
- Accorgermi di cosa?- domandò.
Scesi svelta dal letto, andando a chiudere la porta, poi, mi rivolsi nuovamente a lui. – Daniel- avanzai di qualche passo fino ad averlo a pochi centimetri di distanza. – Tu le piaci- gli sussurrai ad un orecchio.
D’un tratto la porta si spalancò. – Rosie, credi ch…- Alyssa si bloccò a guardare la scena, dischiudendo le labbra per la sorpresa.
Entrambi ci girammo di scatto verso di lei, staccandoci contemporaneamente l’uno dall’altro.
- A-Aly- balbettai avvicinandomi a lei. – Che-Che cosa hai detto?
Lei indietreggiò. – Niente…- mi guardò dritta negli occhi per qualche secondo, come si guarda chi ha appena bastonato il proprio cane. – Non ho detto niente- pronunciò sprezzante,  sparendo nuovamente nel lungo corridoio.
Decisi di non correrle dietro, le sarebbe passato nel giro di pochi minuti, e a quel punto le avrei spiegato come erano andate davvero le cose.
Guardai l’orologio: segnava le 19.37.
Mi andai a preparare.

Helen non ne poteva più di camminare; stavano girando a vuoto da ormai trenta minuti.
- Che ore sono, George?- chiese a voce bassa.
Lui controllo l’orologio da polso. – Le diciannove e trentasette.
Da quant’era su quell’isola? Meno di un giorno? Eppure la donna si sentiva mancare il respiro. Solo in quel momento si rese conto che Kim, era lì da settimane.
Oh, povera piccola.
- Non ce la faccio più!- piagnucolò la bambina.
- Shh!- l’ammonì l’uomo, senza però essere esageratamente duro. – Devi abbassare la voce, Kim. Mi hai capito?
Lei annuì abbassando lo sguardo, sentendosi mortificata.
- Cos’è successo in queste settimane qui? Ti ha fatto del male, Kim?- domandò pochi minuti dopo Helen, non riuscendo a trattenere la curiosità.
Il reverendo era qualche passo più avanti, e a quanto pareva, non aveva sentito nulla.
- Brutto- sibilò la piccola con un tono di voce così raccapricciante, da far accapponare la pelle della donna. –… Tanto brutto, signora Helen. Tanto…- la voce le venne meno, e girandosi a guardarla, Helen vide scorrerle delle lacrime lungo il viso.
Velocemente, con un gesto materno le asciugò gli occhi. – Kim, i-io non ti prometto che ritorneremo a casa… ma ti prometto che farò tutto ciò è in mio potere affinché questo accada.
Dopodiché, senza aggiungere altro, e ripuntando gli occhi sulla strada, raggiunse il reverendo, stringendo forte la mano della bambina.
Una decina di minuti dopo erano ancora a vagabondare nel verde più selvaggio, finché il reverendo non si fermò di scatto, allargando le braccia. – Quest’albero- indicò un imponente albero centenario, proprio di fronte a loro. – Non siamo già passati per qui. Quest’albero… me lo ricordo.
Helen iniziava ad agitarsi. – C-Che facciamo adesso?
Tentò di non lasciar trasparire il terrore che stava provando, ma non ci riuscì.
- Non lo so…- ammise l’uomo. – Siamo in un vicolo cieco, un labirinto senza via d’uscita.
- C’è sempre una via d’uscita- Helen tentò di non far morire anche l’ultima fiamma di speranza dentro di sé; la luce era fiacca, circondata dalle ceneri.
La fiamma, però, si spense del tutto pochi secondi dopo, quando una voce, la sua voce, riecheggiò intorno a loro.
- Oh, no- sussurrò Helen guardandosi intorno agitatamente.
- S-Sta tornado?- Kim scoppiò a piangere, di nuovo.
- Basta!- il reverendo alzò le braccia al cielo. – Andiamo da lui. Gli diremo che Kim si è sentita male e che aveva bisogno di prendere aria- si arrese. – S-Se penserà che volevamo scappare… beh…
- Andiamo!- lo schernì Helen riprendendo a camminare, fino a ritrovarsi di fronte all’uomo.
- Oh-Oh-Oh- fece con una voce profonda Jeremy. – Guarda un po’ chi c’è! Non stavate mica tentando di scappare?- si avvicinò ad Helen, puntandole un coltellino al collo.
Lei riversò il capo all’indietro affinché la lama non la ferisse. – Ki-Kim si è sentita male, abbiamo pensato dovesse prende aria- d’un tratto Jeremy allontanò il coltello dalla gola della donna. – Le minacce non ti porteranno da nessuna parte- aggiunse dopo qualche secondo.
Jeremy fece finta di non aver sentito la sua ultima frase, poi sospirò. – Riconosco le bugie, Helen. Che questa sia l’ultima volta che me ne diciate una, altrimenti…
- Altrimenti cosa?- replicò il reverendo con voce fredda. – Coraggio! Uccidici!
Helen gli pizzicò una parte di pelle, ammonendolo.
- Che senso ha tutto ciò?- urlò poi. – Perché ci hai portato qui? Falla finita, adesso! Se vuoi ucciderci fallo!- gli si lanciò addosso, contro tutte le aspettative di Helen.
Jeremy veloce come una saetta gli bloccò i polsi, storcendoglieli. – Chi ha mai parlato di uccidervi?
- Basta, Jeremy- la donna pronunciò con tono solenne, gli occhi socchiusi. – Basta.
L’uomo, folgorato dalla sua fermezza lasciò andare Harold, distraendosi per qualche secondo.
Ora o mai più pensò il reverendo, sferrando subito dopo una ginocchiata nella schiena di quel mostro. Quest’ultimo cadde a terra con gli occhi sgranati. Harold si accovacciò su di lui, che gemeva per il dolore. – Perdonami Signore- disse, dopodiché con un potente pugno lo stordì fino a fargli perdere i sensi.
Quando Jeremy Bieber riaprì gli occhi, Kim dormiva supina tra le braccia di Helen, mentre il reverendo era in un angolo ad affilare un ramo.
- Harold, si è svegliato- sentì come all’interno di una bolla Jeremy.
Quando si riprese del tutto, fu colpito da un lancinante mal di testa. Strizzò gli occhi. Tentò di portarsi una mano alla testa, ma si rese conto che le aveva legate saldamente. In quel momento si aggiunse anche un fastidioso bruciore ai polsi. – Che mi avete fatto?- urlò.
- Taci- sibilò Helen.
- Bastardi! Io vi uccido! Io vi uccido!- si dimenò come un indemoniato, finché non urtò con il capo contro il muro.
Harold Mayer gli si avvicinò a passi tardi, poi, gli puntò il ramo appuntito contro. – Rispondi alle nostre domande, o saremo noi ad uccidere te.
Lui scoppiò in una fragorosa e sincera risata. – Una vecchia, una bambina e un… prete?- disse poi.
- Non giocare con il fuoco- il reverendo avvicinò l’arma di legno fino a provocargli un taglio superficiale sulla guancia destra.
Jeremy sputò per terra, poi guardò le persone di fronte a lui con uno sguardo carico di odio. – Non vi dirò nulla.
Vide la donna togliersi lentamente la bambina di dosso, e avvicinarsi a lui. Poi, cacciò un coltellino. Il suo coltellino, quello con cui qualche ore prima aveva puntato al suo collo. – Ne sei così sicuro?- gli domandò, infilzandogli contemporaneamente la lama nell’incavo della spalla.
Jeremy urlò, straziato dal dolore. – Si-Sicurissimo- ansimò.
Helen tirò un respiro profondo, poi girò lentamente il coltello all’interno della sua carne. Si trattenne all’impulso di vomitare. Era il loro momento, e non potevano commettere errori. – Ti ripeto la domanda: ne sei così sicuro?
Il viso di Jeremy era diventato improvvisamente di un bianco cadaverico, e i suoi occhi erano umidi di pianto, nonostante ciò, riuscì a trovare la forza di annuire.
- Oh, Jeremy, sei sempre stato così testardo- si finse dispiaciuta Helen, estraendo lentamente la lama dalla spalla dell’uomo che tanto conosceva. Esitò per un istante, quando egli urlò spaventosamente inarcando la schiena dal dolore. – B-Bast …- tentò di dire.
Helen si fermò. – Te lo chiedo un’ultima volta, poi ti giuro che la lama te la faccio uscire dall’altra parte: risponderai alle nostre domande?
Dalla sua bocca non uscì che un lamento, ma Helen lo interpretò come un sì, anche perché, per quanto odiasse quell’uomo, vederlo ridotto in quello stato era un tormento anche per lei. – Bene- tirò velocemente il coltellino dalla sua pelle, in modo che sentisse meno dolore, poi, si sedette per terra di fronte a lui. – Perché ci hai portati qui?- era una domanda, ma allo stesso tempo un ordine, come se non avesse altra alternativa se non rispondervi.
- Non lo so- sussurrò lui. Helen fece per rinfilzargli l’arma nella carne. – Non lo so, davvero …
- Non lo sai?- chiese lei a voce bassa. – Non lo sai?- continuò poi urlando.
Lui scosse la testa.
- Perché, Jeremy?- la voce di Helen era decisamente calata di qualche tono. Adesso tentava di renderla pacata, anche se, la rabbia la faceva da padrona.
- Non lo so, Helen, credimi. Io … l’ho fatto e basta. Volevo vendicarmi… i-io volevo fare qualcosa … qualsiasi cosa.
- Qualsiasi cosa- gli fece eco l’anziana, orribilmente consapevole di quanto fosse grave il disturbo mentale che lo affliggeva. Era pazzo. Lei se la stava prendendo con un pazzo, una persona priva di ogni lucidità. Lei se la stava prendendo con Jeremy Bieber, l’uomo che aveva ammazzato a sangue freddo sua moglie e sua figlia, l’uomo che li aveva rapiti scatenando il terrore nell’isola, ma contemporaneamente lei se la stava prendendo con una persona così dannatamente debole. Debole in tutti i sensi, ma in particolare, debole per il fatto che il suo cervello aveva smesso di funzionare da un momento all’altro, e non per colpa sua. Una persona che non riusciva più a controllarsi.
L’autocontrollo.
Era la cosa più importante, pensò.
Le persone prive di autocontrollo non sono cattive, ma condannate.
- Tu… tu hai rapito me… noi, così? Perché ti andava di farlo, Jeremy? Perché è questo che mi stai dicendo- la voce quasi le tremò.
- E’ questo che ti sto dicendo- rispose lui. Helen si rese conto solo in quel momento, che il suo comportamento era mutato radicalmente da qualche ora prima. La risata malata era svanita, anche il sorrisetto stampato sul volto e gli occhi matti. Adesso il suo sguardo e la sua espressione erano come un libro aperto. Adesso nei suoi occhi vi era ira, bilanciata dalla rassegnazione; nel suo sguardo, invece, era dipinta la confusione, la dispersione, come dentro di un buco nero. – Mi dispiace tanto … lasciatemi andare, scapperò … per sempre. Non mi farò vivo mai più, mi rifugerò … dall’altra parte del mondo, da qualsiasi parte voi vorrete. Non portarmi alla polizia, Helen- i suoi occhi supplicavano perdono, ma la sua voce, Helen lo percepì, aveva una strana incrinazione. Stava mentendo.
- Ti lasceremo andare, Jeremy- disse lei mentendogli a sua volta.
- M-Ma… Helen!- esclamò il reverendo incredulo.
Lei lo schernì con un movimento secco del braccio. – Lasci parlare me, Harold- si schiarì la gola. – Ti lasceremo andare- si rivolse nuovamente a Jeremy. – A patto che tu mi dica il perché di tutto ciò, mi racconterai di ciò che è accaduto dieci anni fa, mi spiegherai come hai fatto a scappare, dove hai vissuto fino a questo momento, e poi… sarai libero.
- L-Libero? Mi lascerete?- domandò spaesato.
- Ti lasceremo.
Il reverendo tentò di replicare ancora, ma poi, si rese improvvisamente conto che Helen stava attuando un piano, così, la lasciò fare.



 




 
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SCUSATEMI.
Davvero, scusatemi per l'assenza.
Spero continuerete a leggere e recensire.
Vi amo sempre, lo sapete.


xx, your Alyssa.
   
 
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