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Autore: Ambros    07/01/2014    3 recensioni
Perché non sempre possiamo aspettare che ci salvino al momento giusto. A volte possiamo solo salvarci da soli.
-Kurt Hummel lo capisce a diciassette anni.
Che la vita non è questione di fortuna, non è questione di volontà, non è questione di forza.
È questione di smettila di aspettare. Vai e prenditelo.
[...]
Blaine Anderson ha diciassette anni, quando realizza che non c’è niente da aspettare.
Precisamente, lo realizza quando un calcio lo colpisce allo stomaco così violentemente che vorrebbe solo piegarsi su se stesso e scomparire.
Non c’è niente da aspettare, niente in cui sperare.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Just take it.


Siamo biologicamente programmati per aspettare.
Siamo stati creati appositamente per sperare in qualcosa dopo. Qualsiasi cosa.
Ti insegnano ad aspettare tutto.
L’autobus.
I diciotto anni, la patente, la maturità. L’Università.
La pubblicazione di un libro, l’uscita di un film, di un telefilm.
Un concerto, il tuo compleanno, Capodanno, Natale.
Le vacanze.
Una telefonata.
L’inverno, l’estate, il caldo, il freddo.
L’amore. Quella persona giusta, quella che poi ti salva da te stesso.
Siamo un intrico di aspettative in potenza. Passivi, aspettiamo che tutto arrivi e passi.
Perché sperare in qualcosa è di gran lunga più facile che muoversi, allungare una mano e afferrarlo.

E aspetti.

Finché, un giorno, non arrivi alla fermata dell’autobus. È al capolinea, ma affretti un po’ il passo, perché non si sa mai. Sei tu che aspetti l’autobus, mica il contrario.
E quando arrivi a due passi, che ormai stai per salire, quello parte. E tu rimani lì, con un sapore un po’ amaro sotto la lingua e una sensazione strana che ti punge gli occhi e forse ti fa venire un po’ voglia di ridere. Perché ti sei reso conto che, per tutta la tua vita, non hai fatto altro che mancare tutto di un soffio.
Perché siamo la società che aspetta.
La società che poi va meglio. Ora è così, ma vedrai che poi va tutto meglio.

Ma come fai a spiegarlo alla tua schiena piena di lividi per tutte le spinte, per ogni singola volta che le feritoie dell’armadietto di metallo – che ormai ha
preso la forma delle tue spalle, per tutte le volte che ci hai sbattuto contro – ti graffiano la pelle troppo delicata, troppo pallida? Come fai a spiegarlo alle tue ginocchia, che cominciano a tremare tutte le volte che ti avvicini alla fila ordinata di macchine di quel parcheggio? Come fai a spiegarlo ai tuoi occhi, che maledici ogni volta perché si riempiono di lacrime così facilmente, e diventano così lucidi e rossi che si capisce subito quando piangi?
Come fai a spiegare al tuo corpo che cade a pezzi, che poi va tutto meglio?

Come fai a spiegarlo al tuo stomaco che si riempie di bile, alla lingua che si secca?
                 
                                                                                                  ---
La risposta è una sola, ed è anche molto semplice.
Non puoi.
Kurt Hummel lo capisce a diciassette anni.
Che non puoi aspettare per sempre che le cose migliorino, che arrivi qualcuno a salvarti.
Che devi stringere i denti, chiudere gli occhi e salvarti da solo.
Che quando nelle orecchie ti rimbombano quelle parole, “frocio”, “finocchio”, devi sollevare il mento, guardare in alto, magari ingoiare quelle due lacrime che ti premono agli angoli degli occhi, e continuare a camminare dritto.
Che quando l’armadietto produce quel rumore stridulo e insopportabile perché ci sei finito di nuovo contro, ti devi rialzare con tutta la dignità che hai e far finta di niente.
Che quando ti guardano, desolati, e anche se non le puoi sentire sai perfettamente quali parole stanno trattenendo, “Si vede a chilometri di distanza che sei gay, cosa ti aspetti dalla vita?”, devi rispondere “Qualcosa di meglio, perché io sono meglio di così.

Kurt Hummel lo capisce a diciassette anni.
Che la vita non è questione di fortuna, non è questione di volontà, non è questione di forza.
È questione di smettila di aspettare. Vai e prenditelo.

Ed è proprio quello che comincia a fare.

Smette di aspettare la propria salvezza.
Comincia ad essere la propria salvezza.

Ogni tanto la vita lo prende a calci.
Quando è costretto a studiare a casa perché il bullismo raggiunge livelli insopportabili. Ma poi finisce anche il liceo, ed è fuori.
Quando fa il provino alla NYADA, ma non lo prendono. Ma ci riprova, e la seconda volta è dentro. Perché è questione di vai e prenditelo.
Quando le lezioni si fanno dure e gli fanno male tutti i muscoli e ha i piedi distrutti ed è sicuro che non sarà mai più in grado di camminare. Ma va bene, perché lui è meglio di così.
Quando deve andare a lavorare subito dopo le lezioni, anche se fa fatica a muoversi. Ma l’affitto non si paga da solo.
Quando fa il provino per un musical, e non lo prendono. Nemmeno la seconda volta, e nemmeno la terza. Ma la quarta va meglio. E anche la quinta, e la sesta.
Ogni tanto la vita lo prende a calci. Ma lui si rialza sempre.
Perché ha smesso di aspettare quando ha capito che è ognuno per sé. Sarebbe Dio per tutti, se ci credesse.

E ad un certo punto, la vita smette anche di prenderlo a calci.
O forse, più probabilmente, è lui che non ci fa più caso.
Forse qualcuno ancora lo guarda storto, quando cammina coi pantaloni stretti che gli piacciono tanto, gli stivali alti e la sciarpa drappeggiata elegantemente attorno al collo.
Forse qualcuno ancora ridacchia, quando lo sente cantare con la voce così alta, e chiara, e cristallina. Ma la verità è che la maggior parte del pubblico lo sta guardando a bocca aperta.
Forse qualcuno ancora lo chiama “frocio”, convinto di non essere sentito. Ma lui vorrebbe solo girarsi con un sorriso beffardo e dire orgogliosamente “Sì, sono io.
Ha solo smesso di aspettare. È stato semplice.

Adesso, tutte le volte che vede un autobus fermo al capolinea, corre a prenderlo.
E non manca più niente di un soffio.

E quando alla fine incrocia due occhi dorati in un bar che attirano immediatamente la sua attenzione, va e prende. Ci prova, perché alla fine non hai niente da perdere.
Ha solo qualche cicatrice sulle spalle, un po’ di parole non dette sulla lingua e un paio di lacrime che non ha mai versato.
E forse lo racconterà, un giorno, a quel ragazzo pieni di ricci con un sorriso enorme, perché magari anche lui è stato preso un po’ a calci dalla vita.
Magari anche lui, ad un certo punto, ha smesso di aspettare.
Ma non stasera.
Stasera può sorridere, senza nuvole nello sguardo.
Perché ha smesso di aspettare la propria salvezza.
Ha cominciato ad essere la propria salvezza.
Smetti di aspettare.
 
                                                                              ---
 
Blaine Anderson ha diciassette anni, quando realizza che non c’è niente da aspettare.
Precisamente, lo realizza quando un calcio lo colpisce allo stomaco così violentemente che vorrebbe solo piegarsi su se stesso e scomparire.
Non c’è niente da aspettare, niente in cui sperare.
Ci sono solo un paio di parole e qualche faccia, ogni tanto.
Se ti va male, quelle due parole sono insulti, quelle facce ti guardano con disgusto.
Forse a lui è andata abbastanza male.  
Perché ha capito che non c’è niente da aspettare.

Non c’è da aspettare che le cose vadano meglio, che la smettano di pestarti solo perché preferisci tenere per mano un ragazzo invece di una ragazza.
C’è da cambiare scuola, perché non vuoi che i tuoi genitori abbiano sempre quello sguardo angosciato.
C’è da sentire una sensazione fastidiosa in fono allo stomaco, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato, qualcosa di cui dovresti vergognarti.
Forse c’è da piangere, qualche volta, se ti capita di ripensarci.
Ma non c’è da aspettare.

C’è da lottare un po’, da stringere i denti.
Quando senti di non appartenere a quel posto, che la divisa ti stringe troppo le spalle e ti fa sentire ingessato, c’è da sentirsi un po’ un codardo, forse.
C’è da farsi valere.

Da prendere a calci la vita.
Da prendere tutti i “no” nei denti.
Da avere paura quando ti ritrovi di nuovo nel mondo, quando New York sembra volerti mangiare vivo.
Da farsi bruciare la gola fino a che non avrai paura di non poter più cantare.
Perché non c’è niente da aspettare, e c’è tutto da prendere.

Poi la schiena si fa più robusta.
Non fa più male quando un altro rifiuto gli finisce sulle spalle. È un’altra lezione, va bene così.
Perché alla fine arriva anche quel “sì”.
E può salire sul palco e far vedere a tutti che lui si è salvato da solo. Con la sua musica.
Può far vedere a tutti che non gliel’ha tolto nessuno, il sorriso, che gli è rimasto quel modo particolare di socchiudere gli occhi quando gli zigomi si sollevano assieme alle labbra.
Che i riccioli li porta scompigliati perché è così che piacciono a lui, non perché il gel è da finocchi.
Che gli piacciono ancora le camicie a quadri di qualche colore improponibile.
Che i suoi occhi brillano ancora, e sono splendenti.

Che lui ha capito.
Che non c’è niente da aspettare, e tutto da prendere.

Forse un giorno lo racconterà, a quel ragazzo bello con gli occhi azzurri pieni di cose vissute.
Gli racconterà di quella volta che si è svegliato in un letto di ospedale con le lacrime di sua madre sul viso perché lo avevano pestato al ballo della scuola.
Gli racconterà di tutte quelle volte in cui si è sentito fuori posto, come se tutti potessero metterlo a nudo, scoprire le sue cicatrici, convincerlo di essere sbagliato.
Gli racconterà del tempo che ha passato a sperare che qualcuno potesse salvarlo.
Gli chiederà se anche lui ha capito che non c’è niente da aspettare.

Ma non stasera.
Stasera può sorridere, senza nuvole nello sguardo.
Perché non ha aspettato niente, ed è riuscito a prendere tutto.
O quasi.


Note:
Lo so, avevo promesso che non avrei più pubblicato OS Klaine (o quasi) senza senso dopo le vacanze.
Ma è stato più forte di me.
Questa OS è ... Non lo so, strana. 
E' un argomento che avevo in testa da un po', ma non so se sono riuscita a renderlo come avrei voluto.
Quindi vi sarei davvero eternamente grata se mi faceste sapere cosa ne pensate.
Un bacione :)

 

  
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