Un bimbo sperduto.
Lo chiamavano il piccolo guardiano del faro. Questo perché, da quando aveva dieci
anni, trascorreva le notti ad osservare affascinato il rincorrersi delle onde
dalla torre che troneggiava sul mare. Killian adorava lasciarsi avvolgere dalla
solitudine del suo faro. Tutto gli sembrava più vivido, da lassù. I ricordi
delle giornate trascorse sul peschereccio di suo padre, prima che il mare
scegliesse di portarselo via con sé. Il sorriso di sua madre, quando ancora poteva
sorprenderla a ballare sulla spiaggia, scossa da un improvviso momento di
euforia. Le favole e le leggende che tanto amava e che suo nonno gli raccontava
ogni sera, mentre attendevano assieme l’alba dalla torre. Un tempo era stato
lui il guardiano del faro, ma la vecchiaia si era fatta sentire presto per Jeremiah Harbor e così, da qualche anno,
Killian aveva dovuto imparare a fare a meno delle sue storie. Le ricordava
ancora tutte, però. Ogni tanto se le sentiva ronzare in testa, raccontate nel
tono di voce profondo del nonno, mentre i suoi occhi chiari si sgranavano in
direzione del mare. Killian aveva visto uomini svanire all’orizzonte a bordo
delle loro navi, un po’ come aveva fatto Sinbad il marinaio. E aveva visto donne
accarezzate dalla spuma del mare come Ariel, la sirenetta. Non gli era mai
capitato, tuttavia, di riconoscere negli sguardi della sua gente qualcosa che gli ricordasse l’eroe della sua
favola preferita. Questo fino a quando non incontrò per la prima volta il mentore più
giovane del Distretto 4, il suo mentore.
Quando Finnick Odair gli si
era presentato qualche giorno prima, improvvisandosi giocoliere con tre
zollette di zucchero, la bocca di Killian si era spalancata per lo stupore.
“Killian, mi stai ascoltando?”
Il ragazzino sbatté le palpebre un
paio di volte, distogliendo lo sguardo dall’abito scintillante della ragazza
del Distretto 1. Annuì frettolosamente al suo interlocutore, tormentandosi con
il piede scalzo la sua cavigliera di nodi. Si rimproverò in silenzio per
essersi lasciato nuovamente distrarre da qualcosa di luminoso. Tutto ciò che
era luce gli ricordava il faro. E tutto ciò che era acqua gli ricordava il
mare.
Finnick
gli rivolse un’occhiata confusa, prima di abbozzare un mezzo sorriso divertito.
Aveva appena due anni in più di Killian, ma sembrava decisamente più grande,
dato il fisico muscoloso e i lineamenti marcati. Eppure l’aria spigliata e
accattivante del mentore faceva a pugni con i suoi occhi verdi, velati da una
limpidezza che ricordava più quella di un fanciullo, che non quella di un
ragazzo che per vivere era stato costretto uccidere. Ma dopotutto, pensò Killian, anche
Peter Pan aveva ucciso diversi pirati, no?
“Hai capito come dovrai comportarti
con i Favoriti durante l’addestramento?”
Killian fece per rispondergli, ma
la sua attenzione venne distratta ancora una volta da un movimento alla sua
destra. Guardò fuori dall’edificio per cercare di intuire cosa fosse. L’assenza
del mare e della spiaggia lo riempirono di malinconia, mentre si trovò ad
analizzare con sguardo incuriosito le abitazioni bizzarre in cui vivevano i capitolini.
E se non fosse più tornato a casa?
Per un attimo il suo cuore sembrò accelerare i propri battiti, e Killian
incominciò a respirare in maniera più irregolare.
“Killian?”
Il
richiamo gentile, e l'espressione confusa di Finnick
lo riportarono alla realtà. In quel frangente a Killian sembrò insolitamente
giovane o, quantomeno, non più grande di lui.
Ti sto ascoltando, avrebbe voluto dirgli, sorridendo un po’
imbarazzato.
“Assomigli a Peter Pan” si lasciò
sfuggire invece, passandosi la mano fra i capelli di un biondo chiarissimo. Finnick gli rivolse un’occhiata spaesata.
“Chi è Peter Pan?”
Incominciava ad apparire
preoccupato, ma Killian nemmeno se ne accorse. Fece spallucce e tornò a
giocherellare con i nodi della sua cavigliera.
“Ventiquattro ragazzini lasciati
soli in un’arena” mormorò fra sé, ripensando a una delle prime favole che Jeremiah gli aveva raccontato, quando era molto piccolo. “Saremo
un po’ come i bimbi sperduti, no?” chiese poi ad alta voce, e quasi gli sembrò
di sentire la voce profonda del nonno che raccontava per lui, mentre la sua
mano ruvida gli accarezzava un po’ goffamente i capelli.
“Sai,
Light, anche se Peter Pan non era un ragazzino come gli altri, anche lui quando
fu sul punto di morire ebbe paura.”
“Peter Pan aveva paura, nonno?”
“All’inizio tremò appena, un po’ come trema il mare quando il vento è molto
forte. Un momento dopo, però, era già in piedi sullo scoglio, tutto fiero e
sorridente. Il cuore gli batteva forte
nel petto, ma lui urlò comunque:
«Morire
sarà una grande, meravigliosa avventura! »”*
“Quando morirò,
se proprio devo morire, vorrei non avere troppa paura” ammise infine, chinando
il capo. I suoi occhi pungevano di lacrime. “Spero che ci sarà un po’ di luce, così
riuscirei a pensare al faro. Peccato solo che non potrò sentire le onde, quando
sarò nell’arena.”
Per un attimo Finnick non disse nulla. Si limitò a stringergli forte una
spalla, lo sguardo velato di una tristezza che a Killian provocò un nodo allo
stomaco.
“Non permetterò
che tu muoia, Killian” concluse infine il mentore, tornando ad apparire
determinato. “Dovremo lavorare sodo entrambi, ma possiamo farcela a tenerti in
vita: nessuno dovrebbe mai sottovalutare i ragazzini, no?” aggiunse, dandogli
di gomito e rivolgendogli un sorrisetto sghembo. Killian sorrise, ricambiando l’occhiata
d’intesa del suo mentore. Non glielo disse, ma era proprio il genere di cosa
che avrebbe detto qualcuno come Peter Pan.
***
Era calata la notte ormai da un
paio d’ore, quando un urlo agghiacciante macchiò il silenzio dell’arena. Killian
aveva fatto appena in tempo a scorgere la lama di una spada e un volto poco più
maturo del suo, conteso fra il sollievo e l’orrore, prima di accasciarsi a
terra, con una mano premuta contro il petto. Il sangue scivolava copioso dalla sua
ferita a inzuppargli gli abiti e i suoi occhi sembravano aver smesso di
funzionare a dovere. Cercò di muoversi, di alzarsi a sedere, di reagire in
qualche modo, ma tutto ciò che riuscì a fare fu stringere la mano libera a
pugno nella sabbia, sconfitto dal dolore e dalla paura. Killian tossì,
avvertendo con sgomento il sapore del sangue in bocca e per un attimo fu convinto
che sarebbe morto soffocato, senza riuscire a far nulla per impedirlo. Sentì le
lacrime rigargli le guance e il freddo penetrargli le ossa, mentre in silenzio
si incitava a restare lucido, almeno qualche minuto ancora, giusto il tempo di
riuscire ad aggrapparsi ad un ricordo, a qualche frase di una favola, al
pensiero di qualcosa che l’avrebbe aiutato a sentirsi meno spaventato e
infreddolito. In quel momento l’unica cosa a cui riuscì a pensare fu che non
avrebbe mai più rivisto sua madre. La donna dallo sguardo malinconico che
sedeva sulla spiaggia ogni mattina, attendendo il ritorno di un marito che si
era perso in mare e che non sarebbe tornato mai più. Avrebbe atteso anche Killian dall’indomani? Pensò anche che non
avrebbe più rivisto Adrian, e il modo in cui faceva
oscillare le gambette giù dagli scogli, le volte che lo portava con sé per
pescare. Né Coral, la sua migliore amica, che l’aveva
salutato con un bacio sulla guancia e il cordino di nodi che Killian avvertiva
ancora, legato alla caviglia. Non avrebbe rivisto nulla, in realtà, perché era
circondato dal buio e non aveva modo di distinguere i contorni di ciò che lo circondava.
Il ragazzino ebbe un tremito, avvertendo con angoscia tutto quel nero che gli
gravava sulle palpebre. Non avrebbero più potuto chiamarlo il piccolo guardiano del faro. La luce intermittente
della torre era rinchiusa in un angolo della sua testa, ma era troppo fiacca perché
riuscisse ad aggrapparvisi per farsi coraggio. Non avrebbe più
raccontato nessuna delle leggende che aveva appreso da suo nonno, né le favole
che tanto affascinavano suo fratello Adrian, così
come avevano incantato lui quando era piccolo.
In quel momento avvertì un fruscio
e qualcosa di morbido sfiorargli la mano. Una luce fievole, intermittente,
illuminò la porzione di sabbia che circondava le dita di Killian. Il ragazzino
riuscì a voltare appena il capo, confuso da quel brillio: era una fata? Stava
incominciando ad avere delle allucinazioni? Attirò a sé l’oggetto con l’indice
e il medio e un lieve sorriso gli arricciò a fatica le labbra: era un
paracadute argentato. Al suo interno vi trovò solo una conchiglia grande almeno
quanto il suo orecchio. Non trovò unguenti, garze o qualsiasi cosa che avrebbe
potuto aiutarlo a sistemare la sua ferita. Killian non impiegò molto a
comprenderne il motivo: stava per morire
e Finnick non poteva salvarlo. Sospirò, interrompendo
il respiro a metà per tossire, sputando poi a terra. Il contatto con la
superficie increspata della conchiglia rassicurò leggermente il ragazzino. Stava per morire, ma non era solo. La luce intermittente del paracadute gli donò un po’ di conforto e il ricordo del
faro brillò in maniera più intensa, fino ad assottigliare il buio della realtà.
Killian sbatté le palpebre, ricordando la voce profonda ed espressiva di suo
nonno. Non aveva forza a sufficienza per avvicinarsi la conchiglia all’orecchio,
ma ricordò ugualmente il sorriso del vecchio Harbor indirizzato al mare agitato
e le onde increspate, accarezzate dalla luce del faro. “Ricordo un Peter Pan che si diceva vivesse
con le fate” gli
aveva detto un giorno il vecchio Jeremiah, mentre
fuori infuriava una tempesta. “Si raccontavano strane storie sul suo
conto, ad esempio che quando un bambino moriva, Peter lo accompagnava per un
tratto di strada perché non avesse paura.”**
Killian si perse
in quel ricordo, rievocando il rumore del vento e delle onde, la voce del nonno
e la mano ruvida del vecchio che gli accarezzava i capelli. E per un attimo,
solo per un attimo, riuscì a vedere tutto. Era una notte come tante e lui la stava trascorrendo al faro, assieme a Jeremiah. Il cielo era limpido e se si fosse sporto per
guardare in alto avrebbe sicuramente scorto le stelle. Killian strinse forte la conchiglia, cercando
di mettere a fuoco con la mente gli occhi verdi di Finnick
Odair.
"Grazie, Peter" mormorò in un
soffio, o forse lo pensò soltanto. Con il sorriso sulle labbra e la luce del
suo faro negli occhi, il piccolo guardiano del faro si addormentò.
A
centinaia di chilometri di distanza, Finnick Odair scosse il capo, distogliendo lo sguardo dal
televisore.
Cercò
la mano di Annie, qualcosa a cui aggrapparsi, ma trovò solo il bracciolo freddo
della poltrona su cui era seduto e silenzio, silenzio ovunque.
Un
colpo di cannone spezzò la quiete dell’arena, chiudendo gli occhi del piccolo
Killian per sempre.
Anche
Finnick chiuse i suoi, ignorando le lacrime sfuggite ad
inumidirgli le guance.
Scusami mormorò
mentalmente, prendendosi la testa fra le mani.
La
voce esile di Killian gli echeggiò nella mente, disturbata dal rombo di un
hovercraft, che lo raggiunse dal televisore.
“Ventiquattro ragazzini lasciati soli in un’arena. Saremo un po’ come i
bimbi sperduti, no?”
Addio,
bimbo sperduto.
Nota dell’autrice.
*La
citazione è tratta da “Le Avventure di Peter Pan” di James Matthew Barrie.
** Anche questa citazione è
tratta da “Le Avventure di Peter Pan” di James Matthew Barrie.
E
niente, sono un po’ masochista evidentemente, perché mi è appena morto un
tributo e io mi metto a scrivere la morte anche dell’altro, ma sorvoliamo.
Prima
di sproloquiare come sempre, devo inserire due credits
fondamentali: Killian è un mio OC che ho creato assieme a giraffetta
e che partecipa all’interattiva di Canto_Del_Lupo. Per esigenze di trama in questa one-shot ho dovuto inserire Killian nella 66esima edizione
degli Hunger Games, per attribuirgli
un Finnick molto giovane come mentore.
Passo
alla storia. Questa è una cosa che mi venne in mente un mesetto fa, ma non mi
convinceva, così da quell’idea ne tirai fuori un’altra, che utilizzai per
scrivere “Io non ho paura”. Ecco perché, anche in questa one-shot,
ci sono così tanti accenni alla paura. So bene che è piuttosto difficile che i
bambini di Panem conoscano le nostre favole, ma
Killian è un divoratore nato di fiabe e leggende e quindi ho pensato che nonno Jeremiah avrebbe potuto raccontargliene qualcuna. Finnick, ovviamente, non ha idea di chi sia Peter Pan. In
quanto a Peter… diciamo che è un po’ una tradizione
mia quella di infilare Peter Pan in tutti i fandom da
cui passo. Quando ho riletto il passaggio di Peter Pan che accompagna i bambini
morti perché non abbiano paura non sono riuscita a non pensare ai tributi molto
piccoli che sono stati uccisi nelle varie edizioni degli Hunger
Games. Il paragone con Finnick
è decisamente azzardato, ma a me lui ha sempre ricordato un po’ Peter. In parte
perché Peter ha dei modi di fare spavaldi
e accattivanti in apparenza, ma c’è tanta tristezza nella sua storia,
proprio come in quella di Finnick. Finnick, poi, ha vinto i giochi a 14 anni e il Peter Pan di
Barrie ha esattamente quest’età, dunque ho provato a
fare questa associazione, pensando ai bimbi sperduti che uccidono pirati e i
ragazzini nell’arena che si uccidono a vicenda. Tra l’altro anche fisicamente
Peter Pan l’ho sempre immaginato come Finnick *butta via dalla testolina l’immagine del Peter della
Disney e pensa al ragazzino del film nel 2003*.
Parlando con una persona, tra l’altro, ieri ho definito Finnick “cosino adorabile” e effettivamente nel Canto della
Rivolta a me ha dato proprio quella impressione. Era fragile e alle volte aveva
proprio i modi di fare di un ragazzino. Tornando a Killian, spero che si siano
potuti comprendere i vari accenni alla sua vita passata e alla sua storia. Il
nonno chiama il nipotino “Light”, per via dei suoi capelli biondissimi, quasi
bianchi e per via del loro attaccamento verso il faro.
Grazie a
chiunque sia passato a leggere questa storia e spero con tutto il cuore di non
aver reso Finnick OOC.
Un abbraccio!
Laura