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Autore: Irina_89    29/05/2008    0 recensioni
Quando sarebbe arrivata la fine? Quando sarebbe finita quella sua sofferenza?
Rise malinconica nel vuoto della stanza.
Lei non poteva soffrire.
Poteva fare tutto, fuorché soffrire.
Genere: Romantico, Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Feelings Unfelt

Feelings Unfelt

***

Are you there to catch me? ‘Cause I don’t see you…

 

 

Aprì gli occhi. Non c’era niente di rassicurante intorno a lei. Quel luogo era nudo, sterile, bianco. Tutto era come ogni maledettissimo giorno.

Quando sarebbe arrivata la fine? Quando sarebbe finita quella sua sofferenza?

Rise malinconica nel vuoto della stanza.

Lei non poteva soffrire.

Poteva fare tutto, fuorché soffrire.

Era stato il destino a volerla così. E così l’avrebbe anche portata via da questo mondo.

Da quanto era in quella clinica? Mesi? No. Anni? Forse. Aveva perso il conto.

E per tutto questo tempo, era stata da sola. Nessuno con cui parlare, se non i medici che le chiedevano sempre la solita dannatissima e schifosissima cosa.

‘Come stai oggi?’

E lei cosa avrebbe dovuto rispondere?

Certe volte le veniva voglia di elencare tutta una serie di sintomi come un dolore lancinante alla gamba destra, una fitta al petto e tutta un’altra serie di cose che erano in perfetto contrasto con la sua orribile situazione.

Sì, perché lei aveva la CIPA.

Le ci erano voluti dei mesi per capire cosa fosse, ma alla fine era arrivata a comprenderne il significato quando un medico ne aveva parlato a sua madre.

CIPA.

Congenital Insensivity to Pain with Anhidrosis.

E solo qualche giorno dopo il significato di quelle parole le risuonò più comprensibile.

Insensibilità congenita al dolore con anidrosi.

Ma non le servivano tutti quei paroloni per capire ciò che stava provando. O meglio, ciò che non stava provando.

Lei non poteva sentire il dolore. Le avrebbero potuto fracassare il cranio ed asportarle il cervello senza anestesia… lei non avrebbe sentito niente, sempre che rimanesse in vita dopo un’operazione del genere.

Per anni aveva dovuto vivere in quelle condizioni.

Ogni mattina doveva appurare di non essersi graffiata qualcosa durante il sonno. Non poteva correre, non poteva ballare, non poteva giocare a calcio… poteva rompersi qualcosa. Non poteva nemmeno essere abbracciata a lungo, poteva surriscaldarsi. Doveva sempre indossare un orologio che suonava ogni ora per ricordarle di andare in bagno.

Per ogni cosa che faceva doveva controllare bocca, lingua, gengive, contare i denti. Doveva misurarsi la temperatura, contare i tagli che aveva sul corpo…

Era straziante… ed umiliante.

Si sentiva un peso per tutte le persone che aveva intorno e che le stavano vicine.

Nessuno poteva capire cosa potesse provare.

Non era libera di fare alcun movimento senza che qualcuno le prestasse le dovute attenzioni.

Odiava quella sua vita. E odiava soprattutto l’ambiente in cui doveva vivere.

Per una madre non era possibile continuare a vivere normalmente in quelle condizioni, soprattutto quando quel vigliacco del marito l’aveva lasciata da sola perché non si sentiva all’altezza di tali responsabilità.

Per questo lavorava sempre, giorno e notte. Non aveva più un attimo né per se stessa, né per la figlia, che doveva costantemente stare in presenza di un qualche supervisore.

Ma, ovviamente, anche queste persone a cui la madre l’aveva affidata, non si sentivano in grado di stare con lei. Avevano sempre paura che lei potesse farsi male in qualunque momento.

Tutti si erano dimostrati codardi con lei.

Tutti, però, tranne uno.

C’era un ragazzo che aveva conosciuto poco più di tre anni fa a scuola. Era l’unico che stava con lei. L’unico che malgrado le responsabilità, restava al suo fianco.

L’aiutava negli spostamenti portandole la borsa, l’accompagnava ovunque lei avesse bisogno. Le faceva compagnia.

Non la faceva sentire sola.

Ma sarebbe stato molto meglio se lui non l’avesse mai incontrata, perché ora che nemmeno lui c’era più, lei non poteva sopportare di ricordare quei momenti dove si sentiva veramente felice.

Era assurdo. Lei non poteva soffrire, eppure le sembrava tanto di sentire una forte fitta al petto – sul serio questa volta. E la cosa ancora più strana era che non ne era davvero sicura. Lei non aveva mai provato il dolore, non sapeva esattamente cosa potesse essere quello strano fastidio che sentiva.

Non era un dolore fisico. Era come se lei si immaginasse quel fastidio. Nessun medico, infatti, aveva mai trovato qualcosa di anormale nel suo corpo, a parte questa sua disfunzione del sistema nervoso.

Ma nonostante tutto, lei continuava ad avvertire questa sensazione nella parte sinistra del petto. E questa sensazione andava avanti da un tempo indeterminato, ogni volta che lei pensava a quel ragazzo.

Da quando lei era stata trasferita in quella clinica dannatamente bianca, nessuno era più andato a trovarla. Lui compreso, rompendo così la loro promessa.

Lei non aveva nemmeno il permesso di uscire per poter andare da lui, era costretta a stare in quel dannato letto ogni dannato giorno, ogni dannato mese, per tutto quel dannato anno.

Era un anno che le uniche visite che riceveva erano quelle dei medici per i dovuti controlli e solo una volta al mese, la madre dava segni di vita, passando una giornata in sua compagnia.

Ma solo per una giornata ogni mese.

Le sembrava quasi di essere un animale in gabbia.

Non riusciva più ad andare avanti così.

Tanto, a questo punto, cosa sarebbe cambiato se lei fosse morta o meno?

Niente.

Nessuno avrebbe sofferto per la sua assenza e anche le poche persone che ancora, forse, tenevano a lei, avrebbero superato tutto con il tempo. E di certo si sarebbero rifatte una vita. Quella vita che loro avevano dovuto sacrificare per stare con lei.

Il suo gesto, dopotutto, sarebbe potuto anche essere un regalo per quelle persone.

Chiuse gli occhi e respirò profondamente.

Ormai aveva deciso. Anche se era una scelta estrema, non poteva e non voleva fare altrimenti. Non voleva più star rinchiusa in quella camera. Voleva sentirsi libera.

Riaprì gli occhi e si guardò le mani che teneva ai lati del suo corpo, come prive di forza.

Un altro respiro e iniziò a staccarsi tutti i fili che la univano alle macchine, uniche sue compagne perenni.

Si alzò dal letto e raggiunse la finestra, girò la maniglia indubbiamente bianca e un colpo di vento ne spalancò le ante, facendo entrare dei raggi di sole che la illuminarono.

Le sarebbe piaciuto sentire il caldo ed il freddo addosso a lei, ma conosceva quelle parole come semplice insieme di lettere, prive di un significato comprensibile.

Era come se un cieco volesse sapere cosa fossero i colori.

Era straziante.

Si appoggiò totalmente al bordo della finestra e si affacciò il più possibile, osservando il verde giardino che circondava la clinica.

Chiuse gli occhi ancora una volta e respirò quell’aria che, vista la primavera che sbocciava in quel prato, doveva essere fresca.

E alla fine di quel respiro, si spinse oltre.

Oltre il bordo della finestra.

Oltre le mura della clinica.

Oltre la vita.

Volò.

Ora era libera.

 

***

 

“Edoardo…”

Il ragazzo aprì gli occhi.

“Edoardo…”

La voce che sentiva era triste, piena di dolore.

Si sistemò meglio su quella sedia bianca del corridoio della clinica e alzò il suo sguardo sulla donna che l’aveva chiamato.

“Signora Ferraro, cosa è successo?” sbadigliò. Si era addormentato laggiù un’altra volta.

“Si tratta di Elisa…” mormorò con tono strozzato.

“Elisa? Che le è successo?” chiese subito preoccupato, alzandosi di scatto dalla sedia.

“Lei… lei è…” e le lacrime iniziarono a rigarle quel viso spossato.

“Elisa è cosa?” insistette intimorito.

“Lei… non c’è più…” e i singhiozzi iniziarono a farla tremare.

Elisa non c’è più?

Edoardo ripeté più volte quelle parole nella sua mente, ma ogni volta gli sembrava sempre più assurdo ciò che aveva sentito.

“Si è buttata…” spiegò con voce flebile. “… dalla finestra…”

“Perché?” sussurrò senza forze, lasciandosi cadere sulla sedia.

“Non si sa…” rispose lei tra le lacrime. “I medici non ne capiscono il motivo… e nemmeno io…”

Una terribile sensazione di rabbia, paura e dolore iniziarono a nascere dentro il ragazzo.

Perché? Perché si era buttata? Lui era sempre stato lì, era sempre stato in quel dannato corridoio di quella dannata clinica, separato da lei solo da una parete.

Non aveva mai potuto entrare nella sua stanza per un insensato divieto di uno dei medici che avevano in cura Elisa. Quell’uomo, infatti, pensava che se la ragazza l’avesse visto, non sarebbe più stata in grado di resistere là dentro, se un giorno lui non ci fosse più stato. Ma malgrado l’insistenza di Edoardo, il dottore non voleva capire che lui ci sarebbe stato ogni volta che lei ne avrebbe avuto bisogno. Ci sarebbe stato sempre.

Per questo, anche se non poteva stare con lei, lui la aspettava seduto su quella solita sedia bianca, sperando che un giorno uscisse dalla camera in cui era rinchiusa. Lui le stava accanto, anche se non era possibile stringerla tra le braccia, anche se non poteva parlarle.

Lui era rimasto. Perché, allora, lei se ne era andata?

“Quando è successo?” domandò con un filo di voce Edoardo.

La madre di Elisa si soffiò il naso e si asciugò le infinite lacrime che le scendevano lungo il viso vissuto.

“Questa mattina… hanno trovato il suo corpo nel giardino, sotto la sua finestra…” e solo quel ricordo, la fece tornare a urlare per il dolore della perdita.

Il ragazzo non riusciva a crederci.

Che Elisa si fosse dimenticata della promessa che si erano fatti il giorno che lei fu portata in quella clinica? La promessa per la quale Edoardo aveva deciso di starle sempre accanto, qualunque cosa fosse successa. La promessa per cui lei non avrebbe mai rinunciato ad andare avanti, qualunque cosa fosse successa. La promessa sancita dal loro bacio.

Con un impeto di rabbia si alzò di nuovo dalla sedia e sorpassò la signora Ferraro, le cui lacrime non accennavano a diminuire, e corse fuori dall’edificio. Salì in macchina e mise in moto, dirigendosi verso casa sua.

Per tutto il tragitto non faceva altro che pensare a come la vita era stata ingiusta con entrambi. La vita li aveva ingannati.

Lasciò la macchina sul vialetto di casa ed entrò.

La sua testa era come vuota.

Salì le scale ed entrò in camera sua.

Lasciando che finalmente le forze lo abbandonassero, cadde sul letto.

Chiuse gli occhi e si addormentò, lasciandosi trasportare dal sonno più profondo e malinconico.

Un sonno che avrebbe voluto durasse per sempre.

 

The End

  
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