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Autore: Maiwe    10/01/2014    3 recensioni
La storia di Thranduil e Legolas, dalla loro fuga dal Doriath alla IV Era.
Una mia visione delle loro vite ispirata ai vari Racconti tolkeniani, cercando di rispondere alle tante domande che avvolgono le loro figure, così importanti eppure così schive e poco inclini a farsi raccontare.
Genere: Angst, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Legolas, Nuovo personaggio, Thranduil, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ciao! 


Eccomi finalmente qua con un nuovo capitolo. Come sempre, spero vi piaccia. Devo dire che mi è risultato un po' ostico stenderlo, avevo continuamente paura di star andando OOC, soprattutto nel caso di Thranduil, che tutti vedono come una sorta di iceberg insensibile, freddo e calcolatore. Può darsi che sì, io stia davvero andando un po' OOC, ma spero si legga la differenza tra ciò che questo personaggio sta facendo trasparire, ossia un'immagine rigida e chiusa, quasi oscura, e ciò che invece ha dentro e non esterna, perché né il suo ruolo né tantomeno il suo carattere glielo consentono. 

Spero davvero, comunque, non vi faccia venir voglia di spararvi un colpo, ma anzi, vi faccia amare questo personaggio quanto lo amo io.

Vi abbraccio tutti forte, e vi ringrazio per l'affetto che mi dimostrate sempre!

Maiwe





______________________________









Legolas entrò nella stanza e mi trovò di spalle.

“Ti devo parlare.”

Non sussultai, non reagii troppo vistosamente, in fondo lo sapevo. L'avevo intuito.

“Ti ascolto.”
Mi voltai. Feci un passo avanti, e mi sedetti al grande tavolo delle conferenze, una sala così grande che improvvisamente mi parve stringermisi intorno.

Calò il silenzio, e nessuno dei due parlò per qualche minuto.

“Stai bene?” Mi chiese improvvisamente, un filo di voce, preoccupato.

“Sì, certamente. Ma allontanati dalla finestra.” Non sapevo come chiedergli di spostarsi un po' più sulla destra, di modo che potessi vederlo meglio.

Lui parve non voler far caso alla mia richiesta – la eseguì, ma non certo con lo spirito di un tempo. Il passo che mosse in avanti fu lento e sicuro, calibrato. Un passo silenzioso, importante. Un passo maturo.

“Ho deciso di partire.”
“Per quale motivo?”... Eppure, riuscì a prendermi alla sprovvista. Sapevo che me lo avrebbe chiesto. Ma, per certi versi, reagii come se non fossi stato pronto.

“Non c'è un perché.”
“Un perché c'è sempre”, risposi con voce grave.

Mi guardò dritto negli occhi, e fu una pugnalata.

Prese qualche istante, poi parlò con voce ferma e pacata.

“Voglio andarmene.”

“Se è ciò che desideri...”

“Lo è.”

“E dove pensi di andare?”

“Vorrei poter visitare quegli angoli di mondo che ancora mi mancano da vedere. Li visiterò con Gimli, figlio di Glòin, mio fedele amico. Dopo l'incoronazione di Aragorn, abbiamo concordato che gireremo insieme, a lungo. Voglio vedere il mare, padre. Non l'ho mai visto.”

Mi alzai e mi diressi verso la brocca d'acqua appoggiata su un mobile alle mie spalle, con passo lento, e per poco non infilai un piede in una sedia del grande tavolo, spiccando un piccolo balzo, incerto. Mi ricomposi, e proseguii.



Mi sentivo un verme a chiedere a mio padre di andarmene. Proprio adesso che ero appena tornato, e lo avevo trovato in quello stato.

Era inutile che facesse finta di niente, come suo solito, lo vedevo bene: aveva perso l'occhio sinistro. Poteva ingannare gli altri, ma non poteva ingannare me.

Inciampava, non camminava più sicuro come un tempo.

Ma andai avanti con la mia richiesta.

Dopo aver girato mezzo mondo, tornare alle vecchie, chiuse, murate abitudini era, per me, per quello che ero diventato, un vero tradimento. Sentivo il bisogno di continuare a vivere, là fuori.

Dovevo farlo.

Per me stesso.



“Abbiamo aperto le porte, ormai. Non siamo – non siete, più costretti a vivere all'interno di queste mura.”

Per qualche strano motivo, pensai che avesse visto troppo, in battaglia. Troppo. Quel troppo che avevo cercato di impedirgli di vedere, con tutti i mezzi. Con mura alte, con baluardi, vedette e oscurità. Lo intuivo dalle sue parole, dalle sue espressioni, dai suoi gesti. Probabilmente, in battaglia era addirittura stato ferito, ferito in modo grave, probabilmente a un braccio, e stava cercando di non farmene accorgere.

Mio figlio era cambiato, e non lo vidi cambiato in meglio.

Era cresciuto allontanandosi sempre di più da ciò che era un tempo: non dico che avrebbe dovuto ricordare in eterno che l'avevo salvato da morte certa nascondendolo nel mio mantello in un albero cavo; ma il modo in cui cercava risposte, lontano da me, lontano da casa sua, era sbagliato. Cosa avrebbe trovato, là fuori?

Era ora che si fermasse a casa, e pensasse infine al futuro. Aveva finalmente l'opportunità di farlo.

Ebbi un brivido a pensare che potesse davvero essersi ritrovato l'anima lacerata dall'orrore del mondo, così come l'avevo io da che avevo memoria. E mi veniva a chiedere di tornare in quel mondo?




“Padre”, provai a dire, con dolore. “So che mi vuoi qui. Ma non c'è posto, per me, qui. Non adesso. Un giorno, forse, quando sarò tornato, mi fermerò per sempre. Ma non è questo il momento. Ho visto così tanto...” Sorrisi.
“Hai visto troppo.” Mi lanciò un'occhiata tale che mi paralizzò. “Cosa credi, che abbia aspettato tutti questi anni, nel buio, perché tu poi te ne potessi andare? Sei figlio di re, e questo ti graverà sulla spalle per tutta la vita. Devi accettarlo. E' ora che ti curi del tuo popolo, così come ho sempre fatto io.”

Mi voltò le spalle.

“Tu hai paura”, dissi, a bassa voce, “che io dimentichi.”

“Tu hai già dimenticato. Tu non sai, non vuoi sapere. Tu non ricordi ciò che ricordo io. Io ho visto mia moglie, tua madre, morirti a un passo, tra le mie braccia. E tu mi chiedi di andartene. Tu mi chiedi di andare a vedere il mare.

Dove voleva arrivare, con quel discorso?

“Legolas”, cercò di calmarsi, trattenendosi, e riflettendo, dosando le parole, “hai ragione. Va' pure dove vuoi. Ma ricordati questo: non potrai fuggire in eterno dai tuoi doveri. Io ne so qualcosa. Non fare l'errore che io ho commesso.”

Sapevo cosa significava: era tempo che io, per il mio popolo, tornassi ad essere il principe.

“Sei sinonimo di eterna giovinezza, tra la tue gente, sei lo spirito libero, l'audacia, la scoperta, l'emozione. Sei la bellezza, e sei la bontà, la leggerezza. Sei la speranza. Ma cerca di non essere un'eterna foglia al vento, figlio mio. Le radici, nella vita, sono tutto ciò che abbiamo.”

“Lo so. E' questo il motivo della mia richiesta. Ho bisogno di trovarle, le mie radici. Per troppo tempo ho avuto rimpianti. Non sono ancora pronto, padre.”

“Non sei pronto per cosa?”

“Per essere re. Per essere te.”

Arian entrò, leggera, nella grande stanza. La porta, alta e pesante, cigolò prepotentemente, e lei parve scomparire, dietro quel cigolio. Si fece piccola-piccola e poi parlò. Chiese direttive su qualche procedura di non ricordo neanche cosa, ma la sua presenza fu una ventata di aria fresca, balsamo.

Sopratutto per mio padre, che la guardava, una squillante luce negli occhi, tenuta nascosta sotto spessi strati di negazione.

“Forse anche tu dovresti ricordarti delle radici, padre. Sono tutto ciò che abbiamo.”

Gli posai una mano sulla spalla e uscii dalla stanza.



  
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