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Autore: marco271190    11/01/2014    6 recensioni
Gli Hunger Games, un gioco di morte e sadismo. Può riuscire un semplice ragazzo a sopravvivere di fronte all'orrore? Dove può condurlo la paura, il desiderio di tornare a casa? La pazzia è dietro l'angolo, occorre richiamare tutta la propria razionalità. Un vortice di avventure sconosciute, un intrico di decisioni prese in un attimo e meditate, il tutto visto attraverso gli occhi di Caster, un giovane proveniente dal Distretto 9. La voglia di vivere, una promessa da non infrangere fanno da sfondo ad un'arena dove la morte è la regina, e dalla quale solo uno tra ventiquattro adolescenti farà ritorno. E Caster farà di tutto per essere lui, quel ragazzo. Dopotutto,la parola data non può essere infranta.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il mio sguardo si spinge più in là che può, ma per quanto mi sforzi non mi riesce di vedere altro se non un'infinita distesa bionda, di chiome che oscillano leggere e placide al leggero alito di vento che le accarezza. Mi alzo in piedi, cerco di guardare ancora più in là, ma inutilmente. Il sole mi abbaglia, e dopo pochi secondi sono costretto ad abbassare gli occhi per concedere alle mie iridi un po' di risposo. Quando torno a fissare sotto di me, la distesa dorata non è mutata, il sole sembra essersi leggermente alzato, scandendo impietoso il tempo. Dovrebbero essere più o meno le dieci, ma oggi non ho con me il mio orologio. L'ho appositamente dimenticato sul comodino stamane, quando mi sono svegliato. Non mi serve sapere che ora sia, oggi il tempo è scandito dal suono della campana. Un suono, il primo, per dire che manca un'ora alla adunata nella piazza centrale. Due per convocare tutti quanti a mezzogiorno. Tre per l'ultima chiamata, dopo di che se non ti sei presentato nel piazzale la sera stessa dovrai renderne conto di fronte ad un plotone intero schierato direttamente da Capitol City per un processo seduta stante. Ne vale veramente la pena? Io non credo.
Il mio sguardo corre nel campo in cerca di Philos, ma in quel marasma di persone mi è impossibile riconoscerlo. Ogni tanto qualcuno si alza, nel tentativo di distendere i muscoli indolenziti della schiena, ed i sorveglianti schierati come dei soldatini ai limiti del campo sembrano non farci nemmeno troppo caso. Oggi è "quel giorno", una giornata troppo speciale per essere intransigenti. E' come se, in un modo o nell'altro, ci sentissimo tutti più vicini. Inspiro lentamente e torno a sedermi, con le narici piene dell'odore del grano imbiondito al sole e falciato da lame di bassa forgia. Se mia madre potesse vedermi mentre poggio sul manto erboso i pantaloni beige che lei ha tirato a lucido per l'occasione con enorme fatica probabilmente griderebbe come una pazza. Ma non la vedrò finché non arriverò nel piazzale centrale, e per allora i pantaloni un po' macchiati saranno l'ultima cosa cui farà caso. Mi abbasso le bretelle, perché mi stringono eccessivamente sulle spalle mentre sono seduto, e mi sento quasi più libero di respirare nella camicia bianche di un paio di taglie troppo larga. Mia madre l'ha malamente adattata traendola dal guardaroba di quando mio padre era ragazzo.
Il mio sguardo si ferma su una figura, un giovane probabilmente, che si è alzato per stiracchiarsi come stanno facendo in molti. Mi pare di riconoscere in quella tuta blu la figura slanciata di Philos, ma con indosso quella veste i lavoratori sembrano tutti identici. Mi passo in maniera scomposta la mano tra i capelli neri corti (un'altra fissa di mia madre, che non tollera che si portino capelli più lunghi di cinque centimetri nella sua casa. "E' una questione di igiene, santo il cielo!"). Tra poco dovrebbe finire il turno, oggi si lavora solo una manciata di ore. La maggior parte di coloro che mietono il grano è in età da Hunger Games, e quindi non può per nessuna ragione essere assente nella piazza a mezzogiorno. E' strano come il terrore sia ormai connaturato in noi, come un seme, una pianta che ha messo radici e che abbiamo imparato ad ignorare, un verme che ci corrode da dentro mentre noi lo lasciamo fare. Si sa che, di fronte alla inevitabile sciagura, non si può far altro che sorridere; l'alternativa è impazzire, ed io ho non ho nessuna intenzione di farlo. Finalmente la sirena che segna la fine del turno risuona, dovrebbero essere quasi le undici, la prima campana dovrebbe risuonare a minuti. I lavoratori si sistemano in una fila composta come tante formichine, di fronte ad un'enorme cassetta di legno all'interno della quale lasciano ricadere il falcetto. Nel Distretto 9 non è permesso tenere armi, ed una lama è considerata un'arma. Anche se serve per ragioni lavorative. Dopo aver posato l'attrezzo, firmano la presenza giornaliera e ritirano un'irrisoria quota di grano allungato con solo dio sa che cosa (segatura, dice sempre Philos. Ogni tanto mi chiedo quanto legno devo aver mangiato in questi sedici anni). Li guardo chini passarmi accanto, piegati dal sole, dalla fatica e dai dolori alla schiena. E dentro me ringrazio il cielo ed il macellaio di avermi dato un lavoro come fattorino. L'unica cosa che devo fare è correre veloce per il distretto per fare quante più consegne possibili, il che non è certo faticoso come restare piegati in un campo tutto il giorno.
Lo vedo risalire la china che porta all'uscita del campo di lavoro, assieme alla sua amica Sely, la sua compagna di lavoro. La prima a vedermi è lei, la quale si ferma, stupita. Lui segue il suo sguardo, meravigliato e mi guarda aprendosi poi in un sorriso. In men che non si dica congeda la sua amica ed accelera il passo per fermarsi a pochi passi da me. "Che ci fai qui?" mi chiede mentre mi rialzo e mi pulisco i pantaloni.
“Oggi la guardia pare essere di buon cuore” dico sorridendo ed accennando al cancello di fronte al quale un uomo in divisa da Pacificatore se ne sta in piedi, rigido.
“Ti ha fatto passare?” chiede Philos meravigliato riavviandosi un ciuffo di capelli biondi che gli è calato davanti agli occhi.
Annuisco, i miei occhi scuri puntati nei suoi azzurri. Una volta lui mi disse che erano azzurri come l’acqua del mare, e io risi per mezz’ora prendendolo in giro, perché era impossibile. Noi non sapevamo di che colore fosse il mare, non lo avevamo mai visto veramente.
“Ho portato queste” gli dico, tirando fuori dalle tasche una manciatina di fragole. Lui strabuzza gli occhi.
“Come le hai avute?”.
“Me le ha comprate mia madre. A dire il vero sono per la festa di stasera, ma ne ho rubate qualcuna per noi” gli dico con aria complice. Le fragole sono un bene costoso, solo a Capitol City se le possono permettere come nulla fosse. Noi dei distretti, che tiriamo la cinghia per vivere, non siamo propensi a queste frivolezze. Mia madre le compra solo in rare occasioni di festa, ed una di queste è la sera della Mietitura, per festeggiare un altro anno scampato.
“Festa” bisbiglia Philos, e la gioia nei suoi occhi pare spegnersi. Lui ha due sorelle più piccole, sua madre è malata e per tirare avanti ha dovuto prendere molte tessere. Oggi, a diciotto anni, il suo nome compare qualcosa come trentasei volte in quella maledetta boccia di vetro. Io sono più fortunato, ho solo le nomine che mi spettano, ovvero quattro. Non una più, non una meno. Mia madre non ha mai voluto che prendessi delle tessere. Meglio il digiuno che la morte, diceva sempre.
Senza indugiare oltre, lo invito a seguirmi.
 
Andiamo a sistemarci in un angolo della rete appena fuori dai terreni coltivati in cui lui lavora, ed iniziamo in silenzio a mangiare le fragole, lentamente, per godere appieno del sapore. Lo guardo, le sue mani calde che conosco, la sua bocca. Non è stato facile, per nessuno dei due. L’amore non è mai facile, ma per noi la questione è stata particolarmente ostica. Due maschi che si scambiano dei baci non sono ben visti, nel distretto dei mietitori ed in generale nel mondo in cui viviamo. Io credo non ci sia nulla di sbagliato, e lo stesso vale per Philos e mia madre, l’unica a sapere di noi due. Così, quando abbiamo i nostri momenti di solitudine, li passiamo lì, alla rete del campo, per evitare sguardi indesiderati.
“Che c’è?” mi chiede lui dubbioso. Solo allora mi accorgo di essere rimasto a fissarlo per diversi secondi.
“Nulla” dico, ritornando alla realtà e scuotendo frettolosamente la testa “non c’è niente”.
Lui ride e si avvicina a me, stampandomi sulle labbra un leggero bacio.
“Ti amo Caster” mi dice dolcemente. E lo so, so che è vero. Me lo ripete da due anni ormai, ed io non mi stanco mai di sentirlo.
Gli rispondo con un sorriso, e appoggio la testa alla sua spalla, lasciandomi cadere.
“Hai paura?” gli chiedo in un sussurro.
Lui esita. Poi risponde con un no, detto piano. Ma io so che mente. È impossibile non averne, tutti ne hanno. La campana delle undici suona, imperiosa, sovrastando i nostri pensieri. Provo ad ignorarla, ascolto i suoi respiri, ma lui non ne è capace. Il peso di tutti quei biglietti col suo nome è enorme, ma è l’ultima volta, mi dico, è l’ultimo anno che corre quel rischio. Superato questo ultimo scoglio sarà salvo e non dovrà più temere. Vorrei dirlo a lui, ma con le parole non me la sono mai cavata troppo bene.
“E’ meglio che vada” dice piano, aiutandomi a rialzarmi “devo prepararmi. Se dovessi salire sul palco, non posso certo farlo con la tuta da lavoro”.
Gli sorrido. “CI vediamo dopo in piazza” dico.
“Ci vediamo”. Poi la sua presa si scioglie, lascia andare la mia mano. E io spero di risentirla questa sera, tra le mie. È brutto sperare per uno ,pregare di non dover essere tu la vittima. Sperare per due è anche peggio.
 
 
 
Arrivo in piazza dopo circa mezzora. Lo spiazzo è largo e baciato dal sole i cui raggi vengono assorbiti dalla terra brulla calpestata da migliaia di piedi. Gli avventori cominciano a convergere ed a radunarsi sui marciapiedi e sotto il colonnato, tutti volti verso il grande palco allestito sotto il palazzo di giustizia, un’enorme costruzione di marmo ingiallito con possenti colonne robuste. Le botteghe attorno hanno iniziato ad abbassare le serrande, entro mezzora chiunque sarà in piazza, anche chi non ha figli, per assistere all’estrazione dei tributi, salvo poi andarsene tra i soliti commenti che ci danno per sfavoriti. Siamo troppo deboli. Troppo trascurati. Non sappiamo fare nulla se non tagliare il grano. Non siamo vincitori. Nessuno mai ci sponsorizza. Siamo finiti.
Solo una volta il distretto 9 è riuscito a vincere, solo una. Quella era, si diceva, l’eccezione che confermava la regola. Per il resto, ogni anno era un lutto. Tributi trucidati non appena il conto alla rovescia alla Cornucopia terminava.
Il ragazzino davanti a me distoglie la mia attenzione da quei macabri pensieri. Sarà alto sì e no un metro e venti, è uno scricciolo nella sua camicetta, sembra una macchietta simpatica, e potrebbe esserlo se solo non sapessi a cosa sta andando incontro. Mi accorgo, dal ritmo lento con cui solleva le spalle, che sta piangendo. Si guarda intorno, spaesato. Gli picchio sulla spalla lentamente, mentre la fila per il prelievo del sangue ed il riconoscimento prosegue. Lui sobbalza, colto di sorpresa, e poi si volta verso di me. I suoi occhi verdi e grandi sono il simbolo dello spaesamento e della tristezza.
“Prima volta?” gli chiedo piano.
Lui esita, titubante. Poi annuisce lento.
“Non serve aver paura” cerco di rassicurarlo “Siamo in tanti qui. Non sceglieranno te. Hai paura del prelievo di sangue?”.
“No” risponde piano.
“Ecco. Allora sei un vero uomo” gli dico “ che paura hai?”.
Lui si apre in un leggero sorriso, e si volta. Mentre gli infilano l’ago nel braccio, mi guarda, come a volermi dire “Visto? Ce l’ho fatta”. Ed io capisco di essermi sbagliato. Probabilmente l’ho illuso, ma l’illusione può aiutarlo a rimanere in piedi. Scaccio dalla mia testa l’immagine di lui, morto sull’erba.
 
A mezzogiorno sono sistemato nella zona riservata ai sedicenni, mentre la campana suona tre volte. L’ultima chiamata. Di tanto in tanto mi volto, per controllare Philos. Lo intravedo sbucare con i suoi capelli biondi dall’ultima fila, lui contraccambia il mio sguardo e, con un sorriso, mi augura buona fortuna. Sembra tranquillo, ma io so cogliere i segnali di nervosismo: non riesce a stare fermo e saltella di continuo da un piede all’altro in modo quasi impercettibile. Sotto il colonnato mia madre e mio padre si sono guadagnati un posto in prima fila. Mia madre mi rivolge di continuo sorrisi comprensivi e fiduciosi, ma capisco che anche lei teme per me. Quattro nomine sono molto poche, ma ne basta una. Una soltanto, e sei spacciato. Il sole splende alto, nella piazza il rumore è forte ed il cicaleccio viene messo a tacere solo quando dalle casse montate sulle colonne parte, a note spiegate, l’inno di Panem ed i portoni del palazzo di giustizia si spalancano per far entrare sul palco tre persone:  il primo è un uomo tarchiato, sulla quarantina. È il sindaco del Distretto 9, un brav’uomo, mi è capitato spesso di fargli delle consegne. Mi lascia sempre una buona mancia. Il secondo è un ragazzo di circa trentacinque anni, alto, aitante e biondo. Lui è l’eccezione. Lui è l’unico vincitore di cui il Distretto 9 possa fregiarsi, Reny. L’ultima figura è una donna alta e slanciata fasciata in una tuta di pelle nera e con i capelli rosso fuoco raccolti in un elegante chignon. È Vectra, l’accompagnatrice del Distretto 9.
Si avvicina a passo spedito verso il microfono, nel mentre ne approfitto per lanciare uno sguardo a Philos. Sta sorridendo. So perché, pensa che Vectra sia un robot. La sua voce non ha mai un calo, non esprime mai un’emozione. Ricambio il suo sorriso, e torno a fissare il palco.
“Benvenuti, amici del Distretto 9. Vi do il benvenuto ai trentaquattresimi Hunger Games. Prima di procedere con la scelta di chi avrà l’onore di partecipare quest’anno facendo le veci del nostro amato Distretto, ho per voi un filmato direttamente da Capitol City”.
A quel punto scollego il cervello. Inizia il solito, noioso, filmato di ogni anno, che parla di guerre, fandonie, e di come la Capitale abbia risollevato tutto quanto. Non mi sono mai chiesto quanto ci fosse di vero in tutto ciò. A cosa mai potrebbe servire farlo? Un lento scroscio di applausi accoglie la fine del film.
“Allora. Cominciamo dalle ragazze” dice Vectra, sempre con il suo tono piatto, quasi le costasse sforzo essere lì. Si avvicina alla boccia di destra, affonda la mano e dopo pochi secondi la ritrae, stringendo tra il pollice e l’indice un biglietto candido. A passo cadenzato si avvicina al microfono. Il silenzio è tombale, presagio di morte imminente. L’accompagnatrice spiega il pezzetto di carta, e legge ad alta voce il nome stampato su di esso.
“Leena Tyo” dice, scandendo le lettere. Un istante di esitazione, come se tutti stesero trattenendo il fiato. Poi la fila delle quattordicenni si rompe, silenziosamente, e da essa si fa avanti una giovane dai capelli arancio come il sole all’imbrunire. Il suo vestito azzurro si scuote, mosso dai suoi passi lesti mentre si avvicina al palco e sale i gradini. Si sistema accanto a Vectra e guarda il pubblico, in un apparente atteggiamento di inflessibilità. E io non posso fare altro che ammirarla per come riesce a controllarsi. Vectra la guarda un istante, e le da il benvenuto nel microfono. Quella risponde con un sorriso stirato. L’accompagnatrice si avvicina allora alla boccia contenente i nomi dei maschi, ed io mi volto. Philos non riesce nemmeno più a sorridere.
Vectra ritorna al microfono, il biglietto nella mano. È il momento della verità. Guardo il sole, sognando di essere laggiù. Invece no. Sono a Panem, nel Distretto 9. E il tributo maschile di quest’anno è Philos Weety.
 
Per un istante le mie orecchie si riempiono di silenzio. Il cuore sprofonda nello stomaco, mi viene da vomitare e probabilmente è proprio quello che dovrei vomitare. Il mondo ruota, ma mi impongo di rimanere fermo, di rimanere lì. Se lascio la realtà ora è finito tutto quanto. Non sono io a volerlo, sono le mie gambe ed il mio cuore. Faccio un passo avanti, senza chiedermi dove sia Philos, senza guardarlo. Senza guardare nessuno a dire il vero. Sono solo io, ed è proprio quello che urlo. “Io” dico. Lo grido, la voce irriconoscibile di chi ha ricevuto una pugnalata ed è allo stremo delle forze. Sputo quella parola come se fosse un qualcosa che covavo. Ecco forse cosa dovevo vomitare davvero. Sento gli occhi degli astanti puntarsi su di me, ma non dico nulla. A passo rapido, come se stessi volando, mi dirigo verso il palco. “Sono volontario” dico, quasi come se volessi spiegare a me stesso ciò che sto facendo piuttosto che dirlo a tutti. Le facce mi fissano, si confondono in un turbinio che non distinguo. Sento in lontananza alcune voci urlare, una di quelle è senza dubbio Philos. Ma non esiste regola che mi vieti di fare ciò che ho appena fatto. Salgo gli scalini del palco e mi sistemo accanto a Vectra. Ciò che vedo è un esercito di formiche sotto di me, vorrei piangere ma non posso. Credo di aver esaurito tutti i miei sedici anni in quegli istanti. “Ecco cosa si vede dal palco” mi trovo a pensare.
“Un volontario” constata Vectra, e mi pare di udire nel suo tono una leggera inflessione di voce, o almeno credo. Non è la mia priorità capirlo ora. “Come ti chiami?” mi chiede, avvicinando il microfono alla mia bocca.
“Caster” dico. Ho la bocca riarsa, come fosse piena di spighe secche.
“Caster. Sei il primo volontario in assoluto che il Distretto 9 abbia mai avuto. Come mai hai preso il posto del tributo estratto?”.
Non rispondo. Vedo Philos in lontananza. Sta piangendo, mi guarda e piange. Mia madre sotto il colonnato ha la testa immersa nel petto di mio padre, probabilmente incapace di capirmi. Non mi aspetto che capisca, nemmeno lo voglio. Mio padre sorride amareggiato.
“Perché è Philos” riesco infine a bisbigliare. Perché Philos è la vita per me, se muore, io muoio con lui. Preferisco essere io a condurre il gioco, e morire se devo. Non Philos, perché…perché è Philos.
“Capisco” fa Vectra, forse un po’ amareggiata dalla risposta scarna “allora un bell’applauso per i nostri tributi”. L’inno parte a tutto volume, e lancio un ultimo sguardo a Philos e mia madre. L’ultimo viso che colgo mentre i Pacificatori scortano me e Leena dentro il palazzo di giustizia è quello del ragazzino che ho consolato mentre eravamo infila per il prelievo. Mi guarda con compassione. Nella mia mente riecheggia quella frase, “il primo volontario in assoluto”. E dentro di me prende forma un solo pensiero. Spero di non essere il primo in assoluto a morire, di fronte a quello che mi aspetta.
  
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