Buongiorno!
Mi
rendo conto che la mia presenza su EFP è una
rarità ormai, ma la verità è che sto
scrivendo veramente poco e mi dispiace tantissimo! Anche per questo
oggi mi
sento così euforica nel pubblicare questa
piccola-non-tanto-piccola one-shot.
La mia seconda one-shot su Sherlock.
È
stata scritta in parte prima di aver visto il 3x02, in parte dopo, ma
ho
cercato di mantenermi sull’onda d’ispirazione che
mi ha portato il primo
episodio, senza lasciarmi troppo coinvolgere dal matrimonio di John,
eccetera.
Questo per chiarire il fatto che il personaggio di Tom ha una mia
personalissima
caratterizzazione (diversa da quella che ho colto io nel 3x02).
Potrebbero
anche esserci dei riferimenti alla mia one-shot precedente, ma non
fondamentali.
Detto
questo, spero che vi piaccia e di non essere andata troppo OOC con il
personaggio di Sherlock. (Per chi ancora non lo sapesse, tremo
letteralmente al
pensiero di snaturare un personaggio incredibile come il suo). Sono ben
accetti
consigli e critiche, ovviamente!
Un
grazie in anticipo a chi leggerà ;)
NB: I personaggi appartengono ai loro autori e questo scritto non ha alcuno scopo di lucro.
_Pulse_
____________________________________________________
That
stupid coat
Molly,
con due grossi e pesanti raccoglitori tra le braccia, dovette spingere
la porta
del laboratorio con una spalla ed entrarvi un po’ alla cieca,
sperando di non
inciampare in niente o, ancora peggio, in nessuno.
Raggiunse
il tavolo delle analisi sana e salva e quando si liberò dei
due faldoni notò il
cappotto posato sullo schienale di metallo dello sgabello di fronte al
microscopio.
Il
suo cuore saltò un battito, poi cercò di
recuperarlo aumentando il ritmo, ma fu
del tutto inutile: il sangue le era già esploso come fuoco
nelle vene, la sua
sensibilità era almeno quintuplicata, rendendo
incontrollabili i suoi stessi
pensieri, e quando la porta del laboratorio si aprì commise
un grande errore.
Si
voltò di scatto ed esclamò, fingendosi sorpresa:
«Sherlock!».
La
sorpresa, però, fu per lei, e fu anche abbastanza dolorosa.
Alla porta c’era
Tom, il suo attuale fidanzato, col sacchetto del pranzo che quella
mattina le
aveva così premurosamente preparato e che lei si era
dimenticata a casa.
La
sua espressione delusa e ferita si scolpì nella sua mente e
le spezzò il cuore,
causandole un dolore tale che faticò a capire tutte le
parole del suo discorso.
«Sono
solo io, solo Tom», iniziò accennando un sorriso
debole, per poi passarsi una
mano tra i ricci neri ed abbassare gli occhi sul sacchetto che aveva
tra le
mani. «Di sotto mi avevano detto che eri qui, ma non ti ho
trovata e allora ho
pensato che magari eri già in mensa, così ho
chiesto dove fosse e sono passato
di là. Non c’eri, quindi sono tornato di nuovo
qui, dicendomi che magari avevi
da fare. Ti avrei lasciato il pranzo sulla scrivania, con un biglietto.
Nel
caso credessi che te lo avesse lasciato Sherlock, sai».
Molly
chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo prima di iniziare delle
scuse che
nemmeno volendolo sarebbe mai riuscita a concludere: «Tom,
perdonami, io…».
«No»,
la interruppe bruscamente, andandole incontro con passo deciso. Le
schiaffò il
sacchetto del pranzo sul tavolo e si sporse per prendere il cappotto
sullo
sgabello, quel cappotto così simile a quello di Sherlock,
quello che lei aveva di fatto scambiato
per quello di
Sherlock.
Tom
rimase per un attimo con la bocca vicino al suo orecchio e Molly
pensò di
sentire il freddo gelido delle sue parole piene di rancore penetrarle
il
cranio, ma non fu così.
«Perché
continui a farti del male, gattina?», le domandò
sussurrando, nel modo più
dolce e triste che Molly avesse mai sentito. Le sembrava di essere la
protagonista di una puntata strappalacrime di Grey’s
Anatomy.
Tom
alzò una mano per accarezzarle la guancia, ma
all’ultimo momento ci ripensò e
lasciò Molly da sola nel suo laboratorio, col suo pranzo
freddo e gli occhi
chiusi colmi di lacrime che non avrebbero mai solcato le sue guance.
***
«Ho
bisogno di vedere di nuovo quel cadavere. Andiamo al
Bart’s», esclamò Sherlock
con quel suo modo di fare imperioso: non lo stava chiedendo, lo stava
ordinando.
«Una
prima occhiata non è bastata? Questa sì che
è nuova», disse John, facendo
storcere il naso a Sherlock e strappando un sorriso a Lestrade, il
quale non
aveva posto alcuna obiezione all’ordine
del consulente investigativo; anzi, era stato il primo ad alzarsi.
Dieci
minuti dopo si aggiravano già per i corridoi
dell’obitorio, alla ricerca di
Molly, la quale sembrava letteralmente scomparsa: nessuno tra i suoi
colleghi
sapeva dire dove fosse andata né perché, ma alla
fine trovarono una giovane
infermiera un po’ più informata.
Raccontò loro di aver incontrato il suo
fidanzato, il quale si era rivolto a lei per chiederle dove fosse la
mensa.
«Un
tipo carino, col suo stesso cappotto!», ridacchiò
di fronte a quella
coincidenza, cosa che irritò Sherlock tanto da fargli
cercare lo sguardo di
John, il quale si coprì la bocca con una mano per nascondere
un sorriso
divertito ed annuì, raccomandandogli silenziosamente di non
farsi riconoscere
come suo solito.
Sherlock
si sforzò immensamente e riuscì persino a tirar
fuori un sorrisino, chiedendole
candidamente: «Sa per caso perché la stesse
cercando?».
«Credo
le avesse portato il pranzo e che sì, insomma, volesse stare
un po’ con lei, se
capisce cosa intendo», gli strizzò
l’occhio e quella volta Lestrade non riuscì
a trattenersi e dovette tapparsi la bocca e voltarsi verso John per non
scoppiare a ridere.
L’infermiera
iniziò ad arrotolarsi una ciocca di capelli biondi intorno
all’indice e
continuò: «Magari ce l’avessi io un
ragazzo così premuroso! E invece mi devo
accontentare del cibo dell’ospedale… Lo eviterei
volentieri, se trovassi la
giusta compagnia, sa?».
Sherlock
rimase a fissarla per qualche secondo, con quella sua espressione da
scanner in
funzione. La ragazza iniziò a sentirsi a disagio di fronte a
quegli occhi di
ghiaccio e lanciò una silenziosa richiesta d’aiuto
ai due uomini alle spalle
del detective.
John e Greg sapevano fin troppo
bene che cosa sarebbe
successo di lì a poco: Sherlock avrebbe iniziato ad elencare
tutto ciò che
aveva scoperto su quell’infermiera soltanto guardandola,
compresi i fatti
imbarazzanti – soprattutto quelli – che
l’avrebbero fatta scoppiare a piangere
oppure cadere in crisi depressiva, per poi concludere con un gentile
rifiuto
alle sue avances.
John,
impietosito, sospirò e fece un passo avanti per posare una
mano sulla bocca già
aperta di Sherlock.
«Grazie
signorina, è stata molto gentile a dedicarci un
po’ del suo tempo. Buona
giornata», si congedò, trascinando Sherlock con
sé.
«Perché
l’hai fatto?», domandò Sherlock
contrariato, una volta libero dalla morsa
dell’amico.
«Perché
avresti detto qualcosa di poco carino».
«Se
anche per te una malattia venerea è qualcosa di poco carino,
allora hai
ragione. Ma se gliel’avessi detto l’avrebbe curata
prima, il che sarebbe stato
un bene, vero dottore?».
John
si fermò e lo guardò incredulo, cercando anche il
sostegno dell’ispettore di
polizia. «E come avresti fatto a diagnosticare una malattia
venerea solo
guardandola?!».
Sherlock
gli rivolse un piccolo sorriso compiaciuto prima di spalancare con
entrambe le
mani le porte del laboratorio d’analisi. Si fermò
di fianco al tavolo con il
microscopio e vide il camice bianco di Molly abbandonato sullo
sgabello. Lo
prese per il colletto e con l’altra mano accarezzò
la parte interna
dell’indumento, sotto gli sguardi confusi di John e Greg.
«È
ancora caldo, non l’ha tolto da
molto», spiegò infine, per poi rivolgere
la
propria attenzione al sacchetto di carta abbandonato poco
più in là.
«Deve
essere il pranzo che le ha portato Tom», disse John,
avvicinandosi per
esaminarne il contenuto. Sherlock allora chiuse in fretta il sacchetto
e glielo
ficcò tra le mani con ben poca delicatezza, borbottando:
«Non
è stato toccato. Che cosa ne deducete? Io ho sette soluzioni
possibili. Okay, sei.
È ridicolo che Molly non mangi il proprio pranzo solo
perché le dispiace
disfare quel… capolavoro».
John,
ancora più incuriosito, aprì il sacchetto e
tirò fuori la ciotola di plastica
in cui era conservata una porzione di riso con le verdure. Era stato
appiattito
con una forchetta e molto accuratamente Tom ci aveva scritto sopra
“Ti amo” con
quella che sembrava proprio salsa al tonno.
«Oh,
ma questo è veramente… dolce», disse
Lestrade, passandosi una mano sul collo
con fare imbarazzato.
«Sto
aspettando. E le mie teorie sono aumentate, invece che diminuire. Non
va bene,
non va bene», continuò a borbottare Sherlock,
camminando avanti e indietro
fiancheggiando il lungo tavolo.
«Io
ne ho solo due», disse John, sollevando le spalle.
Sherlock
si voltò di scatto, guardandolo come se avesse appena detto
qualcosa di
inconcepibile. Forse ciò che gli dava fastidio era che
quando si trattava di
Molly tutti sembravano più intelligenti ed intuitivi di lui,
anche se dopo la
sua finta morte e i due anni di isolamento aveva già fatto
moltissimi
progressi.
«La
prima è… diciamo che lei e Tom non avevano molta
voglia di mangiare e…».
Lestrade
deglutì rumorosamente e lo fermò agitando una
mano: «Oh, oh, okay John, sia io
che Sherlock abbiamo capito il concetto. Vero Sherlock?».
Il
detective incrociò le braccia al petto e rivolgendo ai due
un cenno d’assenso
si diresse verso la finestra.
«Improbabile,
ma non impossibile», mormorò perché
John non lo sentisse.
«La
seconda è che magari hanno litigato. Entrambe le due teorie
spiegano la perdita
dell’appetito, in un modo o nell’altro».
Il
silenzio regnò sovrano per diversi istanti, poi finalmente
Sherlock disse:
«John, vieni qui».
Il
dottor Watson e l’ispettore Lestrade si scambiarono uno
sguardo, poi
raggiunsero Sherlock alla finestra e scorsero Molly appoggiata contro
il muro
di mattoni che divideva la strada dalla fermata delle ambulanze, gli
occhi
bassi e le mani nascoste nelle maniche del giubbotto.
Greg
sospirò. «Penso che sia la seconda teoria quella
esatta».
John
annuì e gettò uno sguardo verso Sherlock per
capire che cosa gli passasse per
la testa, quando il consulente investigativo si diresse a passo spedito
verso
la porta, senza dare alcuna spiegazione.
«Credi
anche tu che lui…?».
John
osservò l’allibito ispettore Lestrade ed
annuì di nuovo, anche se incerto sulle
probabilità di riuscita del piano. Sempre che Sherlock ce
l’avesse, un piano.
Ovviamente
non aveva un piano. E odiava non averne. Odiava non sapere, odiava
affrontare
le cose alla cieca.
Prima
di uscire dall’ospedale gli venne in mente un’idea,
una cosa che forse aveva
sentito alla TV o che forse la signora Hudson gli aveva detto. Non
faceva poi
molta differenza.
Quindi
uscì, alzandosi il bavero del cappotto con una mano e
constatando che stava
iniziando a cadere una pioggia sottile e fredda.
Si
avvicinò a Molly fino a quando lei non si accorse della sua
presenza. Lo notò
dagli occhi sbarrati e dal rossore che si impadronì delle
sue guance,
nonostante avesse il viso ancora rivolto verso il cemento,
lì dove c’erano le
sue scarpe.
Le
porse il bicchiere di cioccolata che aveva preso alla macchinetta nella
sala
d’aspetto e Molly alzò di scatto il viso, urlando
quasi: «So benissimo che non
sei Sherlock, Tom, e mi dispiace averti –». Si
interruppe bruscamente,
rendendosi conto di chi avesse di fronte.
«Sherlock»,
balbettò.
Odiava
anche sentirsi a disagio. Era un demone con cui aveva combattuto sin
dalla più
tenera età, riuscendoci così bene da diventare
inconsapevolmente lui stesso
quel demone: era lui a provocare il disagio tra la gente, ed era molto
più
facile così.
A
fatica, le rivolse un sorriso. «Ho sentito dire che il
cioccolato tira su di
morale. Non che io ci creda particolarmente, anzi non ci credo affatto,
però…».
«Sherlock,
che cosa…?». Molly, esausta, si staccò
dal muro e si coprì la testa con il
cappuccio. «Devo tornare al lavoro, la mia pausa pranzo
è finita da un pezzo».
Si
allontanò senza aggiungere altro e Sherlock rimase a
guardarla, assorto nei
propri pensieri, fino a quando un’ambulanza a sirene spiegate
non rischiò di
investirlo.
***
Sherlock
non faceva altro che fissarla da quando erano rientrati. Probabilmente
la stava
deducendo, come piaceva fare a lui. Ma non doveva
avere molto successo,
visto che erano dieci minuti buoni che continuava a gettarle occhiate
mentre
esaminava il corpo che le aveva chiesto di tirare fuori dalla propria
cella
frigorifera.
Molly
non riusciva in alcun modo a spiegarsi che cosa volesse fare con quel
bicchiere
di cioccolata calda. A dir la verità la parte di cervello
direttamente
collegata al suo cuore aveva già elaborato una bella e
romantica teoria, troppo
bella per essere vera. Troppo crudele, dopo quello che Tom le aveva
detto.
Perciò stava cercando di non pensarci, ma con gli occhi di
Sherlock sempre
pronti a cogliere il significato di ogni suo gesto – anche
quello più
apparentemente insignificante – non aveva molto successo.
«Quando
avete finito chiamatemi», esclamò ad un tratto,
interrompendo i mugugni pensierosi
di Sherlock, il quale sollevò gli occhi e le chiese
frettolosamente: «Dove
vai?».
«Di
sopra, ho del lavoro da fare».
E
senza dargli il tempo di ribattere, uscì
dall’obitorio tirando un tremante
sospiro di sollievo.
***
«Sherlock».
«Mmh?».
«È
andato decisamente male il tuo tentativo, eh?».
Il
detective guardò John e mugugnò.
Quant’era difficile per lui ammettere un
fallimento, lo sapevano tutti ormai.
«Dovresti
parlarci tu», disse sorprendendo sia lui che Lestrade.
«Io?
E perché?».
«Perché
tu sei più bravo con le donne. Sei sposato».
«Ehi,
lo sono stato anche io», si intromise Lestrade.
«Appunto,
lo sei stato. Vuol dire che non eri
proprio bravo a…».
«Okay,
okay», disse John, mitigando tra i due.
«Proverò a parlarci».
«Vai
subito».
«Subito?».
«E
quando altrimenti?».
«È
molto probabile che non voglia parlarne con nessuno, ora».
Sherlock
si sollevò e si posò una mano sul fianco, mentre
con l’altra si grattò la testa
spazientito. «Tu provaci. E se non ci riesci, provaci ancora.
Ora vai, non
riesco a concentrarmi se non risolvo questa… cosa».
«Come
vuoi. Ma non ti assicuro –».
«Vai!».
John
bussò alla porta del laboratorio d’analisi e
trovò Molly con una provetta in
mano, intenta ad osservarne il contenuto.
«Ti
disturbo?».
«Entra
pure, John».
Il
dottore si avvicinò al tavolo e temporeggiò,
guardandosi un po’ intorno.
«Allora»,
esclamò lei, «Come va la vita
coniugale?».
«Benissimo.
Io e Mary siamo molto, molto felici. Tu e Tom, invece?».
Molly
mise a posto la provetta catalogata e si appoggiò al tavolo
con entrambe le
mani, guardando John con occhi supplichevoli. «Dimmi che non
è Sherlock che ha
dedotto qualcosa e vuole saperlo».
«In
realtà… sono stato io a suggerirgli che forse tu
e Tom avete litigato. Abbiamo
saputo che è venuto qui durante la tua pausa pranzo
e…».
«Oh
mio Dio, avete anche visto il...?».
«Sì,
mi dispiace. Sherlock non ha fatto commenti in proposito, se ti fa
stare
meglio».
«Non
mi interessano i commenti di Sherlock. Cioè, sì,
certo che mi interessano, ma
non nel senso… Vorrei solo…». Molly
sospirò, affranta, e scosse il capo prima
di tornare al lavoro. «Dì a Sherlock che sto bene
e di non…».
«Preoccuparsi?»,
concluse la frase per lei, sorridendole dolcemente.
«È strano, ma da quando è
tornato sembra un po’ più umano a tutti. E
sì, credo che sia preoccupato per
te; più di quanto tu ed io possiamo immaginare».
Molly,
rossa come un peperone, abbassò il volto ed
aspettò che John uscisse dal
laboratorio, prima di passarsi le mani sul volto e ricomporsi. Doveva
pensare
solo al lavoro.
***
Non
appena vide John rientrare nell'obitorio, Sherlock si
sollevò di scatto dal freddo
tavolo per le autopsie su cui si era steso nell'attesa. Un immagine che
fece
venire la pelle d'oca al dottore.
«Sei
riuscito a farla parlare?», gli chiese.
«No»,
rispose sospirando. «Mi ha detto di dirti che sta bene e che
non devi
preoccuparti».
«Preocc–?».
Sherlock strabuzzò gli occhi e saltò
giù dal tavolo, sistemandosi la sciarpa
blu intorno al collo. «Non essere ridicolo, John».
Il
dottor Watson si voltò verso Lestrade, il quale
scrollò le spalle prima di
seguire a ruota Sherlock, già fuori con le mani infossate
nelle tasche del
cappotto.
Il
detective controllò con la coda dell’occhio che
John fosse qualche passo dietro
di loro e si fece più vicino a Greg per bisbigliare:
«Tu sai dove lavora Tom?».
L’ispettore
lo guardò a bocca aperta. «Sul serio? Che hai
intenzione di fare?».
Persuaso
dall’occhiata tagliente che gli riservò, Greg
finse di tossire borbottando: «E
va bene. In fondo quel tipo non mi è mai piaciuto».
Sherlock
sorrise soddisfatto ed esclamò, voltandosi verso John:
«Mi sono appena
ricordato di un impegno che avevo preso con Mycroft. Ci
vediamo!».
«E
il caso? Lo lasci a metà?», chiese il dottore,
stupito.
«Quasi
risolto! E lo sai che io non lascio mai niente a
metà». Gli diede le spalle e
con poche rapide falcate sparì dietro l’angolo.
John
raggiunse Greg e lo osservò digitare rapidamente sulla
tastiera del proprio
cellulare.
«A
chi scrivi?».
«Ad
un collega. Per avvisarlo che Sherlock è a buon punto,
ecco».
Bip
bip.
Senza
fermarsi, Sherlock tirò fuori il cellulare e lesse
l’indirizzo che Lestrade gli
aveva appena inviato. Accennò un sorriso ed alzò
una mano per fermare un taxi.
Il
gioco era ufficialmente iniziato.
***
Molly
si fece largo tra gli altri passeggeri e con molta fatica
riuscì a scendere dal
treno. Quindi si sistemò la tracolla della borsa sulla
spalla e prese le scale
mobili per uscire dalla metropolitana.
Aveva
ripreso a piovere, ma quella mattina oltre al pranzo aveva anche
dimenticato
l’ombrello, perciò si mise a correre.
Arrivò
a casa bagnata fradicia e di pessimo umore, che non fece altro che
peggiorare
quando si rese conto dell’inusuale silenzio che regnava tra
le mura
dell’appartamento che da un anno a quella parte divideva con
Tom, il loro cane
e Toby, il suo gatto. Quest’ultimi non andavano proprio
d’amore e d’accordo, ma
avevano imparato a convivere. Cosa che lei non era ancora riuscita a
fare con
il suo insensato amore per Sherlock. E oggi, più che mai,
aveva avuto la prova
inconfutabile che non ci sarebbe mai riuscita.
Se
avesse davvero voltato pagina come aveva detto più volte ai
suoi amici quando
aveva presentato loro Tom, allora non avrebbe dovuto pensare a Sherlock
non
appena aveva visto quel cappotto, ma a lui.
Se
avesse davvero voltato pagina, non avrebbe mai accarezzato i ricci neri
di Tom
chiedendosi se anche i capelli di Sherlock fossero così
sottili e setosi sotto
le dita.
Se
avesse davvero voltato pagina, alla festa di quella sua amica di
vecchia data
non avrebbe indicato Tom tra gli invitati appena entrati, chiedendole
di
presentarglielo.
Non
appena lo aveva visto, infatti, per un attimo l’aveva confuso
per Sherlock,
soprattutto vedendolo di spalle. Poi i suoi occhi scuri le avevano
fatto
tremare il cuore.
Aveva scelto Tom perché somigliava a Sherlock, ma era anche
il suo opposto. Cercava in lui l’amore che non avrebbe mai
ottenuto e solo ora
se ne rendeva conto: si era comportata in modo meschino, egoistico, e
Tom non
se lo meritava affatto.
Sherlock
si era sbagliato: era Tom che si meritava solo il meglio e tutta la
felicità
del mondo, non lei.
Tom l’aveva amata così com’era,
l’aveva ascoltata parlare
di Sherlock per ore ed ore e le era sempre stato accanto. Lei, al
contrario,
l’aveva sfruttato per illudersi che la
“bella” copia di Sherlock l’amasse.
Se
solo l’avesse capito prima del suo ritorno, se solo si fosse
resa conto che lei
non poteva fare a meno di amare lo Sherlock originale…
avrebbe evitato tutto
quello, avrebbe risparmiato del dolore a Tom.
Avrebbe
continuato a vivere da sola con il suo gatto, con le sue fantasie, i
suoi
telefilm preferiti e i cadaveri nel suo obitorio. Ma almeno sarebbe
andata a
dormire serenamente, con la coscienza pulita. Ora difficilmente si
sarebbe
perdonata, difficilmente avrebbe pensato di meritarsi qualcosa di
più della sua
vita prima di Tom.
Tirò
fuori dalla borsa il cellulare e guardò la foto di lei e Tom
abbracciati che
aveva come sfondo, poi lo chiamò. Le sembrò di
attendere per ore, prima che si
attivasse la segreteria telefonica. Ma lei, ancora con addosso il
giubbotto,
appoggiata alla porta di casa, continuò a provare. Aveva
bisogno di parlargli.
***
Tom
sentì il cellulare vibrargli di nuovo nella tasca dei jeans
e lo estrasse per
spegnerlo, quando udì la porta tagliafuoco del magazzino
sbattere. Scese dalla
scala e si guardò attentamente intorno tra gli scaffali
pieni di libri, CD e
DVD rimasti invenduti oppure in attesa della loro data
d’uscita.
«Sam,
sei tu? Sappi che non è divertente fare lo stesso scherzo
due volte!», urlò,
mentre il cellulare nella sua mano incominciava per la terza volta a
vibrare.
«Dannazione…».
«Perché
non rispondi?».
Tom
trasalì e si voltò, incrociando lo sguardo
inquisitorio di Sherlock. Rimasero a
fissarsi per qualche secondo e il ragazzo non riuscì proprio
a capire il motivo
per cui Molly…
Scosse
il capo, un gesto pieno di rammarico e frustrazione, e tornò
agli scatoloni
ancora mezzi pieni che doveva svuotare per controllare che il loro
contenuto
combaciasse con quello segnato in bolla.
«Come
hai fatto ad entrare?», gli chiese distrattamente e
altrettanto distrattamente,
Sherlock rispose:
«È
bastato un autografo e il tuo amico… Sam? mi ha lasciato
passare».
«Che
cosa vuoi?».
Sherlock,
con le mani unite dietro la schiena, fece qualche passo verso di lui e
lo fissò
dritto negli occhi. Sembravano davvero di ghiaccio, eppure in essi
ardeva un
fuoco a cui Tom reagì deglutendo, unico segnale del proprio
nervosismo.
Il
cellulare che aveva ancora stretto in mano vibrò per la
quarta volta e Sherlock
ruppe il contatto visivo solo per notare il nome e la foto che
lampeggiavano
sul touch-screen.
«Perché
dovresti ignorare Molly? Per quanto ne so, non è quello che
un fidanzato
premuroso come te dovrebbe fare», sentenziò con
una punta di acidità.
«No,
infatti, ma forse dovrei. A quanto pare ignorarla e fare lo stronzo
è l’unico
modo per ottenere il suo amore».
Sherlock
contrasse la mascella e strinse forte i pugni dietro la schiena, quindi
respirò
profondamente e in modo pacato replicò: «Molly ha
voltato pagina, io non sono
che un…».
«Oh,
tu credi? Beh, sei proprio un idiota allora».
Sherlock
strinse di nuovo i denti e guardando da un’altra parte
sibilò: «Provamelo».
«Okay».
Tom si appoggiò alla scala alle sue spalle ed
indicò il cappotto di Sherlock
con un dito, incrociando le braccia al petto. «Quando ci
siamo conosciuti, alla
festa di una nostra amica, io indossavo un cappotto praticamente
identico al
tuo. È stata la prima cosa che mi ha detto, dopo il suo
nome: “Che bel
cappotto!”. Io lo odio, quel dannato cappotto. L’ho
messo solo perché il mio
bomber era in tintoria. Ma ho continuato a portarlo per vederla felice,
pur
sapendo che le piaceva così tanto perché le
ricordava te».
Un
fascio di luce sul volto di Tom fece capire a Sherlock che Molly lo
stava
chiamando di nuovo. Era la quinta o la sesta volta?
«Questa
è solo una tua supposizione, non una prova», disse
con voce piatta. «Ora
rispondi e metti le cose a posto, Tom. O lo farò io, a modo
mio».
«Accomodati»,
rispose con un lieve sorriso sulle labbra. «Voglio proprio
vedere che cosa ti
inventerai. L’hai capito subito anche tu, quando ci siamo
presentati, che io
per Molly non ero altro che un tuo rimpiazzo. Devi accettarlo: Molly
non è
perfetta come credi».
La
pazienza di Sherlock aveva decisamente raggiunto il limite. Gli
saltò addosso,
pronto a colpirlo con un pugno, ma inspiegabilmente Tom lo
schivò e Sherlock
rischiò di perdere l’equilibrio e di cadere contro
la scala. Il ragazzo di
Molly provò a sorprenderlo alle spalle, senza riuscirci. Il
detective allora cercò
di strappargli il cellulare di mano, che nella successiva colluttazione
cadde a
terra, scivolando poco lontano da loro. Tom sapeva difendersi bene, al
contrario di ciò che Sherlock aveva previsto, e questo suo
errore gli costò una
dolorosa testata contro lo scaffale alla sua destra.
«Conosci
il detto “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”?
Per un po’, all’inizio della
nostra storia, è stato così. Tu eri lontano, ti
fingevi morto, e lei ha provato
a dimenticarti. Senza molto successo, ma almeno ci provava, lo voleva
davvero.
Da quando sei tornato… ha sempre la testa da un'altra parte,
esce di casa anche
nel cuore della notte se tu hai bisogno di lei al Bart’s. Lei
ti ha sempre amato,
Sherlock, e sempre lo farà», gli disse, tenendolo
fermo contro lo scaffale. «E
la cosa che mi fa più male non è questa, ma il
fatto che tu non sarai mai in
grado di darle un briciolo dell’amore che sarei in grado di
darle io. Perché
non la ricambi, perché probabilmente non sai nemmeno che
cosa vuol dire amare
una donna. Lei non sarà mai felice, con o senza di te.
È questo che mi fa più
male. Ho fatto di tutto perché lei… Quello
stupido cappotto…», Tom accennò una
risata tra le lacrime, allentando la presa fino a lasciar andare il
consulente
investigativo.
Sherlock
scivolò fino a quando non fu seduto a terra e si
tastò il sopracciglio destro,
sanguinante. Era confuso – altra sensazione che non gli
piaceva affatto provare
– e molto, molto triste.
«Non
riesco a capire», mormorò, osservandosi il sangue
sulle dita.
«Succede,
quando ti spacchi un sopracciglio».
«No.
Non riesco a capire perché Molly provi… Non ho
mai fatto nulla per…».
Tom
scrollò il capo e sospirò, abbattuto.
«Come dicevo, tu non sai niente
dell’amore».
Si
piegò per prendere il cellulare e si rese conto che prima di
cadere, nel bel
mezzo della lotta, uno dei due doveva aver accettato involontariamente
la
chiamata. Molly aveva sentito tutto.
«Mi
dispiace tanto, gattina», sussurrò nel microfono.
Si
infilò il cellulare nella tasca dei jeans e sorprese
Sherlock mentre lo fissava
accigliato. Gli porse una mano per aiutarlo ad alzarsi e il detective
l’afferrò, senza nemmeno sapere perché.
«Sarebbe
cambiato qualcosa, se non fossi tornato?», chiese a Tom, il
quale rimase in
silenzio per un paio di secondi; quindi sollevò un angolo
della bocca in un
sorriso triste:
«Le
avresti spezzato definitivamente il cuore».
***
«Oh
mio Dio, Sherlock, che ti è successo?». Mary si
alzò frettolosamente dalla
scrivania e lo raggiunse nel bel mezzo della sala d’aspetto,
tra i pazienti del
dottor Watson.
Senza
nemmeno permettergli di rispondere, gli esaminò il taglio
sul sopracciglio e
prendendolo per un braccio iniziò a trascinarlo verso lo
studio di John.
«Scusate,
è un’emergenza», disse rivolta ai malati
in attesa, prima di spingere Sherlock
oltre la porta.
«Cosa
diavolo –?!», esclamò John, sgranando
gli occhi.
Sherlock
roteò gli occhi al cielo e sbuffò innervosito,
allontanando le mani dei due
sposi. «Potete smetterla? Mi sono trovato con ferite ben
peggiori!».
«Fatti
medicare e raccontaci cosa è successo»,
ordinò John, prendendolo per le spalle
e facendolo sedere sulla propria sedia girevole.
Sherlock
sopportò senza fare una piega le cure del dottor Watson e
raccontò brevemente
quello che era successo con Tom. John e Mary continuavano ad
interromperlo, a
chiedere i dettagli della loro chiacchierata, ma il detective era
restio a
rispondere, in parte perché non aveva ancora tratto tutte le
conclusioni, in
parte perché si sentiva a disagio a parlare di sentimenti
che lo coinvolgevano
in prima persona.
Dall’isolamento totale si era ritrovato nel bel mezzo di un
triangolo amoroso. Lui, Sherlock Holmes. Com’era successo?
Non esistevano fasi
né passaggi intermedi e quindi non ne comprendeva le
logiche. Il suo cervello
stava andando in fumo, come un motore su di giri, e tutta quella
mancanza di
razionalità lo stava mandando nel panico.
Lanciò
un urlo frustrato, interrompendo John e Mary che avevano iniziato a
discutere
della vicenda senza che lui se ne rendesse conto. Per un attimo anche
il suo
cervello staccò la spina, grazie al silenzio, e Sherlock ne
approfittò per
alzarsi in piedi e correre via.
«John,
dovresti seguirlo», disse piano Mary, posandogli una mano
sulla guancia.
«Non
otterrei nulla. È… sconvolto? Sì,
credo sia così. Lasciamo che ci dorma sopra».
«Cosa
che non farà».
«Okay,
lasciamogli un po’ di tempo per elaborare. Passerò
da lui domani mattina,
promesso».
***
Molly
alzò gli occhi verso l’orologio appeso al muro in
salotto e si rannicchiò
ancora un po’ sotto la coperta. Era ormai mezzanotte e di Tom
nessuna traccia.
Dubitava fortemente che sarebbe rientrato, quella notte. Avrebbe
dormito da suo
fratello, o al massimo da Sam, ma di sicuro non si sarebbe steso al suo
fianco,
con il loro cane e Toby in fondo al letto.
Tirò
di nuovo su col naso e si passò un fazzoletto appallottolato
sotto gli occhi
stanchi.
Aveva
versato ormai tutte le sue lacrime, da quando aveva sentito –
per puro caso,
per errore, per tragica fatalità – ciò
che Tom aveva detto a Sherlock. Lui
aveva sempre saputo, l’aveva capito subito, e
l’aveva amata comunque. Aveva
provato a tirarla fuori dal fango di quell’amore impossibile
e a costruirne uno
vero, solido e al contempo leggero, sereno.
Quanto
avrebbe voluto dimenticarsi di Sherlock, quanto avrebbe voluto amare
Tom come
lui amava lei. Sarebbe stato tutto così bello! Ma lei era
Molly Hooper e non
era fatta per la felicità, ma per gli amori drammatici,
tragici,
irrealizzabili.
Il
cane che lei e Tom avevano adottato al canile, fino ad allora
accoccolato sul
tappeto davanti alla TV, si alzò sulle quattro zampe ed
iniziò a leccarle il
viso, uggiolando.
«Lasciami
stare, sono una persona orribile».
Il
cane abbaiò, come se volesse negare le sue parole, e Molly
si alzò dal divano
avvolgendosi la coperta intorno al corpo come un bozzolo. Spense la TV
e al
buio, seguita dal cagnolino, ciabattò fino in camera. Si
lasciò cadere sul letto
a peso morto, con la faccia immersa nel cuscino, e senza nemmeno
accorgersene
si addormentò.
***
«Uh-uh?
Sherlock, caro, posso?».
La
signora Hudson entrò nell’appartamento del
consulente investigativo col vassoio
del tè mattutino tra le mani e lo trovò
rannicchiato sul divano, stretto nella
sua vestaglia e con il violino posato sulla spalla.
«Sei
stato sveglio tutta la notte a comporre?», gli chiese
accennando agli spartiti
musicali sparpagliati ovunque, mentre lasciava il vassoio sul tavolino
accanto
alla poltrona.
«Mi
dispiace averla tenuta sveglia», disse, pizzicando
distrattamente una corda.
La
signora Hudson ridacchiò teneramente. «Oh, non
c’è problema caro. Alla mia età
è normale avere di questi problemi ed ascoltarti suonare
è sempre un piacere.
Era da tanto però che non ti capitava di comporre, vero?
È successo qualcosa di
particolare?».
Sherlock
si alzò di scatto dal divano, superò il tavolino
salendoci
sopra come suo solito e si fermò di fronte alla finestra.
«Grazie per il tè,
signora Hudson. Ora vada ad aprire a John».
La
padrona di casa non fece in tempo a chiedergli di ripetere che qualcuno
di
sotto suonò il campanello. Quindi iniziò a
scendere le scale, massaggiandosi
l’anca dolorante, ma John aveva già aperto la
porta dell’androne con il suo
paio di chiavi.
«Buongiorno
signora Hudson».
«Buongiorno,
caro. Se cerchi Sherlock, è di sopra». Si fece
più vicina e alzando gli occhi
verso le scale sussurrò in modo apprensivo: «Credo
non sia una delle sue
giornate migliori».
Il
dottor Watson sospirò, annuendo con il capo. «Lo
supponevo, in realtà».
«Cosa
gli è successo?».
«Probabilmente
ha capito di essere più importante di quanto credeva
– di nuovo – e non sa come
comportarsi».
«Beh,
allora è meglio che vi lasci in pace».
John
respirò profondamente per farsi coraggio e salì
le scale. Sherlock aveva
ripreso a suonare e il dottore non lo interruppe: si sedette sulla sua
vecchia
poltrona e con una mano di fronte alla bocca attese che finisse.
Aveva
composto una canzone malinconica, cosa che gli ricordò il
periodo in cui
avevano avuto il piacere – o la sfortuna – di
conoscere la donna, Irene Adler.
Aveva composto della musica anche per lei,
ma quella che stava suonando era molto diversa: sempre malinconica,
però anche dolce
e tranquilla, quel tipo di melodia che vorresti ascoltare quando tutto
va male
e vorresti un po’ di conforto, un po’ di pace.
Sherlock
si interruppe bruscamente proprio nel bel mezzo di una nota lunghissima
e si
voltò, probabilmente alla ricerca dello spartito giusto a
cui fare la
correzione a cui aveva appena pensato. Fu allora che lo notò
e ne fu davvero
sorpreso: capitava spesso che non si accorgesse della sua assenza,
raramente
che non si rendesse conto della sua presenza.
«Sono
arrivato solo cinque minuti fa», disse John sorridendo.
«Che
ci fai qui?».
«Buongiorno
anche a te».
Sherlock
lasciò il violino sopra il suo laptop e si
appollaiò sulla poltrona di fronte a
quella di John.
«Volevo
sapere come stavi», rispose alla fine il dottore, fissandolo
dritto negli occhi.
«Ieri ci sei sembrato un po’…
scosso».
«Non
ero scosso, ero solo infastidito
dal
fatto che Molly sia…».
«Innamorata
di te?».
Sherlock
lo fissò allibito per qualche secondo, per poi urlare:
«No! Dal fatto che Molly
mi abbia mentito e io non me ne sia minimamente accorto! Da quando ha
imparato
a farlo?».
«Da
quando è stata costretta a farlo per due anni per non
deluderti, suppongo».
Il
detective gli rivolse un’altra occhiata incredula. Due nel
giro di cinque
minuti, era una specie di record. In attesa che si ricomponesse e
dicesse
qualcosa, John si servì del tè, quello che la
signora Hudson aveva in teoria
portato su per Sherlock.
L’attesa
durò più del previsto e John si chiese se non si
fosse perso tra gli infiniti
corridoi del suo Palazzo Mentale, tanto da non riuscire più
a trovare la via
del ritorno.
«Sherlock,
dimentica quello che ho detto: Molly non ha imparato a mentire.
L’avevamo
capito tutti, che non aveva affatto voltato pagina. Anche tu, lo so. Ma
hai
preferito credere a quella bugia perché era la soluzione
più comoda per te. Ora
non puoi più far finta che il problema non ci sia: devi
affrontarlo e questo ti
spaventa, ma è okay, noi siamo qui se hai
bisogno…».
«John,
questo è un problema che non posso affrontare».
«E
perché no?».
«Perché
non posso far soccombere la ragione! Io considero l’amore
come un ostacolo,
pensavo lo sapessi!».
«Speravo
avessi cambiato idea, dopo…».
«Non
accadrà mai, John. Il mio lavoro è la cosa
più importante e al contempo la cosa
più pericolosa che ci sia, quindi anche volendo non potrei
mai rischiare di
mettere in pericolo Molly».
«Capisco.
No, aspetta un momento, che hai detto?». John gli rivolse un
sorriso un po’
malizioso e Sherlock deviò il suo sguardo, concentrandosi
sui cerotti alla
nicotina che si era appiccicato poco sopra entrambi i polsi.
«Non
potresti mai rischiare di mettere in pericolo Molly? Io sono stato in
pericolo
centinaia di volte e non hai mai pensato di allontanarmi da te,
perciò vuol
dire che lei è…».
«Non
cercare di dedurmi,
Hamish!», urlò
Sherlock infastidito, scatenando soltanto le risate del dottore.
«Almeno
ora sai come ci si sente».
«Tu
non capisci», mormorò, alzandosi dalla poltrona e
vagando per l’appartamento. «Molly
diventerebbe un bersaglio troppo facile non solo per i miei nemici, ma
anche
per la stampa. Come potrebbe affrontare una tale pressione
psicologica?».
«Se
l’è cavata egregiamente quando tutti ti credevano
morto suicida e ti gettavano
fango addosso».
«Era
una situazione completamente diversa».
«Va
bene, ma questo non cambia le cose: Molly Hooper è una
ragazza estremamente
coraggiosa». E a bassa voce, per non farsi sentire, aggiunse:
«Guarda
di chi si è innamorata…».
«Mycroft
non fa altro che dire che “coraggio” è
il sinonimo più gentile di
“stupidità”.
E Molly lo è sicuramente, dato che lascia sempre che il suo
cuore guidi la sua
testa».
«Forse
è per questo che potrebbe funzionare».
Sherlock
si voltò e sbatté più volte le
palpebre, confuso. «Che intendi?».
John
scrollò le spalle, alzando un po’ le mani.
«Intendo dire che sareste perfetti,
insieme: vi completereste a vicenda».
«Manca
solo la frase “Gli opposti si attraggono” e le hai
dette tutte», borbottò,
tornando a fissare Baker Street dalla finestra.
«Ma
è così, Sherlock! Molly è innamorata
di te così come sei! Se ti avesse
preferito diverso – dolce, premuroso, umano, con interessi
normali – allora
avrebbe scelto e riscelto Tom! Non capisci? Anche noi, anche io, Mary,
la
signora Hudson, Greg… ti vogliamo bene nonostante tutte le
tue stramberie e non
vogliamo che cambi. A volte sì, okay, ma hai capito il
concetto».
«Il
piccolo fan club degli amici dello psicopatico»,
mormorò e John immaginò che un
piccolo sorriso gli stesse increspando le labbra.
«Sociopatico iperattivo», lo
corresse
alzando un dito, ridacchiando. Poi gettò
un’occhiata all’orologio che portava
al polso e sospirò, alzandosi dalla poltrona.
«Devo
andare a fare alcune commissioni prima di iniziare il turno
all’ospedale».
Sherlock
non rispose, si limitò a riprendere in mano il proprio
violino.
Sulla
porta, John si voltò di nuovo verso l’amico e
aggiunse: «È vero che il tuo
lavoro è pericoloso ed è capitato molte volte che
i tuoi “nemici” cercassero di
arrivare a te tramite le persone che ti stavano vicino, ma guardaci:
stiamo
tutti bene. Tu ci hai sempre tirato fuori dai guai, lo fai sempre.
Molly non
corre alcun pericolo. Eccetto il tuo uso improprio del
frigorifero».
Sherlock
rimase in silenzio per una manciata di secondi, poi posò
l’archetto sulle corde
del violino e riprese a suonare. John sospirò e lo
lasciò solo con i propri
pensieri, sperando vivamente che il suo cuore, almeno quella volta,
fosse
abbastanza forte da buttare giù i muri del suo inaccessibile
Palazzo Mentale.
***
Molly
si stropicciò gli occhi e guardando la sveglia posata sul
comodino capì di
essersi svegliata ben prima del previsto: il suo turno iniziava alle
tre e
sperava di poter dormire un po’ di più, ma il
pensiero di Tom l’aveva spinta a
forza fuori dal mondo dei sogni.
Si
alzò, intontita da un cerchio alla testa, e si
trascinò fino in cucina per dare
da mangiare ai suoi due cuccioli. Non appena si trovò in
salotto però si
pietrificò: Tom era rannicchiato sul divano, con il cappotto
steso addosso come
una coperta.
Molly
si avvicinò senza far rumore, sentendo le lacrime bruciarle
nuovamente gli
occhi, e si sedette al suo fianco, allontanandogli il bavero di quello
stupido
cappotto dal viso. Quindi gli accarezzò lievemente una
guancia e si sporse su
di lui per posargli un bacio sulla tempia.
«Perdonami
Tom, perdonami», mormorò rimanendo appoggiata
contro di lui, con gli occhi
chiusi.
Il
ragazzo si svegliò e lentamente si stese supino, accogliendo
Molly tra le sue
braccia. Lei non si ritrasse: sapeva che quella sarebbe stata
l’ultima volta e
voleva goderne ogni istante.
«Mi
sono comportato come un vero stupido», biascicò,
accarezzandole teneramente i
capelli sulla nuca. «Non avrei dovuto cercare di renderti
felice somigliando a
Sherlock, ma mostrandoti quanto io fossi migliore, in certi aspetti. Io
non
sarò mai come lui».
«Tom…».
«Shh,
tranquilla», le sussurrò, sollevandosi un poco per
poterle accarezzare il viso.
«Non avrebbe potuto funzionare comunque, prima o poi ce ne
saremmo accorti.
Meglio prima, non credi?».
«No,
Tom, possiamo ancora…».
«Non
essere sciocca», le rivolse un sorriso tenue, sistemandole
amorevolmente una
ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Io ci
sarò sempre per te, quando avrai
bisogno di un amico. Non sono più arrabbiato,
solo… vorrei davvero che tu fossi
felice».
Quella
volta ad accennare un sorriso fu Molly: «Forse non ci sono
portata, alla
felicità».
Tom
la strinse ancora una volta a sé, fino a quando la ragazza
non gli chiese se
volesse una tazza di caffè.
«Magari
più tardi. Adesso ho proprio bisogno di una
doccia». Si alzò a fatica,
reggendosi a malapena sulle gambe indolenzite, e molto lentamente si
diresse
verso il bagno.
«Entro
il fine settimana tornerò dai miei e poi
contatterò il mio vecchio padrone di
casa, anche se dubito che il mio appartamento sia ancora
libero», concluse, per
poi sparire in corridoio.
Molly
si portò una mano sul cuore, che aveva iniziato a batterle
in modo doloroso nel
petto, e sospirò per farsi coraggio. Lo raggiunse quasi di
corsa, fermandolo
giusto un momento prima che si chiudesse in bagno.
«Non
c’è fretta, lo sai? Non mi dispiacerebbe affatto,
condividere questo
appartamento con qualcuno. Noi ci conosciamo già,
sarebbe…».
«Impossibile»,
terminò la frase per lei, sorridendole in quel modo triste
che le spezzava il
cuore ogni volta. «Almeno per me: non lo
sopporterei».
«Oh.
Ma sì, certo, scusami se…».
«Molly,
devi promettermi una cosa». Le prese il mento tra le dita e
fissò gli occhi nei
suoi, così intensamente che Molly dovette trattenere il
respiro per non
incominciare a tremare.
«Devi
promettermi che non permetterai più a Sherlock Holmes di
prenderti in giro o di
usarti solo per i suoi scopi. E che ce la metterai tutta per
conquistarlo, se è
lui che vuoi».
«Con-conquistarlo?»,
balbettò, incredula. «E come potrei, Tom, lui
è –».
«Io
starò bene, tra qualche tempo, ma tu devi pensare alla tua
felicità. Dio solo
sa come lui potrebbe renderti felice, ma devi mettercela tutta,
okay?».
Molly
annuì, ancora titubante.
«Promettimelo».
«Te
lo prometto».
Tom
sorrise e l’attirò a sé per strapparle
un ultimo bacio sulla bocca, poi si
chiuse in bagno.
***
«Eccolo
qua, Hetty. Hai mai avuto problemi con questo?». Molly
posò delicatamente il
cuore di Hetty nella vaschetta sterilizzata della bilancia e dopo
essersi tolta
i guanti di gomma prese la penna per registrarne il peso.
«Intendo
sentimentalmente. Il tuo sembra un cuore sanissimo e da quello che dice
il mio
dottore, anche il mio lo è. Sto parlando d’amore.
Tu eri sposata, Hetty. Amavi
tuo marito? O l’hai sposato solo perché era la
migliore alternativa dopo quello
che era il tuo vero ed impossibile amore?». Posò
gli occhi sul corpo immobile
di Hetty, steso sul freddo tavolo delle autopsie. «Beh, penso
non faccia molta
differenza ora», mormorò sospirando.
Molly
si infilò un nuovo paio di guanti per iniziare ad esaminare
in modo più
approfondito il cuore di Hetty, quando con la coda
dell’occhio scorse la porta
dell’obitorio aprirsi. Sperava di non vederlo per almeno
qualche giorno, dopo
tutto quello che era successo con Tom, ma ancora una volta il destino
aveva deciso
di remarle contro.
«Ciao
Sherlock», lo salutò mettendosi su la sua maschera
preferita, quella del
“non-è-successo-niente-sto-benissimo”.
«Molly»,
si limitò a dire, avvicinandosi al tavolo con le mani unite
dietro la schiena.
Osservando in lungo e in largo il cadavere che li divideva, le chiese
in modo
pacato: «Tutto bene?».
«Sì,
grazie. Tu che hai fatto al sopracciglio?».
«Niente
di cui preoccuparsi», rispose Sherlock, per poi posare i suoi
occhi di ghiaccio
sul cuore rimasto sul piatto della bilancia.
Il
suo silenzio la metteva a disagio, per questo molte volte si imbarcava
in
conversazioni che risultavano un completo disastro. Quella volta
però rimase in
silenzio, ripensando a ciò che aveva sentito la sera prima,
quando aveva
provato a telefonare a Tom, e a quello che Tom stesso le aveva detto
quella
mattina.
Sherlock
si rese conto del suo sguardo ed ebbe quasi la tentazione di chiederle
perché
lo stesse fissando, ma non appena aprì la bocca si
ritrovò senza voce. Perciò
finse di dover tossire e per prendere tempo indicò la donna
di fronte a lui.
«Causa
della morte?».
«Annegamento».
«Mmh…».
Molly
aggrottò le sopracciglia. «Tutto qui?».
Sherlock
ricambiò il suo sguardo. «Tutto qui
cosa?».
«Non
vuoi sapere se è stato un omicidio, un suicidio o un
incidente?».
«Non
sono venuto qui alla ricerca di un nuovo caso».
«No?».
Sherlock
capì di essere stato incastrato e ne fu infastidito, ma
provò anche una sorta
di eccitazione: Molly lo stava sfidando, senza nemmeno saperlo, e
quella sfida
era qualcosa che andava oltre ogni sua immaginazione. Anche per questo
ne era
attratto, nonostante la sua pericolosità.
Si
schiarì la voce e pensò di aggirare il tavolo
delle autopsie per cercare un
contatto visivo ancora più diretto, ma ci
rinunciò: meglio tenere le distanze,
almeno fino a quando non avrebbe saputo decifrare la sua reazione.
«Mi
chiedevo se volessi… Sì, se
volessi…».
«Ne
abbiamo già parlato, Sherlock: non sono brava a farti da
assistente e poi ho un
sacco di lavoro arretrato e…».
«No,
volevo chiederti se ti piacerebbe cenare insieme, stasera»,
disse quasi tutto
d’un fiato, sentendosi stranamente sia nervoso che trepidante.
Molly
strinse più forte la penna nella mano e si
concentrò su ciò che c’era scritto
sul foglio che stava compilando, senza capire una parola di
ciò che leggeva. Le
parole di Tom continuavano a rimbombarle nelle orecchie: «Devi
promettermi che non permetterai più a Sherlock Holmes di
prenderti in giro o di usarti solo per i suoi scopi».
«Allora?»,
chiese Sherlock, nascondendosi inconsciamente sotto il bavero del suo
cappotto.
Molly
sbatté la cartelletta sul ripiano accanto alla bilancia e
sospirò,
massaggiandosi una tempia. «Senti, Sherlock… Se
hai bisogno di qualcosa, te
l’ho già detto, non devi fare altro che chiedere.
Perciò smettila, non c’è
bisogno di alcuna… ricompensa».
Sherlock
la fissò per qualche secondo, poi le diede le spalle e senza
voltarsi più
indietro uscì dall’obitorio.
***
John
salì le scale due a due, sorpreso di non trovare in casa la
signora Hudson, e
trovando la porta dell’appartamento chiusa, bussò.
Non ottenne alcuna risposta,
perciò, preoccupato, usò il suo vecchio mazzo di
chiavi – Sherlock aveva
insistito perché lo tenesse per ricordo – ed
entrò.
Nel
salotto e in cucina c’era la solita confusione di sempre, ma
nessuna traccia di
Sherlock, anche se… John respirò profondamente e
fu come se un peso gli fosse
appena caduto sulle spalle.
«Sherlock!»,
urlò.
Camminò
a passo spedito verso la camera da letto del detective e
spalancò la porta
senza porsi troppi problemi. Scoppiò a tossire e gli occhi
iniziarono a
bruciargli. L’odore di fumo aveva impregnato la stanza e ci
sarebbero voluti
giorni di aerazione perché svanisse – la signora
Hudson non l’avrebbe affatto
gradito.
«Sherlock…»,
sospirò esasperato, agitandosi una mano di fronte al viso ed
avvicinandosi al
detective.
Era
sdraiato in maniera scomposta sul suo letto, con un posacenere pieno di
mozziconi a portata di mano e diversi pacchetti vuoti abbandonati per
terra,
del tutto incurante di ciò che lo circondava.
Gli
strappò dalle labbra la sigaretta che si era appena acceso e
lo guardò
severamente, nonostante lui non lo degnasse minimamente della propria
attenzione.
«Non
posso credere che tu l’abbia fatto! Non dopo tutto il tempo
che ti ci è voluto
per –!», si interruppe, leggendo la totale apatia
sul viso dell’amico. «Che
cos’è successo, Sherlock?».
«Ho
chiesto a Molly se voleva cenare con me, questa sera».
«Ah…
Come scusa?».
«Non
mi ha preso sul serio, credeva volessi qualcosa in cambio. È
così che ragionano
le persone innamorate, John?».
«No,
è così che… ragioni tu
con lei, di
solito», rispose, abbassando il capo.
Sherlock
si mise a sedere e lo fissò con gli occhi iniettati di
sangue. «Non da quando
ha rischiato tutto pur di aiutarmi!».
«E
gliel’hai detto, questo?».
«Certo
che no!».
«Perché
no?».
«Avrebbe
già dovuto capirlo da sola».
Il
cellulare di John iniziò a suonare e Sherlock lo
fissò, sollevando le
sopracciglia. Il dottore lo tirò fuori dalla giacca e rimase
a guardare il
display per qualche secondo, in silenzio.
«Non
rispondi?», gli domandò il consulente
investigativo.
«No,
non adesso». Respinse la chiamata e si avvicinò a
Sherlock per posargli una
mano sulla spalla. «Posso aiutarti in qualche
modo?».
Sherlock
si alzò, con la testa che gli girava a causa del troppo
fumo, e barcollò verso
la scrivania. Consegnò a John i pacchetti di sigarette che
non aveva ancora
fumato. Li fissò tra le mani dell’amico, poi il
suo volto si illuminò come se
si fosse appena ricordato una cosa importante e si gettò a
terra, con una mano
sotto al letto. Tirò fuori una stecca ancora chiusa, gli
lasciò anche quella
tra le braccia e per ultimo si diresse verso l’armadio per
ficcarci dentro la
testa ed estrarne una seconda.
«Sono
tutte», gli disse, rivolgendogli un breve sorriso di scuse.
John
si guardò le braccia e poi, inarcando un sopracciglio,
chiese: «Sicuro?».
Sherlock
annuì, ma poi cambiò idea e sollevò il
cilindro che aveva indossato al
matrimonio di John, sotto il quale c’era l’ultimo
pacchetto di sigarette.
Il
dottore gli diede una pacca sul braccio. «Apri le finestre,
non si respira qui
dentro».
***
John
bussò alla porta del laboratorio di analisi ed
infilò dentro la testa.
Molly
si illuminò non appena lo vide e gli corse incontro, il viso
contratto in una
smorfia di angoscia e dispiacere.
«John,
menomale che sei venuto! Hai sentito
Sherlock, per caso?».
«Vengo
direttamente da casa sua», le rispose sospirando.
Molly
si morse il labbro. «Credo di non averlo capito, non questa
volta».
«Già, lo credo anche io».