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Autore: _Pulse_    11/01/2014    2 recensioni
Ovviamente non aveva un piano. E odiava non averne. Odiava non sapere, odiava affrontare le cose alla cieca.
Prima di uscire dall’ospedale gli venne in mente un’idea, una cosa che forse aveva sentito alla TV o che forse la signora Hudson gli aveva detto. Non faceva poi molta differenza.
Quindi uscì, alzandosi il bavero del cappotto con una mano e constatando che stava iniziando a cadere una pioggia sottile e fredda.
Si avvicinò a Molly fino a quando lei non si accorse della sua presenza. Lo notò dagli occhi sbarrati e dal rossore che si impadronì delle sue guance, nonostante avesse il viso ancora rivolto verso il cemento, lì dove c’erano le sue scarpe.
Le porse il bicchiere di cioccolata che aveva preso alla macchinetta nella sala d’aspetto e Molly alzò di scatto il viso, urlando quasi: «So benissimo che non sei Sherlock, Tom, e mi dispiace averti –». Si interruppe bruscamente, rendendosi conto di chi avesse di fronte.
«Sherlock», balbettò.
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Brain and Heart'
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Buongiorno!
Mi rendo conto che la mia presenza su EFP è una rarità ormai, ma la verità è che sto scrivendo veramente poco e mi dispiace tantissimo! Anche per questo oggi mi sento così euforica nel pubblicare questa piccola-non-tanto-piccola one-shot. La mia seconda one-shot su Sherlock.
È stata scritta in parte prima di aver visto il 3x02, in parte dopo, ma ho cercato di mantenermi sull’onda d’ispirazione che mi ha portato il primo episodio, senza lasciarmi troppo coinvolgere dal matrimonio di John, eccetera. Questo per chiarire il fatto che il personaggio di Tom ha una mia personalissima caratterizzazione (diversa da quella che ho colto io nel 3x02).
Potrebbero anche esserci dei riferimenti alla mia one-shot precedente, ma non fondamentali.
Detto questo, spero che vi piaccia e di non essere andata troppo OOC con il personaggio di Sherlock. (Per chi ancora non lo sapesse, tremo letteralmente al pensiero di snaturare un personaggio incredibile come il suo). Sono ben accetti consigli e critiche, ovviamente!
Un grazie in anticipo a chi leggerà ;)

NB: I personaggi appartengono ai loro autori e questo scritto non ha alcuno scopo di lucro.

 

_Pulse_

 

____________________________________________________

 

 

 

That stupid coat

 

 

Molly, con due grossi e pesanti raccoglitori tra le braccia, dovette spingere la porta del laboratorio con una spalla ed entrarvi un po’ alla cieca, sperando di non inciampare in niente o, ancora peggio, in nessuno.
Raggiunse il tavolo delle analisi sana e salva e quando si liberò dei due faldoni notò il cappotto posato sullo schienale di metallo dello sgabello di fronte al microscopio.
Il suo cuore saltò un battito, poi cercò di recuperarlo aumentando il ritmo, ma fu del tutto inutile: il sangue le era già esploso come fuoco nelle vene, la sua sensibilità era almeno quintuplicata, rendendo incontrollabili i suoi stessi pensieri, e quando la porta del laboratorio si aprì commise un grande errore.

Si voltò di scatto ed esclamò, fingendosi sorpresa: «Sherlock!».

La sorpresa, però, fu per lei, e fu anche abbastanza dolorosa. Alla porta c’era Tom, il suo attuale fidanzato, col sacchetto del pranzo che quella mattina le aveva così premurosamente preparato e che lei si era dimenticata a casa.
La sua espressione delusa e ferita si scolpì nella sua mente e le spezzò il cuore, causandole un dolore tale che faticò a capire tutte le parole del suo discorso.

«Sono solo io, solo Tom», iniziò accennando un sorriso debole, per poi passarsi una mano tra i ricci neri ed abbassare gli occhi sul sacchetto che aveva tra le mani. «Di sotto mi avevano detto che eri qui, ma non ti ho trovata e allora ho pensato che magari eri già in mensa, così ho chiesto dove fosse e sono passato di là. Non c’eri, quindi sono tornato di nuovo qui, dicendomi che magari avevi da fare. Ti avrei lasciato il pranzo sulla scrivania, con un biglietto. Nel caso credessi che te lo avesse lasciato Sherlock, sai».

Molly chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo prima di iniziare delle scuse che nemmeno volendolo sarebbe mai riuscita a concludere: «Tom, perdonami, io…».

«No», la interruppe bruscamente, andandole incontro con passo deciso. Le schiaffò il sacchetto del pranzo sul tavolo e si sporse per prendere il cappotto sullo sgabello, quel cappotto così simile a quello di Sherlock, quello che lei aveva di fatto scambiato per quello di Sherlock.
Tom rimase per un attimo con la bocca vicino al suo orecchio e Molly pensò di sentire il freddo gelido delle sue parole piene di rancore penetrarle il cranio, ma non fu così.
«Perché continui a farti del male, gattina?», le domandò sussurrando, nel modo più dolce e triste che Molly avesse mai sentito. Le sembrava di essere la protagonista di una puntata strappalacrime di Grey’s Anatomy.

Tom alzò una mano per accarezzarle la guancia, ma all’ultimo momento ci ripensò e lasciò Molly da sola nel suo laboratorio, col suo pranzo freddo e gli occhi chiusi colmi di lacrime che non avrebbero mai solcato le sue guance.

 

***

 

«Ho bisogno di vedere di nuovo quel cadavere. Andiamo al Bart’s», esclamò Sherlock con quel suo modo di fare imperioso: non lo stava chiedendo, lo stava ordinando.

«Una prima occhiata non è bastata? Questa sì che è nuova», disse John, facendo storcere il naso a Sherlock e strappando un sorriso a Lestrade, il quale non aveva posto alcuna obiezione all’ordine del consulente investigativo; anzi, era stato il primo ad alzarsi.

Dieci minuti dopo si aggiravano già per i corridoi dell’obitorio, alla ricerca di Molly, la quale sembrava letteralmente scomparsa: nessuno tra i suoi colleghi sapeva dire dove fosse andata né perché, ma alla fine trovarono una giovane infermiera un po’ più informata. Raccontò loro di aver incontrato il suo fidanzato, il quale si era rivolto a lei per chiederle dove fosse la mensa.

«Un tipo carino, col suo stesso cappotto!», ridacchiò di fronte a quella coincidenza, cosa che irritò Sherlock tanto da fargli cercare lo sguardo di John, il quale si coprì la bocca con una mano per nascondere un sorriso divertito ed annuì, raccomandandogli silenziosamente di non farsi riconoscere come suo solito.

Sherlock si sforzò immensamente e riuscì persino a tirar fuori un sorrisino, chiedendole candidamente: «Sa per caso perché la stesse cercando?».

«Credo le avesse portato il pranzo e che sì, insomma, volesse stare un po’ con lei, se capisce cosa intendo», gli strizzò l’occhio e quella volta Lestrade non riuscì a trattenersi e dovette tapparsi la bocca e voltarsi verso John per non scoppiare a ridere.

L’infermiera iniziò ad arrotolarsi una ciocca di capelli biondi intorno all’indice e continuò: «Magari ce l’avessi io un ragazzo così premuroso! E invece mi devo accontentare del cibo dell’ospedale… Lo eviterei volentieri, se trovassi la giusta compagnia, sa?».

Sherlock rimase a fissarla per qualche secondo, con quella sua espressione da scanner in funzione. La ragazza iniziò a sentirsi a disagio di fronte a quegli occhi di ghiaccio e lanciò una silenziosa richiesta d’aiuto ai due uomini alle spalle del detective.

John  e Greg sapevano fin troppo bene che cosa sarebbe successo di lì a poco: Sherlock avrebbe iniziato ad elencare tutto ciò che aveva scoperto su quell’infermiera soltanto guardandola, compresi i fatti imbarazzanti – soprattutto quelli – che l’avrebbero fatta scoppiare a piangere oppure cadere in crisi depressiva, per poi concludere con un gentile rifiuto alle sue avances.

John, impietosito, sospirò e fece un passo avanti per posare una mano sulla bocca già aperta di Sherlock.
«Grazie signorina, è stata molto gentile a dedicarci un po’ del suo tempo. Buona giornata», si congedò, trascinando Sherlock con sé.

«Perché l’hai fatto?», domandò Sherlock contrariato, una volta libero dalla morsa dell’amico.

«Perché avresti detto qualcosa di poco carino».

«Se anche per te una malattia venerea è qualcosa di poco carino, allora hai ragione. Ma se gliel’avessi detto l’avrebbe curata prima, il che sarebbe stato un bene, vero dottore?».

John si fermò e lo guardò incredulo, cercando anche il sostegno dell’ispettore di polizia. «E come avresti fatto a diagnosticare una malattia venerea solo guardandola?!».

Sherlock gli rivolse un piccolo sorriso compiaciuto prima di spalancare con entrambe le mani le porte del laboratorio d’analisi. Si fermò di fianco al tavolo con il microscopio e vide il camice bianco di Molly abbandonato sullo sgabello. Lo prese per il colletto e con l’altra mano accarezzò la parte interna dell’indumento, sotto gli sguardi confusi di John e Greg.

«È ancora caldo, non l’ha tolto da molto», spiegò infine, per poi rivolgere la propria attenzione al sacchetto di carta abbandonato poco più in là.

«Deve essere il pranzo che le ha portato Tom», disse John, avvicinandosi per esaminarne il contenuto. Sherlock allora chiuse in fretta il sacchetto e glielo ficcò tra le mani con ben poca delicatezza, borbottando:
«Non è stato toccato. Che cosa ne deducete? Io ho sette soluzioni possibili. Okay, sei. È ridicolo che Molly non mangi il proprio pranzo solo perché le dispiace disfare quel… capolavoro».

John, ancora più incuriosito, aprì il sacchetto e tirò fuori la ciotola di plastica in cui era conservata una porzione di riso con le verdure. Era stato appiattito con una forchetta e molto accuratamente Tom ci aveva scritto sopra “Ti amo” con quella che sembrava proprio salsa al tonno.

«Oh, ma questo è veramente… dolce», disse Lestrade, passandosi una mano sul collo con fare imbarazzato.

«Sto aspettando. E le mie teorie sono aumentate, invece che diminuire. Non va bene, non va bene», continuò a borbottare Sherlock, camminando avanti e indietro fiancheggiando il lungo tavolo.

«Io ne ho solo due», disse John, sollevando le spalle.

Sherlock si voltò di scatto, guardandolo come se avesse appena detto qualcosa di inconcepibile. Forse ciò che gli dava fastidio era che quando si trattava di Molly tutti sembravano più intelligenti ed intuitivi di lui, anche se dopo la sua finta morte e i due anni di isolamento aveva già fatto moltissimi progressi.

«La prima è… diciamo che lei e Tom non avevano molta voglia di mangiare e…».

Lestrade deglutì rumorosamente e lo fermò agitando una mano: «Oh, oh, okay John, sia io che Sherlock abbiamo capito il concetto. Vero Sherlock?».

Il detective incrociò le braccia al petto e rivolgendo ai due un cenno d’assenso si diresse verso la finestra.
«Improbabile, ma non impossibile», mormorò perché John non lo sentisse.

«La seconda è che magari hanno litigato. Entrambe le due teorie spiegano la perdita dell’appetito, in un modo o nell’altro».

Il silenzio regnò sovrano per diversi istanti, poi finalmente Sherlock disse: «John, vieni qui».

Il dottor Watson e l’ispettore Lestrade si scambiarono uno sguardo, poi raggiunsero Sherlock alla finestra e scorsero Molly appoggiata contro il muro di mattoni che divideva la strada dalla fermata delle ambulanze, gli occhi bassi e le mani nascoste nelle maniche del giubbotto.

Greg sospirò. «Penso che sia la seconda teoria quella esatta».

John annuì e gettò uno sguardo verso Sherlock per capire che cosa gli passasse per la testa, quando il consulente investigativo si diresse a passo spedito verso la porta, senza dare alcuna spiegazione.

«Credi anche tu che lui…?».

John osservò l’allibito ispettore Lestrade ed annuì di nuovo, anche se incerto sulle probabilità di riuscita del piano. Sempre che Sherlock ce l’avesse, un piano.

 

Ovviamente non aveva un piano. E odiava non averne. Odiava non sapere, odiava affrontare le cose alla cieca.

Prima di uscire dall’ospedale gli venne in mente un’idea, una cosa che forse aveva sentito alla TV o che forse la signora Hudson gli aveva detto. Non faceva poi molta differenza.
Quindi uscì, alzandosi il bavero del cappotto con una mano e constatando che stava iniziando a cadere una pioggia sottile e fredda.

Si avvicinò a Molly fino a quando lei non si accorse della sua presenza. Lo notò dagli occhi sbarrati e dal rossore che si impadronì delle sue guance, nonostante avesse il viso ancora rivolto verso il cemento, lì dove c’erano le sue scarpe.
Le porse il bicchiere di cioccolata che aveva preso alla macchinetta nella sala d’aspetto e Molly alzò di scatto il viso, urlando quasi: «So benissimo che non sei Sherlock, Tom, e mi dispiace averti –». Si interruppe bruscamente, rendendosi conto di chi avesse di fronte.

«Sherlock», balbettò.

Odiava anche sentirsi a disagio. Era un demone con cui aveva combattuto sin dalla più tenera età, riuscendoci così bene da diventare inconsapevolmente lui stesso quel demone: era lui a provocare il disagio tra la gente, ed era molto più facile così.

A fatica, le rivolse un sorriso. «Ho sentito dire che il cioccolato tira su di morale. Non che io ci creda particolarmente, anzi non ci credo affatto, però…».

«Sherlock, che cosa…?». Molly, esausta, si staccò dal muro e si coprì la testa con il cappuccio. «Devo tornare al lavoro, la mia pausa pranzo è finita da un pezzo».

Si allontanò senza aggiungere altro e Sherlock rimase a guardarla, assorto nei propri pensieri, fino a quando un’ambulanza a sirene spiegate non rischiò di investirlo.

 

***

 

Sherlock non faceva altro che fissarla da quando erano rientrati. Probabilmente la stava deducendo, come piaceva fare a lui. Ma non doveva avere molto successo, visto che erano dieci minuti buoni che continuava a gettarle occhiate mentre esaminava il corpo che le aveva chiesto di tirare fuori dalla propria cella frigorifera.

Molly non riusciva in alcun modo a spiegarsi che cosa volesse fare con quel bicchiere di cioccolata calda. A dir la verità la parte di cervello direttamente collegata al suo cuore aveva già elaborato una bella e romantica teoria, troppo bella per essere vera. Troppo crudele, dopo quello che Tom le aveva detto. Perciò stava cercando di non pensarci, ma con gli occhi di Sherlock sempre pronti a cogliere il significato di ogni suo gesto – anche quello più apparentemente insignificante – non aveva molto successo.

«Quando avete finito chiamatemi», esclamò ad un tratto, interrompendo i mugugni pensierosi di Sherlock, il quale sollevò gli occhi e le chiese frettolosamente: «Dove vai?».

«Di sopra, ho del lavoro da fare».

E senza dargli il tempo di ribattere, uscì dall’obitorio tirando un tremante sospiro di sollievo.

 

***

 

«Sherlock».

«Mmh?».

«È andato decisamente male il tuo tentativo, eh?».

Il detective guardò John e mugugnò. Quant’era difficile per lui ammettere un fallimento, lo sapevano tutti ormai.

«Dovresti parlarci tu», disse sorprendendo sia lui che Lestrade.

«Io? E perché?».

«Perché tu sei più bravo con le donne. Sei sposato».

«Ehi, lo sono stato anche io», si intromise Lestrade.

«Appunto, lo sei stato. Vuol dire che non eri proprio bravo a…».

«Okay, okay», disse John, mitigando tra i due. «Proverò a parlarci».

«Vai subito».

«Subito?».

«E quando altrimenti?».

«È molto probabile che non voglia parlarne con nessuno, ora».

Sherlock si sollevò e si posò una mano sul fianco, mentre con l’altra si grattò la testa spazientito. «Tu provaci. E se non ci riesci, provaci ancora. Ora vai, non riesco a concentrarmi se non risolvo questa… cosa».

«Come vuoi. Ma non ti assicuro –».

«Vai!».

 

John bussò alla porta del laboratorio d’analisi e trovò Molly con una provetta in mano, intenta ad osservarne il contenuto.

«Ti disturbo?».

«Entra pure, John».

Il dottore si avvicinò al tavolo e temporeggiò, guardandosi un po’ intorno.

«Allora», esclamò lei, «Come va la vita coniugale?».

«Benissimo. Io e Mary siamo molto, molto felici. Tu e Tom, invece?».

Molly mise a posto la provetta catalogata e si appoggiò al tavolo con entrambe le mani, guardando John con occhi supplichevoli. «Dimmi che non è Sherlock che ha dedotto qualcosa e vuole saperlo».

«In realtà… sono stato io a suggerirgli che forse tu e Tom avete litigato. Abbiamo saputo che è venuto qui durante la tua pausa pranzo e…».

«Oh mio Dio, avete anche visto il...?».

«Sì, mi dispiace. Sherlock non ha fatto commenti in proposito, se ti fa stare meglio».

«Non mi interessano i commenti di Sherlock. Cioè, sì, certo che mi interessano, ma non nel senso… Vorrei solo…». Molly sospirò, affranta, e scosse il capo prima di tornare al lavoro. «Dì a Sherlock che sto bene e di non…».

«Preoccuparsi?», concluse la frase per lei, sorridendole dolcemente. «È strano, ma da quando è tornato sembra un po’ più umano a tutti. E sì, credo che sia preoccupato per te; più di quanto tu ed io possiamo immaginare».

Molly, rossa come un peperone, abbassò il volto ed aspettò che John uscisse dal laboratorio, prima di passarsi le mani sul volto e ricomporsi. Doveva pensare solo al lavoro.

 

***

 

Non appena vide John rientrare nell'obitorio, Sherlock si sollevò di scatto dal freddo tavolo per le autopsie su cui si era steso nell'attesa. Un immagine che fece venire la pelle d'oca al dottore.

«Sei riuscito a farla parlare?», gli chiese.

«No», rispose sospirando. «Mi ha detto di dirti che sta bene e che non devi preoccuparti».

«Preocc–?». Sherlock strabuzzò gli occhi e saltò giù dal tavolo, sistemandosi la sciarpa blu intorno al collo. «Non essere ridicolo, John».

Il dottor Watson si voltò verso Lestrade, il quale scrollò le spalle prima di seguire a ruota Sherlock, già fuori con le mani infossate nelle tasche del cappotto.

Il detective controllò con la coda dell’occhio che John fosse qualche passo dietro di loro e si fece più vicino a Greg per bisbigliare: «Tu sai dove lavora Tom?».

L’ispettore lo guardò a bocca aperta. «Sul serio? Che hai intenzione di fare?».
Persuaso dall’occhiata tagliente che gli riservò, Greg finse di tossire borbottando: «E va bene. In fondo quel tipo non mi è mai piaciuto».

Sherlock sorrise soddisfatto ed esclamò, voltandosi verso John: «Mi sono appena ricordato di un impegno che avevo preso con Mycroft. Ci vediamo!».

«E il caso? Lo lasci a metà?», chiese il dottore, stupito.

«Quasi risolto! E lo sai che io non lascio mai niente a metà». Gli diede le spalle e con poche rapide falcate sparì dietro l’angolo.

John raggiunse Greg e lo osservò digitare rapidamente sulla tastiera del proprio cellulare.

«A chi scrivi?».

«Ad un collega. Per avvisarlo che Sherlock è a buon punto, ecco».

 

Bip bip.

Senza fermarsi, Sherlock tirò fuori il cellulare e lesse l’indirizzo che Lestrade gli aveva appena inviato. Accennò un sorriso ed alzò una mano per fermare un taxi.

Il gioco era ufficialmente iniziato.

 

***

 

Molly si fece largo tra gli altri passeggeri e con molta fatica riuscì a scendere dal treno. Quindi si sistemò la tracolla della borsa sulla spalla e prese le scale mobili per uscire dalla metropolitana.
Aveva ripreso a piovere, ma quella mattina oltre al pranzo aveva anche dimenticato l’ombrello, perciò si mise a correre.

Arrivò a casa bagnata fradicia e di pessimo umore, che non fece altro che peggiorare quando si rese conto dell’inusuale silenzio che regnava tra le mura dell’appartamento che da un anno a quella parte divideva con Tom, il loro cane e Toby, il suo gatto. Quest’ultimi non andavano proprio d’amore e d’accordo, ma avevano imparato a convivere. Cosa che lei non era ancora riuscita a fare con il suo insensato amore per Sherlock. E oggi, più che mai, aveva avuto la prova inconfutabile che non ci sarebbe mai riuscita.

Se avesse davvero voltato pagina come aveva detto più volte ai suoi amici quando aveva presentato loro Tom, allora non avrebbe dovuto pensare a Sherlock non appena aveva visto quel cappotto, ma a lui.
Se avesse davvero voltato pagina, non avrebbe mai accarezzato i ricci neri di Tom chiedendosi se anche i capelli di Sherlock fossero così sottili e setosi sotto le dita.
Se avesse davvero voltato pagina, alla festa di quella sua amica di vecchia data non avrebbe indicato Tom tra gli invitati appena entrati, chiedendole di presentarglielo.

Non appena lo aveva visto, infatti, per un attimo l’aveva confuso per Sherlock, soprattutto vedendolo di spalle. Poi i suoi occhi scuri le avevano fatto tremare il cuore. 
Aveva scelto Tom perché somigliava a Sherlock, ma era anche il suo opposto. Cercava in lui l’amore che non avrebbe mai ottenuto e solo ora se ne rendeva conto: si era comportata in modo meschino, egoistico, e Tom non se lo meritava affatto.

Sherlock si era sbagliato: era Tom che si meritava solo il meglio e tutta la felicità del mondo, non lei. 
Tom l’aveva amata così com’era, l’aveva ascoltata parlare di Sherlock per ore ed ore e le era sempre stato accanto. Lei, al contrario, l’aveva sfruttato per illudersi che la “bella” copia di Sherlock l’amasse.

Se solo l’avesse capito prima del suo ritorno, se solo si fosse resa conto che lei non poteva fare a meno di amare lo Sherlock originale… avrebbe evitato tutto quello, avrebbe risparmiato del dolore a Tom.
Avrebbe continuato a vivere da sola con il suo gatto, con le sue fantasie, i suoi telefilm preferiti e i cadaveri nel suo obitorio. Ma almeno sarebbe andata a dormire serenamente, con la coscienza pulita. Ora difficilmente si sarebbe perdonata, difficilmente avrebbe pensato di meritarsi qualcosa di più della sua vita prima di Tom.

Tirò fuori dalla borsa il cellulare e guardò la foto di lei e Tom abbracciati che aveva come sfondo, poi lo chiamò. Le sembrò di attendere per ore, prima che si attivasse la segreteria telefonica. Ma lei, ancora con addosso il giubbotto, appoggiata alla porta di casa, continuò a provare. Aveva bisogno di parlargli.

 

***

 

Tom sentì il cellulare vibrargli di nuovo nella tasca dei jeans e lo estrasse per spegnerlo, quando udì la porta tagliafuoco del magazzino sbattere. Scese dalla scala e si guardò attentamente intorno tra gli scaffali pieni di libri, CD e DVD rimasti invenduti oppure in attesa della loro data d’uscita.

«Sam, sei tu? Sappi che non è divertente fare lo stesso scherzo due volte!», urlò, mentre il cellulare nella sua mano incominciava per la terza volta a vibrare. «Dannazione…».

«Perché non rispondi?».

Tom trasalì e si voltò, incrociando lo sguardo inquisitorio di Sherlock. Rimasero a fissarsi per qualche secondo e il ragazzo non riuscì proprio a capire il motivo per cui Molly…
Scosse il capo, un gesto pieno di rammarico e frustrazione, e tornò agli scatoloni ancora mezzi pieni che doveva svuotare per controllare che il loro contenuto combaciasse con quello segnato in bolla.

«Come hai fatto ad entrare?», gli chiese distrattamente e altrettanto distrattamente, Sherlock rispose:
«È bastato un autografo e il tuo amico… Sam? mi ha lasciato passare».

«Che cosa vuoi?».

Sherlock, con le mani unite dietro la schiena, fece qualche passo verso di lui e lo fissò dritto negli occhi. Sembravano davvero di ghiaccio, eppure in essi ardeva un fuoco a cui Tom reagì deglutendo, unico segnale del proprio nervosismo.

Il cellulare che aveva ancora stretto in mano vibrò per la quarta volta e Sherlock ruppe il contatto visivo solo per notare il nome e la foto che lampeggiavano sul touch-screen.

«Perché dovresti ignorare Molly? Per quanto ne so, non è quello che un fidanzato premuroso come te dovrebbe fare», sentenziò con una punta di acidità.

«No, infatti, ma forse dovrei. A quanto pare ignorarla e fare lo stronzo è l’unico modo per ottenere il suo amore».

Sherlock contrasse la mascella e strinse forte i pugni dietro la schiena, quindi respirò profondamente e in modo pacato replicò: «Molly ha voltato pagina, io non sono che un…».

«Oh, tu credi? Beh, sei proprio un idiota allora».

Sherlock strinse di nuovo i denti e guardando da un’altra parte sibilò: «Provamelo».

«Okay». Tom si appoggiò alla scala alle sue spalle ed indicò il cappotto di Sherlock con un dito, incrociando le braccia al petto. «Quando ci siamo conosciuti, alla festa di una nostra amica, io indossavo un cappotto praticamente identico al tuo. È stata la prima cosa che mi ha detto, dopo il suo nome: “Che bel cappotto!”. Io lo odio, quel dannato cappotto. L’ho messo solo perché il mio bomber era in tintoria. Ma ho continuato a portarlo per vederla felice, pur sapendo che le piaceva così tanto perché le ricordava te».

Un fascio di luce sul volto di Tom fece capire a Sherlock che Molly lo stava chiamando di nuovo. Era la quinta o la sesta volta?

«Questa è solo una tua supposizione, non una prova», disse con voce piatta. «Ora rispondi e metti le cose a posto, Tom. O lo farò io, a modo mio».

«Accomodati», rispose con un lieve sorriso sulle labbra. «Voglio proprio vedere che cosa ti inventerai. L’hai capito subito anche tu, quando ci siamo presentati, che io per Molly non ero altro che un tuo rimpiazzo. Devi accettarlo: Molly non è perfetta come credi».

La pazienza di Sherlock aveva decisamente raggiunto il limite. Gli saltò addosso, pronto a colpirlo con un pugno, ma inspiegabilmente Tom lo schivò e Sherlock rischiò di perdere l’equilibrio e di cadere contro la scala. Il ragazzo di Molly provò a sorprenderlo alle spalle, senza riuscirci. Il detective allora cercò di strappargli il cellulare di mano, che nella successiva colluttazione cadde a terra, scivolando poco lontano da loro. Tom sapeva difendersi bene, al contrario di ciò che Sherlock aveva previsto, e questo suo errore gli costò una dolorosa testata contro lo scaffale alla sua destra.

«Conosci il detto “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”? Per un po’, all’inizio della nostra storia, è stato così. Tu eri lontano, ti fingevi morto, e lei ha provato a dimenticarti. Senza molto successo, ma almeno ci provava, lo voleva davvero. Da quando sei tornato… ha sempre la testa da un'altra parte, esce di casa anche nel cuore della notte se tu hai bisogno di lei al Bart’s. Lei ti ha sempre amato, Sherlock, e sempre lo farà», gli disse, tenendolo fermo contro lo scaffale. «E la cosa che mi fa più male non è questa, ma il fatto che tu non sarai mai in grado di darle un briciolo dell’amore che sarei in grado di darle io. Perché non la ricambi, perché probabilmente non sai nemmeno che cosa vuol dire amare una donna. Lei non sarà mai felice, con o senza di te. È questo che mi fa più male. Ho fatto di tutto perché lei… Quello stupido cappotto…», Tom accennò una risata tra le lacrime, allentando la presa fino a lasciar andare il consulente investigativo.

Sherlock scivolò fino a quando non fu seduto a terra e si tastò il sopracciglio destro, sanguinante. Era confuso – altra sensazione che non gli piaceva affatto provare – e molto, molto triste.
«Non riesco a capire», mormorò, osservandosi il sangue sulle dita.

«Succede, quando ti spacchi un sopracciglio».

«No. Non riesco a capire perché Molly provi… Non ho mai fatto nulla per…».

Tom scrollò il capo e sospirò, abbattuto. «Come dicevo, tu non sai niente dell’amore».

Si piegò per prendere il cellulare e si rese conto che prima di cadere, nel bel mezzo della lotta, uno dei due doveva aver accettato involontariamente la chiamata. Molly aveva sentito tutto.
«Mi dispiace tanto, gattina», sussurrò nel microfono.

Si infilò il cellulare nella tasca dei jeans e sorprese Sherlock mentre lo fissava accigliato. Gli porse una mano per aiutarlo ad alzarsi e il detective l’afferrò, senza nemmeno sapere perché.

«Sarebbe cambiato qualcosa, se non fossi tornato?», chiese a Tom, il quale rimase in silenzio per un paio di secondi; quindi sollevò un angolo della bocca in un sorriso triste:
«Le avresti spezzato definitivamente il cuore».

 

***

 

«Oh mio Dio, Sherlock, che ti è successo?». Mary si alzò frettolosamente dalla scrivania e lo raggiunse nel bel mezzo della sala d’aspetto, tra i pazienti del dottor Watson.
Senza nemmeno permettergli di rispondere, gli esaminò il taglio sul sopracciglio e prendendolo per un braccio iniziò a trascinarlo verso lo studio di John.

«Scusate, è un’emergenza», disse rivolta ai malati in attesa, prima di spingere Sherlock oltre la porta.

«Cosa diavolo –?!», esclamò John, sgranando gli occhi.

Sherlock roteò gli occhi al cielo e sbuffò innervosito, allontanando le mani dei due sposi. «Potete smetterla? Mi sono trovato con ferite ben peggiori!».

«Fatti medicare e raccontaci cosa è successo», ordinò John, prendendolo per le spalle e facendolo sedere sulla propria sedia girevole.

Sherlock sopportò senza fare una piega le cure del dottor Watson e raccontò brevemente quello che era successo con Tom. John e Mary continuavano ad interromperlo, a chiedere i dettagli della loro chiacchierata, ma il detective era restio a rispondere, in parte perché non aveva ancora tratto tutte le conclusioni, in parte perché si sentiva a disagio a parlare di sentimenti che lo coinvolgevano in prima persona. 
Dall’isolamento totale si era ritrovato nel bel mezzo di un triangolo amoroso. Lui, Sherlock Holmes. Com’era successo? Non esistevano fasi né passaggi intermedi e quindi non ne comprendeva le logiche. Il suo cervello stava andando in fumo, come un motore su di giri, e tutta quella mancanza di razionalità lo stava mandando nel panico.

Lanciò un urlo frustrato, interrompendo John e Mary che avevano iniziato a discutere della vicenda senza che lui se ne rendesse conto. Per un attimo anche il suo cervello staccò la spina, grazie al silenzio, e Sherlock ne approfittò per alzarsi in piedi e correre via.

«John, dovresti seguirlo», disse piano Mary, posandogli una mano sulla guancia.

«Non otterrei nulla. È… sconvolto? Sì, credo sia così. Lasciamo che ci dorma sopra».

«Cosa che non farà».

«Okay, lasciamogli un po’ di tempo per elaborare. Passerò da lui domani mattina, promesso».

 

***

 

Molly alzò gli occhi verso l’orologio appeso al muro in salotto e si rannicchiò ancora un po’ sotto la coperta. Era ormai mezzanotte e di Tom nessuna traccia. Dubitava fortemente che sarebbe rientrato, quella notte. Avrebbe dormito da suo fratello, o al massimo da Sam, ma di sicuro non si sarebbe steso al suo fianco, con il loro cane e Toby in fondo al letto.

Tirò di nuovo su col naso e si passò un fazzoletto appallottolato sotto gli occhi stanchi.
Aveva versato ormai tutte le sue lacrime, da quando aveva sentito – per puro caso, per errore, per tragica fatalità – ciò che Tom aveva detto a Sherlock. Lui aveva sempre saputo, l’aveva capito subito, e l’aveva amata comunque. Aveva provato a tirarla fuori dal fango di quell’amore impossibile e a costruirne uno vero, solido e al contempo leggero, sereno.

Quanto avrebbe voluto dimenticarsi di Sherlock, quanto avrebbe voluto amare Tom come lui amava lei. Sarebbe stato tutto così bello! Ma lei era Molly Hooper e non era fatta per la felicità, ma per gli amori drammatici, tragici, irrealizzabili.

Il cane che lei e Tom avevano adottato al canile, fino ad allora accoccolato sul tappeto davanti alla TV, si alzò sulle quattro zampe ed iniziò a leccarle il viso, uggiolando.

«Lasciami stare, sono una persona orribile».

Il cane abbaiò, come se volesse negare le sue parole, e Molly si alzò dal divano avvolgendosi la coperta intorno al corpo come un bozzolo. Spense la TV e al buio, seguita dal cagnolino, ciabattò fino in camera. Si lasciò cadere sul letto a peso morto, con la faccia immersa nel cuscino, e senza nemmeno accorgersene si addormentò.

 

***

 

«Uh-uh? Sherlock, caro, posso?».

La signora Hudson entrò nell’appartamento del consulente investigativo col vassoio del tè mattutino tra le mani e lo trovò rannicchiato sul divano, stretto nella sua vestaglia e con il violino posato sulla spalla.

«Sei stato sveglio tutta la notte a comporre?», gli chiese accennando agli spartiti musicali sparpagliati ovunque, mentre lasciava il vassoio sul tavolino accanto alla poltrona.

«Mi dispiace averla tenuta sveglia», disse, pizzicando distrattamente una corda.

La signora Hudson ridacchiò teneramente. «Oh, non c’è problema caro. Alla mia età è normale avere di questi problemi ed ascoltarti suonare è sempre un piacere. Era da tanto però che non ti capitava di comporre, vero? È successo qualcosa di particolare?».

Sherlock si alzò di scatto dal divano, superò il tavolino salendoci sopra come suo solito e si fermò di fronte alla finestra. «Grazie per il tè, signora Hudson. Ora vada ad aprire a John».

La padrona di casa non fece in tempo a chiedergli di ripetere che qualcuno di sotto suonò il campanello. Quindi iniziò a scendere le scale, massaggiandosi l’anca dolorante, ma John aveva già aperto la porta dell’androne con il suo paio di chiavi.

«Buongiorno signora Hudson».

«Buongiorno, caro. Se cerchi Sherlock, è di sopra». Si fece più vicina e alzando gli occhi verso le scale sussurrò in modo apprensivo: «Credo non sia una delle sue giornate migliori».

Il dottor Watson sospirò, annuendo con il capo. «Lo supponevo, in realtà».

«Cosa gli è successo?».

«Probabilmente ha capito di essere più importante di quanto credeva – di nuovo – e non sa come comportarsi».

«Beh, allora è meglio che vi lasci in pace».

John respirò profondamente per farsi coraggio e salì le scale. Sherlock aveva ripreso a suonare e il dottore non lo interruppe: si sedette sulla sua vecchia poltrona e con una mano di fronte alla bocca attese che finisse.

Aveva composto una canzone malinconica, cosa che gli ricordò il periodo in cui avevano avuto il piacere – o la sfortuna – di conoscere la donna, Irene Adler. Aveva composto della musica anche per lei, ma quella che stava suonando era molto diversa: sempre malinconica, però anche dolce e tranquilla, quel tipo di melodia che vorresti ascoltare quando tutto va male e vorresti un po’ di conforto, un po’ di pace.

Sherlock si interruppe bruscamente proprio nel bel mezzo di una nota lunghissima e si voltò, probabilmente alla ricerca dello spartito giusto a cui fare la correzione a cui aveva appena pensato. Fu allora che lo notò e ne fu davvero sorpreso: capitava spesso che non si accorgesse della sua assenza, raramente che non si rendesse conto della sua presenza.

«Sono arrivato solo cinque minuti fa», disse John sorridendo.

«Che ci fai qui?».

«Buongiorno anche a te».

Sherlock lasciò il violino sopra il suo laptop e si appollaiò sulla poltrona di fronte a quella di John.

«Volevo sapere come stavi», rispose alla fine il dottore, fissandolo dritto negli occhi. «Ieri ci sei sembrato un po’… scosso».

«Non ero scosso, ero solo infastidito dal fatto che Molly sia…».

«Innamorata di te?».

Sherlock lo fissò allibito per qualche secondo, per poi urlare: «No! Dal fatto che Molly mi abbia mentito e io non me ne sia minimamente accorto! Da quando ha imparato a farlo?».

«Da quando è stata costretta a farlo per due anni per non deluderti, suppongo».

Il detective gli rivolse un’altra occhiata incredula. Due nel giro di cinque minuti, era una specie di record. In attesa che si ricomponesse e dicesse qualcosa, John si servì del tè, quello che la signora Hudson aveva in teoria portato su per Sherlock.

L’attesa durò più del previsto e John si chiese se non si fosse perso tra gli infiniti corridoi del suo Palazzo Mentale, tanto da non riuscire più a trovare la via del ritorno.

«Sherlock, dimentica quello che ho detto: Molly non ha imparato a mentire. L’avevamo capito tutti, che non aveva affatto voltato pagina. Anche tu, lo so. Ma hai preferito credere a quella bugia perché era la soluzione più comoda per te. Ora non puoi più far finta che il problema non ci sia: devi affrontarlo e questo ti spaventa, ma è okay, noi siamo qui se hai bisogno…».

«John, questo è un problema che non posso affrontare».

«E perché no?».

«Perché non posso far soccombere la ragione! Io considero l’amore come un ostacolo, pensavo lo sapessi!».

«Speravo avessi cambiato idea, dopo…».

«Non accadrà mai, John. Il mio lavoro è la cosa più importante e al contempo la cosa più pericolosa che ci sia, quindi anche volendo non potrei mai rischiare di mettere in pericolo Molly».

«Capisco. No, aspetta un momento, che hai detto?». John gli rivolse un sorriso un po’ malizioso e Sherlock deviò il suo sguardo, concentrandosi sui cerotti alla nicotina che si era appiccicato poco sopra entrambi i polsi.
«Non potresti mai rischiare di mettere in pericolo Molly? Io sono stato in pericolo centinaia di volte e non hai mai pensato di allontanarmi da te, perciò vuol dire che lei è…».

«Non cercare di dedurmi, Hamish!», urlò Sherlock infastidito, scatenando soltanto le risate del dottore.

«Almeno ora sai come ci si sente».

«Tu non capisci», mormorò, alzandosi dalla poltrona e vagando per l’appartamento. «Molly diventerebbe un bersaglio troppo facile non solo per i miei nemici, ma anche per la stampa. Come potrebbe affrontare una tale pressione psicologica?».

«Se l’è cavata egregiamente quando tutti ti credevano morto suicida e ti gettavano fango addosso».

«Era una situazione completamente diversa».

«Va bene, ma questo non cambia le cose: Molly Hooper è una ragazza estremamente coraggiosa». E a bassa voce, per non farsi sentire, aggiunse: «Guarda di chi si è innamorata…».

«Mycroft non fa altro che dire che “coraggio” è il sinonimo più gentile di “stupidità”. E Molly lo è sicuramente, dato che lascia sempre che il suo cuore guidi la sua testa».

«Forse è per questo che potrebbe funzionare».

Sherlock si voltò e sbatté più volte le palpebre, confuso. «Che intendi?».

John scrollò le spalle, alzando un po’ le mani. «Intendo dire che sareste perfetti, insieme: vi completereste a vicenda».

«Manca solo la frase “Gli opposti si attraggono” e le hai dette tutte», borbottò, tornando a fissare Baker Street dalla finestra.

«Ma è così, Sherlock! Molly è innamorata di te così come sei! Se ti avesse preferito diverso – dolce, premuroso, umano, con interessi normali – allora avrebbe scelto e riscelto Tom! Non capisci? Anche noi, anche io, Mary, la signora Hudson, Greg… ti vogliamo bene nonostante tutte le tue stramberie e non vogliamo che cambi. A volte sì, okay, ma hai capito il concetto».

«Il piccolo fan club degli amici dello psicopatico», mormorò e John immaginò che un piccolo sorriso gli stesse increspando le labbra.

«Sociopatico iperattivo», lo corresse alzando un dito, ridacchiando. Poi gettò un’occhiata all’orologio che portava al polso e sospirò, alzandosi dalla poltrona.
«Devo andare a fare alcune commissioni prima di iniziare il turno all’ospedale».

Sherlock non rispose, si limitò a riprendere in mano il proprio violino.

Sulla porta, John si voltò di nuovo verso l’amico e aggiunse: «È vero che il tuo lavoro è pericoloso ed è capitato molte volte che i tuoi “nemici” cercassero di arrivare a te tramite le persone che ti stavano vicino, ma guardaci: stiamo tutti bene. Tu ci hai sempre tirato fuori dai guai, lo fai sempre. Molly non corre alcun pericolo. Eccetto il tuo uso improprio del frigorifero».

Sherlock rimase in silenzio per una manciata di secondi, poi posò l’archetto sulle corde del violino e riprese a suonare. John sospirò e lo lasciò solo con i propri pensieri, sperando vivamente che il suo cuore, almeno quella volta, fosse abbastanza forte da buttare giù i muri del suo inaccessibile Palazzo Mentale.

 

***

 

Molly si stropicciò gli occhi e guardando la sveglia posata sul comodino capì di essersi svegliata ben prima del previsto: il suo turno iniziava alle tre e sperava di poter dormire un po’ di più, ma il pensiero di Tom l’aveva spinta a forza fuori dal mondo dei sogni.

Si alzò, intontita da un cerchio alla testa, e si trascinò fino in cucina per dare da mangiare ai suoi due cuccioli. Non appena si trovò in salotto però si pietrificò: Tom era rannicchiato sul divano, con il cappotto steso addosso come una coperta.
Molly si avvicinò senza far rumore, sentendo le lacrime bruciarle nuovamente gli occhi, e si sedette al suo fianco, allontanandogli il bavero di quello stupido cappotto dal viso. Quindi gli accarezzò lievemente una guancia e si sporse su di lui per posargli un bacio sulla tempia.

«Perdonami Tom, perdonami», mormorò rimanendo appoggiata contro di lui, con gli occhi chiusi.

Il ragazzo si svegliò e lentamente si stese supino, accogliendo Molly tra le sue braccia. Lei non si ritrasse: sapeva che quella sarebbe stata l’ultima volta e voleva goderne ogni istante.

«Mi sono comportato come un vero stupido», biascicò, accarezzandole teneramente i capelli sulla nuca. «Non avrei dovuto cercare di renderti felice somigliando a Sherlock, ma mostrandoti quanto io fossi migliore, in certi aspetti. Io non sarò mai come lui».

«Tom…».

«Shh, tranquilla», le sussurrò, sollevandosi un poco per poterle accarezzare il viso. «Non avrebbe potuto funzionare comunque, prima o poi ce ne saremmo accorti. Meglio prima, non credi?».

«No, Tom, possiamo ancora…».

«Non essere sciocca», le rivolse un sorriso tenue, sistemandole amorevolmente una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Io ci sarò sempre per te, quando avrai bisogno di un amico. Non sono più arrabbiato, solo… vorrei davvero che tu fossi felice».

Quella volta ad accennare un sorriso fu Molly: «Forse non ci sono portata, alla felicità».

Tom la strinse ancora una volta a sé, fino a quando la ragazza non gli chiese se volesse una tazza di caffè.

«Magari più tardi. Adesso ho proprio bisogno di una doccia». Si alzò a fatica, reggendosi a malapena sulle gambe indolenzite, e molto lentamente si diresse verso il bagno.
«Entro il fine settimana tornerò dai miei e poi contatterò il mio vecchio padrone di casa, anche se dubito che il mio appartamento sia ancora libero», concluse, per poi sparire in corridoio.

Molly si portò una mano sul cuore, che aveva iniziato a batterle in modo doloroso nel petto, e sospirò per farsi coraggio. Lo raggiunse quasi di corsa, fermandolo giusto un momento prima che si chiudesse in bagno.

«Non c’è fretta, lo sai? Non mi dispiacerebbe affatto, condividere questo appartamento con qualcuno. Noi ci conosciamo già, sarebbe…».

«Impossibile», terminò la frase per lei, sorridendole in quel modo triste che le spezzava il cuore ogni volta. «Almeno per me: non lo sopporterei».

«Oh. Ma sì, certo, scusami se…».

«Molly, devi promettermi una cosa». Le prese il mento tra le dita e fissò gli occhi nei suoi, così intensamente che Molly dovette trattenere il respiro per non incominciare a tremare.
«Devi promettermi che non permetterai più a Sherlock Holmes di prenderti in giro o di usarti solo per i suoi scopi. E che ce la metterai tutta per conquistarlo, se è lui che vuoi».

«Con-conquistarlo?», balbettò, incredula. «E come potrei, Tom, lui è –».

«Io starò bene, tra qualche tempo, ma tu devi pensare alla tua felicità. Dio solo sa come lui potrebbe renderti felice, ma devi mettercela tutta, okay?».

Molly annuì, ancora titubante.

«Promettimelo».

«Te lo prometto».

Tom sorrise e l’attirò a sé per strapparle un ultimo bacio sulla bocca, poi si chiuse in bagno.

 

***

 

«Eccolo qua, Hetty. Hai mai avuto problemi con questo?». Molly posò delicatamente il cuore di Hetty nella vaschetta sterilizzata della bilancia e dopo essersi tolta i guanti di gomma prese la penna per registrarne il peso.
«Intendo sentimentalmente. Il tuo sembra un cuore sanissimo e da quello che dice il mio dottore, anche il mio lo è. Sto parlando d’amore. Tu eri sposata, Hetty. Amavi tuo marito? O l’hai sposato solo perché era la migliore alternativa dopo quello che era il tuo vero ed impossibile amore?». Posò gli occhi sul corpo immobile di Hetty, steso sul freddo tavolo delle autopsie. «Beh, penso non faccia molta differenza ora», mormorò sospirando.

Molly si infilò un nuovo paio di guanti per iniziare ad esaminare in modo più approfondito il cuore di Hetty, quando con la coda dell’occhio scorse la porta dell’obitorio aprirsi. Sperava di non vederlo per almeno qualche giorno, dopo tutto quello che era successo con Tom, ma ancora una volta il destino aveva deciso di remarle contro.

«Ciao Sherlock», lo salutò mettendosi su la sua maschera preferita, quella del “non-è-successo-niente-sto-benissimo”.

«Molly», si limitò a dire, avvicinandosi al tavolo con le mani unite dietro la schiena. Osservando in lungo e in largo il cadavere che li divideva, le chiese in modo pacato: «Tutto bene?».

«Sì, grazie. Tu che hai fatto al sopracciglio?».

«Niente di cui preoccuparsi», rispose Sherlock, per poi posare i suoi occhi di ghiaccio sul cuore rimasto sul piatto della bilancia.

Il suo silenzio la metteva a disagio, per questo molte volte si imbarcava in conversazioni che risultavano un completo disastro. Quella volta però rimase in silenzio, ripensando a ciò che aveva sentito la sera prima, quando aveva provato a telefonare a Tom, e a quello che Tom stesso le aveva detto quella mattina.

Sherlock si rese conto del suo sguardo ed ebbe quasi la tentazione di chiederle perché lo stesse fissando, ma non appena aprì la bocca si ritrovò senza voce. Perciò finse di dover tossire e per prendere tempo indicò la donna di fronte a lui.

«Causa della morte?».

«Annegamento».

«Mmh…».

Molly aggrottò le sopracciglia. «Tutto qui?».

Sherlock ricambiò il suo sguardo. «Tutto qui cosa?».

«Non vuoi sapere se è stato un omicidio, un suicidio o un incidente?».

«Non sono venuto qui alla ricerca di un nuovo caso».

«No?».

Sherlock capì di essere stato incastrato e ne fu infastidito, ma provò anche una sorta di eccitazione: Molly lo stava sfidando, senza nemmeno saperlo, e quella sfida era qualcosa che andava oltre ogni sua immaginazione. Anche per questo ne era attratto, nonostante la sua pericolosità.
Si schiarì la voce e pensò di aggirare il tavolo delle autopsie per cercare un contatto visivo ancora più diretto, ma ci rinunciò: meglio tenere le distanze, almeno fino a quando non avrebbe saputo decifrare la sua reazione.

«Mi chiedevo se volessi… Sì, se volessi…».

«Ne abbiamo già parlato, Sherlock: non sono brava a farti da assistente e poi ho un sacco di lavoro arretrato e…».

«No, volevo chiederti se ti piacerebbe cenare insieme, stasera», disse quasi tutto d’un fiato, sentendosi stranamente sia nervoso che trepidante.

Molly strinse più forte la penna nella mano e si concentrò su ciò che c’era scritto sul foglio che stava compilando, senza capire una parola di ciò che leggeva. Le parole di Tom continuavano a rimbombarle nelle orecchie: «Devi promettermi che non permetterai più a Sherlock Holmes di prenderti in giro o di usarti solo per i suoi scopi».

«Allora?», chiese Sherlock, nascondendosi inconsciamente sotto il bavero del suo cappotto.

Molly sbatté la cartelletta sul ripiano accanto alla bilancia e sospirò, massaggiandosi una tempia. «Senti, Sherlock… Se hai bisogno di qualcosa, te l’ho già detto, non devi fare altro che chiedere. Perciò smettila, non c’è bisogno di alcuna… ricompensa».

Sherlock la fissò per qualche secondo, poi le diede le spalle e senza voltarsi più indietro uscì dall’obitorio.

 

***

 

John salì le scale due a due, sorpreso di non trovare in casa la signora Hudson, e trovando la porta dell’appartamento chiusa, bussò. Non ottenne alcuna risposta, perciò, preoccupato, usò il suo vecchio mazzo di chiavi – Sherlock aveva insistito perché lo tenesse per ricordo – ed entrò.
Nel salotto e in cucina c’era la solita confusione di sempre, ma nessuna traccia di Sherlock, anche se… John respirò profondamente e fu come se un peso gli fosse appena caduto sulle spalle.

«Sherlock!», urlò.

Camminò a passo spedito verso la camera da letto del detective e spalancò la porta senza porsi troppi problemi. Scoppiò a tossire e gli occhi iniziarono a bruciargli. L’odore di fumo aveva impregnato la stanza e ci sarebbero voluti giorni di aerazione perché svanisse – la signora Hudson non l’avrebbe affatto gradito.

«Sherlock…», sospirò esasperato, agitandosi una mano di fronte al viso ed avvicinandosi al detective.

Era sdraiato in maniera scomposta sul suo letto, con un posacenere pieno di mozziconi a portata di mano e diversi pacchetti vuoti abbandonati per terra, del tutto incurante di ciò che lo circondava.

Gli strappò dalle labbra la sigaretta che si era appena acceso e lo guardò severamente, nonostante lui non lo degnasse minimamente della propria attenzione.

«Non posso credere che tu l’abbia fatto! Non dopo tutto il tempo che ti ci è voluto per –!», si interruppe, leggendo la totale apatia sul viso dell’amico. «Che cos’è successo, Sherlock?».

«Ho chiesto a Molly se voleva cenare con me, questa sera».

«Ah… Come scusa?».

«Non mi ha preso sul serio, credeva volessi qualcosa in cambio. È così che ragionano le persone innamorate, John?».

«No, è così che… ragioni tu con lei, di solito», rispose, abbassando il capo.

Sherlock si mise a sedere e lo fissò con gli occhi iniettati di sangue. «Non da quando ha rischiato tutto pur di aiutarmi!».

«E gliel’hai detto, questo?».

«Certo che no!».

«Perché no?».

«Avrebbe già dovuto capirlo da sola».

Il cellulare di John iniziò a suonare e Sherlock lo fissò, sollevando le sopracciglia. Il dottore lo tirò fuori dalla giacca e rimase a guardare il display per qualche secondo, in silenzio.

«Non rispondi?», gli domandò il consulente investigativo.

«No, non adesso». Respinse la chiamata e si avvicinò a Sherlock per posargli una mano sulla spalla. «Posso aiutarti in qualche modo?».

Sherlock si alzò, con la testa che gli girava a causa del troppo fumo, e barcollò verso la scrivania. Consegnò a John i pacchetti di sigarette che non aveva ancora fumato. Li fissò tra le mani dell’amico, poi il suo volto si illuminò come se si fosse appena ricordato una cosa importante e si gettò a terra, con una mano sotto al letto. Tirò fuori una stecca ancora chiusa, gli lasciò anche quella tra le braccia e per ultimo si diresse verso l’armadio per ficcarci dentro la testa ed estrarne una seconda.

«Sono tutte», gli disse, rivolgendogli un breve sorriso di scuse.

John si guardò le braccia e poi, inarcando un sopracciglio, chiese: «Sicuro?».

Sherlock annuì, ma poi cambiò idea e sollevò il cilindro che aveva indossato al matrimonio di John, sotto il quale c’era l’ultimo pacchetto di sigarette.

Il dottore gli diede una pacca sul braccio. «Apri le finestre, non si respira qui dentro».

 

***

 

John bussò alla porta del laboratorio di analisi ed infilò dentro la testa.
Molly si illuminò non appena lo vide e gli corse incontro, il viso contratto in una smorfia di angoscia e dispiacere. 

«John, menomale che sei venuto! Hai sentito Sherlock, per caso?».

«Vengo direttamente da casa sua», le rispose sospirando.

Molly si morse il labbro. «Credo di non averlo capito, non questa volta».

«Già, lo credo anche io». 

   
 
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