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Autore: Andy Black    12/01/2014    12 recensioni
Tanto, forse troppo tempo fa, la gente era spaventata dalle storie che aleggiavano attorno al Bosco Memoria. Si diceva che chi vi entrasse non ne riuscisse più ad uscire.
E quando un giorno Livio, un fabbro pieno di cicatrici nel cuore e nella mente, oltre che sul corpo, viene a sapere che suo figlio Cristiano è entrato in quel bosco, decide di sfidarlo, e di addentrarsi nella selva.
Riuscirà a trovare suo figlio, oppure si arrenderà anche lui alla severa legge del Bosco Memoria?
Lasciate ogni speranza, o voi che entrate...
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Manga
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La memoria del guerriero, la memoria del bosco


“Ragazze! Venite, ragazze!”
La voce del nonno era ruvida, sembrava volesse rimanere dentro di lui, e si aggrappava alle corde vocali del veglio. Era pronto a raccontare la favola, quella che raccontava ogni giorno a Milla e Stella.
“Gemelle! Venite!”
E fu così che due piccole teste bionde, così tanto simili ma così tanto diverse tra di loro, entrarono nel salotto di quella casa vecchia e polverosa.
Il camino era acceso, la luce soffusa, ed il nonno sulla vecchia poltrona cigolante. Le due gemelle avevano fatto a gara a chi si dovesse sedere più vicina al camino, ed aveva vinto Milla, la meno delicata tra le due.
“Dai, nonno! Comincia con la storia di stasera!” fece Stella.
“Ok, ok” sorrise quello, per l’impazienza. “La storia si ambienta tanti, tanti anni fa, qui ad Adamanta... sapete, vicino a Primaluce, che prima si chiamava Nuovaluce, c’è il Bosco Memoria. Ma prima non si chiamava così...”
“Ah no?!” si stupì Stella.
“E come si chiamava?!” chiese Milla, curiosa e famelica.
“Bosco Oblio, piccola”
“E perché?!”
“Tutto cominciò quando...”
 
“Il ferro si batte quando è ancora caldo!” ripeteva in continuazione suo padre, e lui lo faceva. Lo faceva sempre, lo batteva quando era incandescente, quando al buio si poteva vedere il pezzo di ferro di quel rosso vivo ed acceso, così caldo da farti lacrimare gli occhi.
Così caldo da lasciarti profonde cicatrici sulla pelle, di cui le sue braccia erano piene.
Ed intanto l’incedere inesorabile del martello su quel ferro incandescente, stretto dalle sue tenaglie creava un rumore sordo, quasi timido, che spariva e tornava nel tempo di un respiro, nel tempo che i suoi polmoni ampliassero il suo torace ampio e muscoloso.
Era così, davvero. Forse perché Livio faceva il fabbro da vent'anni, e le sue braccia ed il suo petto e le sue gambe erano diventati tutti così forti da averlo cambiato.
Ricordava, tra un colpo di martello ed un altro, della sua infanzia. Lui era piccolino, gracile, con i capelli dello stesso colore, quel castano vivo, ma non aveva la barba folta che portava ora.
Ed il suo corpo non era così prestante.
Bastava una camicia piccolina per contenere quel mucchio di pelle ed ossa che era.
Vent'anni dopo neanche le camicie di suo padre, il sant'uomo che lo aveva introdotto nel negozio di famiglia fin dai primi vagiti, gli entravano. E lui insegnava a suo figlio quello che aveva imparato da suo padre.
E tutti guardavano il fabbro, quel fabbro silenzioso e dedito al lavoro, con occhi rispettosi. E le signore adoravano quella prestanza.
Adoravano quella camicia stretta, il sudore che cadeva dalla fronte, che si fermava sui pettorali gonfi.
E qualcuna aveva anche avuto l’ardire di provare un approccio, con il fabbro.
Anche quel giorno, Silvana, entrava nel buio del suo negozio.
 
“Buongiorno...” fece quella, gettando l’occhio oltre l’ampio banco di ferro che divideva l’avanti dal retrobottega. Livio batteva una piastra di ferro, stava forgiando una spada.
“Ciao, Silvana” sorrise Cristiano, che intanto spolverava le armature che suo padre teneva per esposizione.
“Oh, ciao Cristiano. Vedo che tuo padre è, come sempre, dedito al lavoro”
“Sì. Quando il ferro è caldo bisogna batterlo, Silvana. Non si può distrarre”

Quella sorrise. Vide nel giovane ragazzo una grande somiglianza con il padre. E qualcosa anche della compianta madre, morta anni prima, proprio per metterlo al mondo. Cristiano era mingherlino, con i capelli più chiari di suo padre, un castano che entrava nel biondo, acconciati come li portavano i giovani di quei tempi, tirati all'indietro. Gli occhi enormi, rispetto al viso smagrito. Il naso soltanto era in disarmonia con tutto il resto, leggermente curvo, ma per la sua età era un bel ragazzino.
“Immagino... e... e per parlare con lui come dovrei fare?”
“Beh. O aspettare che il ferro si raffreddi, ma te lo sconsiglio, perché quando papà è preso da un progetto... lo deve finire, ecco...” portò il suo sguardo all'altezza del suo viso, indugiando per un attimo sulle ampie prosperosità della donna, che non accennava minimamente a voler celare.

Quella se ne accorse, ma fece finta di nulla.
“Oppure?”
“Oppure aspettare la chiusura”

Silvana sospirò. Era una donna risoluta, di ottima famiglia, e molto, ma molto, viziata. Tutto ciò che voleva lo aveva sempre ottenuto, e questo perché i soldi avevano plasmato il suo carattere.
Pagava, aveva, voleva di più.
Ma Livio non poteva averlo, perché lui non si mostrava nemmeno interessato a scambiare quattro chiacchiere, e questo, anziché offenderla, la incentivava ancora di più ad ottenere il suo obiettivo.
Voleva avere Livio.
“Beh... a questo punto credo che aspetterò. Non manca molto alla chiusura”
La discussione tra la donna ed il ragazzino continuava mentre il sottofondo musicale, formato da battiti, respiri e versi di sforzo non cessava.

“Ok, va bene, se vuoi puoi aspettare qui”
 
Silvana si fece dare una sedia e si accomodò, facendo compagnia al giovane Cristiano.
“E quindi stai imparando il mestiere”
“Già... con l’aiuto di Timburr sto cercando di arrivare ai livelli di papà”
“E lui? Lui non usa Pokémon?”
“Beh, papà non ha bisogno di ulteriori muscoli...” sorrise il ragazzino. “A lui servono le sue braccia, e basta. Il resto lo fa la sua passione ed il suo impegno”

“Ammiri tanto tuo padre, vero?”
“Molto. Vorrei tanto poter diventare come lui un giorno”
Silvana riuscì ad esprimere rispetto solo con un’espressione. Pensava che i ragazzini di quindici anni come lui non avessero una simile mentalità.

“E tu? Tu quando finisci di lavorare che fai?” chiese ancora, la bella signora. Cristiano la guardò per l’ennesima volta, riuscendo ad incollare il suo sguardo a quello della donna. Ma dovette riconoscere che, se fosse stato più grande, non avrebbe avuto alcun motivo per non cedere alla tentazione di chiederle un bacio. Aveva più di trent'anni, questo lo sapeva per sentito dire, le sue amiche erano delle vere e proprie pettegole, e quando Silvana passava per il corso di Nuovaluce, tutte le prendevano le misure e cominciavano delle frasi con “Guarda quella” oppure “Ho sentito che”.
Gli occhi grandi ed azzurri le servivano per guardare tutto quello che le succedeva attorno, la bocca rosea e rigonfia di parole per riportare tutto, e quei capelli lunghi e biondi, leggermente ricci... beh quelli non servivano a niente, ma erano dannatamente belli.
Il tutto mantenuto da un collo che era attaccato ad un busto che faceva parte di un corpo da schianto. Era davvero pregevole, e a dispetto delle voci, Silvana non si era mai concessa a nessuno. Aveva voluto scegliere per bene il suo compagno, nonostante il padre spingesse per farle sposare un principe, nonostante fosse ormai anziana per avere della prole.
Ed aveva scelto il fabbro, in barba ad ogni padre, ad ogni principe, e a tutte le pettegole.
“Beh, esco con i miei amici... mi godo qualche bel momento”
Silvana sorrise.

“Io credo che questa armatura sia abbastanza lucida”
Cristiano incontrò il suo sguardo, e poi sentì qualcosa in meno, in quell'aria pesante. Pesante come il ferro.
Quello che sentiva in meno era il battito del martello di suo padre.
Cristiano si girò, e vide Livio prendere tra le mani l’enorme spada, ed infilarla in una tinozza piena d’acqua. L’ambiente in breve si riempì di vapore.
“Papà... Silvana crede che l’armatura sia abbastanza lucida...” sorrise il ragazzino.
“È vero” vide la donna.
Livio rialzò in quel momento la spada dalla tinozza, e la prese ad asciugare con un panno. Poi alzò la testa, meccanicamente verso il figlio. Si avvicinò a grandi passi verso il bancone, dove c’era l’armatura, e vi poggiò la pesante spada sopra.
“Buonasera, Silvana, non l’ho sentita entrare” disse educatamente, senza neanche guardarla. E Silvana in qualche modo sapeva che stava mentendo.
“Buonasera Livio. Come va?”
“Va... Cristiano, hai fatto un ottimo lavoro. Se vuoi puoi uscire un po’ prima stasera. Ma devi tornare a casa prima che faccia buio”
Gli occhi di Cristiano si riempirono di luce gioiosa, ed il suo sorriso esplose. “Grazie papà! I miei amici mi volevano proprio far vedere una cosa che hanno preso dal bosco!”

Il ragazzino posò lo straccio, salutò la signora inchinando il capo, e si dileguò.
“Bene... Livio, diceva, come va?”
“Dicevo che va, Silvana”
“Ma va male o va bene?”
“Va dritto. Né male né bene”

Silvana sorrise, toccando la spada ancora leggermente umida. “È ancora calda...”
“Ho appena finito di crearla”
“E di chi è?”
“Veramente è per me. La mia vecchia spada è diventata tutta ruggine e polvere rossa”
Silvana fissò i bicipiti rigonfi dell’uomo, e sorrise. La tentazione di mandare una delle sue piccole manine curate sul rigonfiamento della camicia dell’uomo era enorme.

Per un attimo i due si fissarono negli occhi.
La tensione era enorme, Livio sentiva quello che Silvana provava, ma non aveva alcuna intenzione di darle corda. Aveva un ragazzino da crescere, e perdere di vista le priorità era da irresponsabili.
Silvana però continuava a provarci, ogni giorno più forte di prima, nonostante i rifiuti cortesi seppur fermi di Livio.
“Senta, Livio... che ne dice se stasera viene da me?”
“Direi che non va bene. Domani devo svegliarmi presto, non posso far tardi”

Silvana sbuffò vistosamente, quasi come una bambina, tanto da far sorridere Livio.
“Uff... accetterai mai un mio invito?”
“Sono un uomo sposato, Silvana”

“Ma... ma... dannazione!” sbatté i piedi per terra e si girò, sbattendo la porta.
Proprio come il giorno prima.
E quello prima ancora.
Silvana avrebbe voluto urlargli che quella donna era morta, e che non sarebbe mai più tornata, e che doveva andare avanti, ed avrebbe continuato ad ammucchiare congiunzioni su congiunzioni fino a quando non le sarebbero crollate dalle mani, ma non aveva senso smontare le convinzioni di un uomo ferito che viveva unicamente per permettere al figlio di respirare e vivere una vita normale.
 
La sera era scesa, e le candele nelle case riuscivano ad illuminare giusto l’essenziale, quanto bastava per non sbattere i mignoli dei piedi contro i mobili e le credenze.
Livio era seduto al tavolo, aspettando in silenzio il ritorno a casa di Cristiano.
“Il bosco...” ripeté tra sé e sé. Gli amici di Cristiano dovevano mostrargli una cosa raccolta nel bosco.
Ma ciò significava che la cosa era stata raccolta dal bosco e portata fuori, non che Cristiano sarebbe dovuto entrare nel bosco.
Giusto?
Ennò, perché altrimenti sarebbe stato un gran problema.
Il Bosco Oblio era davvero un problema.
Chiamato così per motivi ovvi, chi ne entrava spesso non ne usciva. O, se riusciva ad uscirvi, perdeva ogni genere di ricordo.
Nessuno conosceva il motivo di ciò, forse era per via del buio e di quell'aria così pesante che vagava nel bosco, per via della foschia, che non si abbassava mai.
O forse per i tanti Pokémon spargispora. Forse era davvero per quello.
Ma il mistero ogni giorno di più si infittiva, e chiamava a Nuovaluce sempre più avventurieri senza macchia e paura e li spingeva ad addentrarsi nel fitto di quel tetto di foglie.
I pochi che ne uscivano erano feriti, a volte mortalmente, per via degli attacchi dei Pokémon.
Sì, perché era come se stessero difendendo qualcosa.
E questo qualcosa spingeva ancora più gente a provare.
Livio aveva capito che il Bosco Oblio era pericoloso, e ci stava alla larga. Quando doveva raggiungere Timea, invece di attraversare il bosco, e tagliare sensibilmente la durata del viaggio, preferiva viaggiarci attorno, per evitare guai.
Ma adesso aveva capito che qualcosa non andava.
Adesso aveva capito che per ritrovare Cristiano, c’era bisogno di sfidare la leggenda, e svelare il mistero.
 
Perché non poteva perdere un altro pezzo del suo cuore.
 
Non indugiò oltre, ed uscì di casa, spegnendo le candele e sprangando la porta, quindi si diresse in bottega. Aveva bisogno di armarsi, di attrezzarsi per la spedizione.
I suoi passi risuonavano come tonfi sordi nelle pozzanghere che si erano formate per via del temporale di qualche giorno prima. Qualche fiaccola qui e lì rendeva meno lugubre la Nuovaluce notturna, anche se preferiva altamente vederla di giorno.
Di notte non sapeva cosa poteva trovarsi alle spalle.
E sembrò che quella volta non fece eccezione.
Dei piccoli passi, lenti e silenziosi, si nascondevano abilmente, per non farsi localizzare. Livio, di fatti, non sentiva la presenza del suo inseguitore.
Il fabbro voltò l’angolo, entrando nel corso principale di Nuovaluce. Passò davanti alla casa di Silvana, ma non si preoccupò di vedere le luci nella casa, che erano accese.
L’inseguitore continuava, armato di pazienza ed indiscrezione. E di scomode scarpe con i tacchi.
Livio allora si girò.
“Silvana! Che ci fai qui?”
Quella inclinò il capo. “Io?! Piuttosto tu che sei uscito a fare a quest’ora!”
“Perché mi controlli?”
“...passavo davanti casa tua e ti ho visto uscire... insomma?”

“Cristiano non è tornato ancora” fece Livio, con la voce che traballava, in bilico su poche convinzioni che gli erano rimaste nella vita.
“E... ed ora dove vai?”
“Sto per addentrarmi nel bosco, ma prima ho bisogno della spada...”
“La spada?!”
“Sì. E la sfera di Umbreon. Ho bisogno anche di Umbreon”

“Ti addentrerai nel bosco?! Tutto solo?!”
“Esatto. Devo ritrovare mio figlio”
“Ma è buio! Dove credi di andare da solo?! No, non se ne parla, ti accompagno io!”

Livio si fermò per qualche secondo, guardando gli alti tacchi della donna, ed il vestito a balze.
“Non se ne parla”
“Mi vado un attimo a cambiare! Aspettami!”

Livio non rispose. Purtroppo ci voleva circa un’ora per completare la limatura della spada che aveva creato quel giorno, e, a scanso di equivoci, in un’ora Silvana avrebbe dovuto farcela.
 
Quando finì di limare la spada era sollevato e allo stesso tempo colmo d’ansie.
Sollevato perché, contro ogni pronostico, Silvana non si era ancora presentata, e colmo d’ansie perché non sapeva se sarebbe tornato a casa.
E se nel caso ci fosse tornato, se avrebbe riportato Cristiano con lui.
Infilò il lungo spadone nella fodera che indossava lungo il busto. La spada si estraeva da sopra la spalla.
Teneva la sfera di Umbreon in una mano ed il cuore nell'altra. La paura lo investì come un carro in discesa fuori controllo, mentre nella testa il rumore del ferro limato non accennava ad andarsene.
Avrebbe preferito evitare, magari sarebbe passato un'ultima volta per casa, per vedere se Cristiano fosse tornato.
Sì, avrebbe fatto così, si ripeté, e chiuse di nuovo la bottega. Camminò ancora, ripercorrendo i suoi passi, tornando ancora sul corso principale, dove le luci della casa di Silvana erano spente, ad indicare una razionale presa di coscienza da parte della donna.
Sarebbe stata solo d’intralcio, probabilmente l’aveva capito.
Tornò verso casa. Le luci spente, il lucchetto ancora alla porta. Poggiò una mano sul legno duro, bardato col suo ferro battuto, e quasi ne sentiva ancora il bollore. Cristiano non era oltre quella porta.
Allora per la seconda volta ritornò sui suoi passi, ritornando di nuovo sul corso principale. Casa di Silvana era più silenziosa di una biblioteca. Le luci erano spente.
Proseguì allora, arrivando nella piazza centrale.
La spaziosissima piazza centrale. Il re aveva decretato il coprifuoco, ma lui non poteva dormire a quell'ora. E come lui c’erano tanti esponenti del mercato nero ed altri malfattori. Gente che Livio conosceva, gente che gli portava rispetto.
Proseguì per un vicolo, scansando le buche. Quando la mattonellatura fu sostituita dalla terra battuta, Livio si rese conto di essere fuori città.
Da lì al Bosco Oblio ci volevano poche decine di metri, dove il terreno, dapprima ricco di sabbia polverosa, che si alzava sollecitata da ogni passo, veniva sostituito dapprima da alta erba e sterpaglia, e poi dal sottobosco.
Ad un paio di metri c’era un albero, sopra il quale c’era affisso un cartello:
 
[:Bosco Oblio:]
 
Livio lo lesse più e più volte, come a ricercarne un significato celato, e guardava il cartello come se aspettasse che Cristiano vi sbucasse fuori, dicendo di aver trovato qualcosa di strano nel cartello.
Era stanco, doveva ammetterlo, ragionamenti del genere non li faceva da lucido, quando suo figlio era con lui.
L’uomo sentiva il peso della spada sulla schiena, e la raddrizzò per provare ad alleviare il dolore. Quindi gettò un occhio nel bosco, cercando suo figlio con lo sguardo, aspettando i suoi passi.
Entrare lì dentro significava correre il rischio di non poterne più uscire.
Uscire da lì anche era un rischio, perché vivere una vita per poi dimenticare tutto ciò che hai vissuto non ha nulla di buono. Nel bene o nel male, tutte le esperienze devono essere portate con onore, con fierezza. Con rispetto.
Ed anche se la vita ci ha dato limoni, tu devi ricordarti di quanto era buona quella limonata, anche se la limonata la bevi ancora, perché non è sempre mezzanotte.
“Perché non mi hai aspettata?!” la voce di una donna, quella donna, ruppe il suo silenzio e lo spaventò leggermente.
Livio riacquistò lentamente le facoltà cognitive e si voltò. Davanti aveva Silvana, la donna più chiacchierata del paese. Con le scarpe basse.
“Non voglio che tu venga”
Lo sguardo di Silvana non mutò minimamente, ritenendo quella cosa come detta momentaneamente, per via della situazioni fuori controllo.
“Ed invece hai bisogno di me. Conosco molto bene il bosco. Ho la piantina a casa!”
“Sei mai stata nel bosco?”
“No, ma ogni mattina mi sveglio, e davanti cos'ho?! Proprio la piantina del bosco! Quindi è come se vedessi il bosco ogni giorno!”. L’ingenuità della donna nel non capire la difficoltà potenziale di quello che stavano per andare a fare lo imbarazzava.
“Sai quanto il bosco possa essere pieno di Pokémon selvatici, vero?”
“Certo! È per questo che ho la mia Espy!”
Silvana cercò nella sua borsetta, e vi trasse fuori una sfera. Poi da lì ne uscì un esemplare di Espeon, con un grosso campanello sotto alla testa.
Sembrava non pesargli.
Livio inarcò un sopracciglio, e sospirò, inarcando le braccia. Ma Silvana notò solo i bicipiti e la camicia che si gonfiava.
“Senti... andiamo... basta che tu non mi sia di intralcio!”
“Benissimo!” esclamò la donna, correndo a stringere l’uomo, che per tutta risposta rimase rigido come un pilastro. Si voltò, scivolando dalla stretta della bionda, che poi sbuffò, e chiamò Espy.
 
Addentratisi nel bosco, il buio la faceva da padrona. I passi venivano poggiati delicatamente per terra, come se non volessero rompere i rametti e le foglie secche nel sottobosco. Silvana temeva di inciampare, quindi cercava appigli ovunque, ma lo scarso equilibrio non le consentiva di andare avanti per più di sei metri senza appendersi al braccio di Livio per qualche secondo.
“Non si vede niente” fece la donna.
“Già. Cristiano!” urlò lui, sentendo rimbombare la propria voce forte. Un lieve fruscio di foglie anticipò il movimento nei cespugli di qualche piccolo Pokémon.
Espeon prese a soffiare, proprio come fanno i gatti, e si piazzò davanti ai due. Quelli si fermarono.
“Espy... che c’è?” chiese spaventata Silvana, stringendosi a Livio. Quello l’avrebbe allontanata in quel momento se non avesse avuto il cervello impegnato a capire contro cosa doveva combattere Espeon.
“Sente qualcosa...”
“Cosa?”
“Non si vede... ma è lì”

“Io vedo qualcosa... ma è buio... è troppo buio”
“Umbreon!” urlò lui, tirando fuori dalla sfera il suo Pokémon.
L’Umbreon di Livio era particolare. Gli occhi risplendevano sollecitati dalla luna, mentre il nero lucido del suo pelo faceva spazio al blu dei suoi anelli.
“Wow...” si meravigliò Silvana.
“Umbreon! Usa Flash!”
D’improvviso un’immensa luce invase il campo. Di fronte c’era un Banette.
“Benissimo. Nemmeno siamo entrati e già abbiamo i Pokémon che ci saltano addosso”
Banette si avvicinò lentamente, oscillando dapprima, poi si irrigidì e si gettò contro Espeon.
“No! Espy!”
Livio sobbalzò. “Umbreon, colpiscilo con Palla Ombra!”
Umbreon fece un balzo, e prima che Espeon fosse attaccato, la sfera colpì in pieno l’avversario, che stremato si dileguò sotto forma di fumo scuro, che saliva verso il cielo, verso il tetto di alberi.
Silvana lo guardava. Tra un ramo ed un altro riusciva a vedere il cielo.
“Devi stare più attenta” fece Livio.
“Sei tu che hai urlato!” fece lei, alzando la voce.
“Perciò!” esclamò lui, mettendola un dito sulla bocca, e portando le loro fronti così vicine da spaventarla. “Cerchiamo di non ricadere nello stesso errore...”
“Ok...” fece lei, leggermente intimorita, mentre le gambe le tremavano.

I passi dei due diventavano sempre più pesanti, e mentre si accorgevano che era notte fonda, i loro corpi diventavano pian piano più pesanti, e gli occhi con loro. La stanchezza si faceva sentire, ma d’altro canto la paura teneva sveglio Livio, che doveva trovare Cristiano.
Umbreon camminava davanti, illuminando il bosco con una forte luce. Gli alberi che avevano attorno erano vecchie querce secolari, i cui rami si intrecciavano come dita pie che pregavano di altri alberi. Ghiande e gusci cadevano di tanto in tanto, richiamando l’attenzione di qualche affamato Tepig, che però non si apprestava ad uscire finché non vedevano la grande luce allontanarsi.
Ma poi, come se qualcosa li richiamasse all'ordine, correva contro i due, e li attaccava. Qualche volta Espy, molte altre volte Umbreon, furono costretti a lottare per tutta la notte contro Pokémon selvatici più o meno forti, senza la speranza di riuscire a fuggire.
Parevano volerli sfiancare, lottando ogni venti passi, quando andava bene.
E di tutto si gettava sugli avventori.
Dai Banette ai Gengar, dai Wurmple ai Beedrill, dai Tepig ai Blitzle. Ma anche Pokémon più difficili da fronteggiare, come Sawsbuck o Ursaring.
 
“Umbreon... ancora non senti l’odore di Cristiano?” chiese Livio. Ad un certo punto erano così stremati che si erano visti costretti ad appoggiarsi agli alberi ed a riposare le gambe. L’enorme spada che Livio portava gli era stata utile. Umbreon era lì, che combatteva e che prendeva colpi, ma gli attacchi sembravano essere indirizzati a Livio, non al Pokémon buio, che alcune mosse fisiche non riusciva a pararle.
E così Livio si ritrovò a dover lottare spada contro le corna di Sawsbuck.
O contro Ursaring.
“Ce l’hanno con me...”
“Già...” rispose timorosa Silvana.

“Perché sei qui se hai sonno e paura?”
“Ho anche freddo”
Livio sorrise, ma non lo fece vedere.

“...comunque perché hai bisogno di me... ed io...”
“Cristiano!” esclamò Livio, correndo velocemente verso un albero. Silvana arrancava per stargli dietro.

“Che diamine succede?! Qui vedo solo una pezza!”
“È la sua camicia, Silvana!”

Attimi di panico. Livio la stese, analizzandola con la vista. Non c’erano strappi. Nessun attacco di Pokémon. Allora era stato lui a levarla.
Forse c’era di mezzo qualche ragazza. Ma la cosa non lo convinceva.
No, Cristiano era innamorato di Luce, e Luce era la figlia del prete. E la figlia del prete non usciva mai di casa, se non per andare in chiesa. O a scuola.
No. Non era Luce.
“Ma allora dove sei?! Umbreon, odora questa camicia e cerchiamo Cristiano”
 
Ma nulla. Livio e Silvana vagavano per il Bosco Oblio senza riuscire a raccapezzarsi.
Livio prese a piangere, e si sedette su di una grossa radice che fuoriusciva dal terreno.
“Livio...” Silvana non lo aveva mai visto in quello stato. A stento era riuscita a scambiarci quattro parole.
L’uomo si levò il pesante spadone dalla fodera sulla schiena, e poi pianse ancora, ma pareva essersi sollevato di aver liberato il suo corpo da quel fardello.
Con la spada tra le mani, e la testa poggiata sulla base del manico, l’uomo piangeva copiosamente.
“Era tutto quello che avevo. Tutto ciò che mi era rimasto. Ora non ho più nulla”. Le lacrime di un uomo, contornate da parole del genere riuscivano a smuovere tutti gli animi. E quello di Silvana era smosso già appena messo piede in quel bosco.
“Non dire così” fece quella, tirando su con il naso e singhiozzando, bagnandosi il volto di un’acqua nera e sporca, come il suo trucco. “Sei un uomo bellissimo, dotato di tante qualità e talenti, e non ci vorrà molto a trovare una nuova ragione di vita”
“Silvana... io ti ringrazio. Mi stai dicendo tante belle cose, ma la verità è che io ho così poca stima di me stesso in questo momento che neanche tu, che sei la donna più bella del villaggio, riusciresti a farmi stare meglio. Ho perso Cristiano, l’ultimo pezzo del mio noi”
“Oh...” Silvana abbracciò l’uomo, e prese a piangere con più vigore. “Non... non preoccuparti... vedrai che lo ritroveremo. Sì! Lo ritroveremo!”
Livio si scrollò da dosso quel peso, e stanco, sfinito dal sonno e dalla fame, prese per mano Silvana e continuò a camminare per il bosco.
I suoi passi divenivano sempre più pesanti, trascinavano il corpo stanco dell’uomo, che portava sulle spalle il fardello della responsabilità che aveva nei confronti di suo figlio.
Non poteva aver perso Cristiano.
E poi gli sembrava di esser già passato per quel punto. Si guardava attorno, solo alberi. Alberi e tante foglie rosse, che come pezzi friabili di pane si spezzavano sotto i loro piedi.
Ma il tempo passava, ed Umbreon pareva non essere mai stato in grado di trovare Cristiano. Aveva sempre la testa bassa, e lui stesso, sfinito, dopo un po’ prese a barcollare.
Fu allora che un esemplare di Vespiqueen uscì da un albero. Il ronzio era fortissimo, ed entrambi i Pokémon dei nostri eroi presero a fiancheggiarsi. Espeon raggiunse Umbreon, e quasi a sostenerlo, si spinse sul suo fianco. Umbreon era stanco.
“Dannazione...” disse a denti stretti Livio. Un Vespiqueen non era un avversario semplice da sconfiggere, soprattutto per i due Pokémon.

“Espeon... ti prego, non falliamo... sento che siamo vicini” fece Silvana, con gli occhi spenti e smorti, mentre le forze la stavano rapidamente abbandonando. Pareva si alzassero al cielo come il vapore, quando sale in alto.
“Sì, Umbreon...” aggiunse l’altro, che poi tossì. Si accasciò lentamente sulle ginocchia, sorprendendo Silvana.
Erano quasi dodici ore che giravano in quel bosco, ma il buio era sempre lo stesso, come se il tempo non fosse mai passato. Come se qualche sadico stesse mantenendo le lancette dell’orologio ferme con le dita, per vedere le sofferenze di qualcuno allungarsi.
Giocare con la vita, giocare con la morte. A volte la differenza è molto sottile.
Livio era stanco. Ma era impossibile addormentarsi lì. Non poteva. I Pokémon selvatici, che sembravano essere a difesa di qualcosa, parevano più soldati addestrati piuttosto che Pokémon selvatici autoctoni, ed attaccavano ogni dieci passi che il fabbro faceva. Umbreon avrebbe dovuto difenderlo a spada tratta, e lui non ce la faceva più. Stessa cosa per Espeon, mentre Silvana camminava come un soldatino ubbidiente senza lamentarsi, per non permettere all'uomo di dire che fosse effettivamente una palla al piede.
“Cristiano...” fece lui, tirando fuori l’ultimo filo d’anima che gli era rimasta, per poi lentamente abbandonare ogni tipo di forza e chiudere gli occhi.
“No! Livio! Livio!” Silvana si gettò a capofitto per terra, sull'uomo, e poi rivide gli occhi di Livio riaprirsi lentamente.
“Silvana...” fece lui, mentre la donna gli manteneva le gambe sulle ginocchia. Quella piangeva, spaventata.
“Livio... ti prego, non addormentarti. Dobbiamo trovare Cristiano ed uscire da qui... se ti addormenti i Pokémon ci ammazzeranno...”
“Silvana... scusami...”
“Ecco... mangia qualcuna di questa bacche... sono mirtilli e more, niente di che, però potranno darti un po’ d’energia... le ho raccolte per momenti come questi...”
La donna mise quei frutti di bosco nella bocca dell’uomo, che prese a masticarli. Un po’ di zucchero cominciò a fluirgli nel sangue, e gli occhi si riaprirono di nuovo.

“Abbandona questa spada, Livio... pesa troppo...”
“No...”
Livio si alzò lentamente, e abbassò il capo in segno di ringraziamento alla donna. Sguainò la spada, e puntò Vespiqueen. Il Pokémon aveva rapidamente battuto Espeon, ed ora rimaneva Umbreon, che tra i due era il più stanco.

“Um... Umbreon...” Livio camminava lentamente, stanco, trascinandosi il grosso spadone dietro. Con la sua punta segnava il terreno al suo passaggio.
“Umbreon...” ripeté l’uomo, ed intanto il Pokémon cercava di schivare gli attacchi dell’avversario.
Silvana guardava l’uomo stupita del rapido recupero di forze, con il viso inverecondamente sconvolto.
“Umbreon...” ripeté ancora un’ultima volta Livio, mentre i passi per terra rompevano foglie che facevano il rumore di cristallo andato in frantumi. “...levati da lì...”
Umbreon obbedì, da bravo Pokémon, ma non fece in tempo a spostarsi che Vespiqueen lo attaccò con Lacerazione, e lui fu costretto a stendersi accanto ad Espeon, quasi esanime.
“Grazie Umbreon”. Gli occhi di Livio si spalancarono, perché doveva vedere davvero tutto alla perfezione. Vespiqueen si stava gettando a capofitto su di lui, e mostrava il suo pungiglione, puntandolo contro il petto dell’uomo.
A Livio sembrò di deglutire sabbia. Non voleva proprio scendere.
“Grazie...” ripeté di nuovo, e quando Vespiqueen fu ad un metro da lui, Livio alzò la spada con tutta la forza che aveva, e colpì il Pokémon sul pungiglione. Le lacrime al volto, l’istinto di sopravvivenza che urlava “SALVATI! COLPISCILO DANNAZIONE!” e la voglia di proteggere Silvana per poi ritrovare Cristiano.
La punta del pungiglione tintinnò al contatto con la spada, quindi Vespiqueen indietreggiò rabbiosa.
Livio prese quindi la parola.
“Perché mi attacchi?” le parole stanche dell’uomo ormai parevano cadere fuori dalla bocca come acqua da una diga crepata. “Io voglio solo trovare mio figlio... solo mio figlio... Cristiano. Sto vagando da non so quanto tempo in questo bosco, ho sonno, fame e paura”
Vespiqueen lo guardava fisso. Livio non capiva se fosse compreso o meno dalla creatura che aveva di fronte.

“Voglio solo mio figlio...”
Allora accadde qualcosa che nessuno si aspettava. Vespiqueen ritirò il pungiglione, e volò in alto, scomparendo dietro un raggio di sole.
Silvana si alzò, da che era ancora per terra dopo aver dato le bacche all'uomo, ed andò vicino a lui.
Si guardavano, impauriti e confusi entrambi. Silvana non credeva che sarebbe uscita presto, ma soprattutto viva, da quel bosco. Entrambi fecero rientrare i Pokémon, stremati, nelle loro sfere.
Poi si accorsero di qualcosa.
 
Davanti a loro c’era una porta. Sì, praticamente era una porta fatta di rami, fronde e foglie. Lì la copertura del bosco era ancora più fitta, mentre per terra ancora foglie rosse e gialle scroccavano sotto i pesanti passi stanchi dei due.
“Che c’è qui dietro?” chiese Silvana.
Livio alzò le spalle, cosa che gli costò una fatica non indifferente. Alzò la spada, e con tutta la forza che gli era rimasta aprì un varco in quella porta di foglie.
Poi la spada cadde per terra, rifiutata dalle mani rudi dell’uomo. Non aveva più forza per sollevarla.
Passarono per quell'insenatura, e si meravigliarono quando la luce del sole li investì.
“Luce... calore...” sorrise Silvana, aprendo i palmi, come per cibarsi di quelli.
Livio come sempre l’anticipava.
“Cristiano...” diceva. Avrebbe voluto urlarlo, ma si sentiva come quando faceva un sogno talmente veritiero da costringerlo ad urlare pure nella realtà, e la voce, dopo certi traumi al risveglio, è quasi nulla.
Un respiro, un filo di voce, era tutto quello che lui riusciva a dare a suo figlio in quel momento.
Camminava verso il centro di quel disco dorato, mentre foglie ed altro si mischiavano per terra, sovrapponendosi in un mosaico di colori autunnali.
“Cristiano... sei qui?”
Sì, lui lo vedeva. Era su quella roccia.
“Non è qui... non è Cristiano” disse Silvana, cercando di seguirlo.
Eppure lui lo vedeva. Vedeva qualcuno seduto su di una roccia posta proprio al centro di quella radura.
“Cristiano... vieni, andiamo”
E poi una voce, tanto profonda quanto intimorente, si diffuse in tutto quel posto.
“Cosa brami?”
“Cristiano...andiamo...”
E all’improvviso quello che Livio credeva essere Cristiano, si alzò dalla roccia e prese a volargli attorno al capo. L’uomo non riusciva bene a distinguere le forme e le figure, ma capiva che quello non era Cristiano.

“Dov’è Cristiano?”
“Cosa brami?!” urlò all'improvviso quella voce.
Livio dovette concedersi qualche altro minuto prima di atterrare nella follia, e di affondarci con tutti i calzari.
“Io... io mi chiamo Livio. Mi scusi se vengo qui a disturbarla...”
“Che vuoi da me?”

Livio sbatté velocemente lentamente le palpebre un paio di volte, accarezzando il tutto con il suo respiro. “Nulla”
“E allora cosa fai qui?”. Pareva che ogni parola dell’entità che aveva di fronte gli si attaccassero addosso come sanguisughe, che gli succhiassero fuori tutta l’anima e la forza vitale.
“Sto... sto cercando mio figlio, Cristiano...” e poi Livio prese a piangere, sfinito da quella situazione. “Sicuramente è entrato nel bosco, nonostante sapesse che non doveva farlo... sto vagando da tanto per portarlo a casa con me. Ho paura, e voglio solo riabbracciarlo”
“Molti sono venuti qui ed hanno perso i loro ricordi... è per questo che questo bosco si chiama Oblio. Perché chiunque vi entri perde la memoria...”
“Lo so... ma ho voluto sfidare questo posto e la leggenda che lo infama per amore del mio unico figlio...”
“È strano...” convenne quella voce. “Chiunque viene qui, da tanti anni a questa parte, lo fa principalmente per capire cosa provoca i vuoti di memoria... sanno che è un Pokémon, e vengono con i cuori colmi d’odio per catturarlo”
“E tu? Tu sei un Pokémon?”

I secondi che divisero le parole di Livio da quelle della voce furono interminabili.
“Io sono Uxie, colui che domina la sapienza. Sei venuto qui seguendo l’amore ed il legame che ti lega a tuo figlio, mettendo a repentaglio la tua vita, sapendo di rischiare di non uscire più da qui dentro. Ma non hai mai rinunciato al tuo cammino, mostrando la tua forza di volontà ed il tuo valore di uomo”

Livio abbassò il capo, e così rimase per automatismo. Altri eterni secondi di silenzio.
“Hai seguito la tua coscienza” proclamò Uxie. “Non la tua sete di ricchezze, né l’audacia sconsiderata. E meriti di vivere un’esistenza colma di soddisfazioni e buone cose”
Poi, d’improvviso, quella cortina di dolore, quella morsa che stringeva mente e corpo di Livio si allentò. Il dolore scemò, e gli permise di alzare ancora il capo.
“Non fissarmi” disse il Pokémon, repentino. “Sei il primo ed anche l’ultimo. Torna al villaggio, dì che il bosco ora è libero”
Gli occhi di Livio si abbassarono, il capo annuì. Restò fermo per qualche secondo, finché una luce, stavolta bianca, differente da quella del sole, lo investì.
 
“Papà! Papà, stai bene?!”
Gli occhi si schiusero lentamente, come se del mastice gli avesse attaccato le palpebre.
“Papà?! Ti ricordi di me?! Sono Cristiano”
Livio aprì gli occhi, poi li richiuse velocemente. Il sole era cattivo.
Cristiano era inginocchiato sulle fronde, e Silvana era alle sue spalle, e sorrise quando vide l’uomo aprire le braccia e stringere il figlio.
“Dove... dov’eri?”
“Ero entrato nel bosco, papà... e mi sono svegliato qui accanto a te”

“E... e stai bene?”
“Sì... sì, sto bene...ma ti ricordi chi sono?”
“Sì, tesoro... questo bosco non farà più del male a nessuno...”

“Avevo paura che ti fossi dimenticato di me”
Livio passò da steso a seduto, quindi si alzò. “No. Non potrei mai dimenticarti”
Vide il volto di Silvana. Era affamata, impaurita, stanca. Ma sorrideva.
“Eccoti sveglio... come stai?” fece lei.
Livio sorrise alla sua bellezza. Allungò una mano ed afferrò la sua.
 
 
 
“E quindi... quindi Silvana e Livio si sono sposati?!” chiese Stella, sorridendo.
“Certo” rispose il nonno, sorridendo. “Si sono sposati ed hanno cresciuto Cristiano, facendolo diventare un uomo. E da quel momento tutto cambiò”
“In che senso?” chiese Milla.
“Il nome del bosco cambiò. Ricordate? Prima si chiamava Bosco Oblio. Adesso si chiama Bosco Memoria, con l’augurio che nessuno potesse dimenticare la leggenda di quell'uomo, mosso dalla virtù che aveva spezzato l’incanto del Pokémon”
“Ed Uxie?!” chiesero le due, insieme.
“Uxie non fu più visto nella regione di Adamanta. Si dice che abbia preso dimora a Sinnoh, una terra molto lontana, dove vivono anche i suoi fratelli... ma ora andate a dormire”
“Ma noi vogliamo sentire un’altra storia!”
“Già!” rimbeccò Milla. “Noi vogliamo sentire un’altra storia!”
“Magari volete sapere che fine ha fatto quella spada enorme, vero?”
“Sì!” esclamarono entrambe.
“Questa è un’altra storia. Ora a nanna”

 
   
 
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