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Autore: Albezack    12/01/2014    6 recensioni
“Conta fino a 99, io mi nascondo”.
Me l’ero dimenticata questa sua fissazione.
“99?” domando perplesso.
“Si, perché a 100 succedono le cose brutte”.
Genere: Drammatico, Horror, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Dai Sam, giochiamo a nascondino!” dice quella piccola peste della mia sorellina.
Non ne ho la minima voglia, ma da bravo fratello maggiore devo pur darle qualche piccola soddisfazione, ogni tanto. Ad ogni modo gliele faccio sempre sudare, le mie concessioni.
“Lo sai che sei una gran scassacazzo, vero Lucy?” le rispondo, vedendo divertito la sua reazione come ogni volta che dico una parolaccia.
 “Non dire le brutte parole! La mamma non vuole!” ribatte, ridendo anche lei, “devi giocare con me, se no glielo dico!”.
“Non lo faresti” dico calmo io, “o sennò qualcosa che tu sai bene potrebbe venirti a trovare di notte, mentre dormi…in silenzio…”.
I suoi enormi occhi blu mi fissano, seri e lucidi. So delle sue piccole fobie notturne, ma come ogni fratello stronzo che si rispetti gliele scaglio contro solo per farle un dispetto. Puro piacere sadico nel vedere il terrore deformarle i tratti del viso, così identici a quelli della mamma, ma più teneri, meno segnati dal tempo.
“Dai sto scherzando, scema” le sussurro vedendo le prime lacrime affiorare ai suoi occhi. “Nascondino allora??”.
“Siii” trilla subito dopo, totalmente dimentica della mia crudeltà, “conta fino a 99, io mi nascondo”.
Me l’ero dimenticata questa sua fissazione.
 “99?” domando perplesso.
 “Si, perché a 100 succedono le cose brutte” è la risposta, laconica, come se sia la cosa più ovvia di questo mondo.
 “Non dire caz…stupidate, Lucy” asserisco secco io, “inizio a contare”. Appoggio il braccio al muro e, sbirciando con la coda dell’occhio, avvio la mia conta. “1…2...3…”.
*
Ancora quel sogno.
Erano giorni ormai che ogni sacrosanta notte tornavo con la mente a quel dannato episodio della mia infanzia.  Ed era una tortura a dirla tutta, perché non lo ricordavo affatto.
 Avevo solo delle vaghe immagini confusionarie che non mi portavano a nulla se non al buio più totale. Dopo aver iniziato la conta, tutto quello che sapevo per certo era che mi risvegliai in un letto bianco sterilizzato, in ospedale, con mio padre che mi guardava piangendo, nascondendo la faccia tra le mani.
Forse è il caso che racconti tutto dal principio con più calma.
Io, Lucy, mio padre e mia madre ci eravamo appena trasferiti in una casa di campagna a qualche centinaia di miglia da Springfield, in Illinois, vicino a Peoria. Io e mia sorella eravamo ancora bambini, io avevo dieci anni e lei sei. Mio padre dall’aspetto pareva una persona normalissima, ma la vita che conduceva era tutt’altro che comune. Lavorava per un’associazione segreta, di cui non ci ha mai voluto dire nulla, nemmeno il nome.
Sapevo per certo che non fosse una di quelle più famose, come la CIA o l’FBI, ma niente di più.
Prima vivevamo in città, a Peoria, in mezzo alle comodità, ma per motivi di lavoro mio padre spiegò che necessitava di una casa più grande, per condurre ricerche ed esperimenti.
“Anche per respirare qualche boccata di aria pulita” diceva spesso, ma si vedeva chiaramente che non era quella la ragione che realmente lo interessava.
Così ci trasferimmo qui, in questa casa, non dico isolata dal mondo, ma poco ci manca. I vicini più prossimi che avevamo stavano a circa 2 miglia da noi, la famiglia Rosworth.
 Delle brave persone, lui dentista e lei… non credo di aver mai capito che lavoro faccia. So che scriveva e spesso pubblicava libri o raccolte di racconti, ma nulla con uno stipendio fisso. D’altra parte il marito guadagnava abbastanza bene per provvedere alla vita di entrambi, così che l’attività della moglie potesse restare giusto poco più che un passatempo.
 Non avevano figli e non volevano parlare del motivo, ma erano delle persone molto piacevoli, tanto che dopo l’incidente eravamo soliti trascorrere i fine settimana assieme a loro.
 Vi starete chiedendo di quale incidente stia parlando. Piano piano ci arrivo, in quanto è tutto collegato a questo sogno che mi si ripresentava notte dopo notte.
Tornando a mio padre, era oltremodo soddisfatto della nuova casa. Ottima vista, circondata dalla vegetazione, spaziosissima. E con spaziosissima intendo dire quasi sconfinata. Più del doppio delle stanze che ci sarebbero realmente servite, senza contare che lui se ne prese ben quattro per poter adempire al suo ruolo di ricercatore per questa società misteriosa.
Spesso mi chiedevo se fossero attività legali quelle che svolgeva in quelle stanze.
 La casa era praticamente divisa in due, la parte abitativa, dove noi tutti vivevamo, e il suo studio, al primo piano, completamente insonorizzato e reso inaccessibile anche solo alla luce. Aveva murato le finestre, provvisto l’ingresso di porta blindata e uno strano aggeggio che riconosceva le impronte digitali, così che solo e soltanto lui potesse accedervi.
Anche la mamma spesso aveva tentato di carpire qualche informazione in più, ma ogni tentativo era stato vano. Le risposte erano sempre quelle, ne va della vostra incolumità, è Top Secret, anche se ve lo dicessi non ci credereste, e via dicendo.
 Fatto sta che comunque non ci faceva mancare nulla, quindi nessuno si era mai lamentato.
Abituati come eravamo alla vita di città, spesso io e mia sorella non sapevamo come passare il tempo, e fu proprio per questo motivo che quel giorno ci mettemmo a giocare a nascondino.
Era una giornata afosa d’estate, la mamma era in giardino a leggersi un libro e papà era in città per lavoro. Lucy sbuffava come un treno lamentandosi per la noia e io me ne stavo senza far niente sull’amaca che ci avevano comprato, a godermi l’ombra e la leggera brezza che soffiava tra il cicaleccio di mille insetti.
 Non mi sarei mosso per nulla al mondo.
Così quando mia sorella venne verso di me, la rispedii dalla mamma dicendo di non rompere e di trovarsi qualcosa da fare, che non mi coinvolgesse.
“E falla contenta, una volta tanto, Sam”.
“Non se ne parla, che vada a dormire, se proprio non sa che fare” risposi, “non ne ho la minima voglia”.
“Qua la vita è una pizza, mamma” aggiunsi, per farla sentire in colpa ad averci trascinato in quel posto dimenticato da Dio.
“Lo sai che non avevamo scelta Sam, tuo padre…” iniziò a spiegare per l’ennesima volta.
 “Lo so, lo so” tagliai corto.
 Fatto sta che quel giorno, mi lasciai convincere e giocai con mia sorella. Dal momento in cui finii la conta però non ricordavo più nulla. Sapevo di sicuro di aver contato fino a 100, giusto per dimostrarle la sua stupidità nel credere alle superstizioni più strampalate. Però la mia memoria era un enorme buco da lì fino al giorno del mio risveglio in ospedale, in cui mio padre mi disse tra le lacrime che Lucy e la mamma erano morte, in un incendio.
Casa nostra era stata divorata dalle fiamme, un pazzo aveva appiccato il fuoco vicino a noi ed in poco tempo era divampato in tutto il territorio circostante. Questo tizio non fu mai preso e la notizia non apparve nemmeno sui giornali. I piromani erano all’ordine del giorno, roba comune. Quindi non venne mai dato molto peso alla vicenda, anche se una donna ed una bambina vi erano rimaste uccise.
L’incendio era avvenuto quello stesso giorno, mi disse. Lui era subito scappato via dal lavoro, avvertito dai Rosworth, ma era già troppo tardi. Lucy era stata trovata carbonizzata in casa, e la mamma vicino a lei, sicuramente nel tentativo di soccorrerla. Io ero svenuto nell’ingresso, vicino all’entrata del suo studio, ma ero vivo, seppur malconcio.
Queste erano le poche informazioni che possedevo, oltre a quelle sporadiche immagini che mi apparivano in sogno, durante la notte.
Nonostante le mie proteste tornammo a vivere in quella casa, dopo averla sistemata. Quella casa che, in fondo al cuore, avevo sempre odiato. La casa che si era portata via le mie amicizie della città, e ora anche mia madre e mia sorella.
Non capivo come lui potesse voler continuare a vivere tra le mura dove sono morte.
A me la storia dell’incendio non era mai andata a genio, ero sicuro che il suo lavoro c’entrasse qualcosa. Sarà stato stupido da parte mia, ma lo percepivo chiaramente.
In quelle lacrime all’ospedale non c’era solo dispiacere, non c’era solo disperazione, avevo visto anche senso di colpa, non potevo sbagliarmi.
Passarono sei anni.
Così io, sedicenne, continuai a vivere lì, svegliarmi la mattina alle cinque per andare a scuola in città e senza uno straccio di speranza di poter andare via da quella maledetta casa.
*
“Io inizio a contare” dico appoggiando l’avambraccio al muro all’altezza delle spalle.
 Socchiudo gli occhi per vedere almeno in che posto quella piccola peste abbia intenzione di precipitarsi. Verso la cucina, a giudicare dal rumore di piccoli passi in quella direzione.
 No. Mi sbaglio, sento che si sta riavvicinando, “23…24…34”.
 “Ehi, so contare! Non imbrogliare” mi dice passando dietro di me e avventandosi sulle scale, con un fracasso terribile.
 “Certo che sarà proprio difficile trovarti con tutto il baccano che fai” scherzo alzando la voce, “50…51…”.
Nessun ulteriore rumore di passi sulle scale, evidentemente sta oculatamente scegliendo l’anfratto più impensabile del primo piano, anche se sa benissimo quanto papà non tolleri che noi ci avviciniamo troppo al suo studio.
 “89…90…manca poco, cretinonzola! Sto per arrivare” urlo per indurla a rispondermi, per iniziare a scremare qualche zona della casa.
 Ma non ci casca, nessuna risposta.
 Solo un “Non chiamare così tua sorella, Sam!” proveniente dalla finestra aperta che dava sul giardino. “99…e 100! Arrivo!”.
Sollevo la testa dal muro e punto direttamente verso le scale, intenzionato a scovarla subito e porre fine al gioco.
Sarei poi tornato a sonnecchiare sull’amaca. Arrivato a metà della salita, vedo qualcosa che non va. La porta dello studio di papà è socchiusa, il lettore di impronte disattivato.
“Sei là dentro, Lucy?” sussurro. “Esci subito, lo sai che non possiamo…” continuo avvicinandomi sempre più.
Accostandomi alla porta cautamente e facendo attenzione a non fare alcun rumore, come se mio padre possa sentirmi anche  a decina di miglia di distanza, sbircio dentro.
E poi li vedo, due occhi rossi, che brillano. In una oscurità totale.
Allargo la bocca per urlare, ma solo uno sbuffo d’aria esce dai miei polmoni. Sono paralizzato, tremo come una foglia in balia del vento…
*
Reprimendo a stento un urlo, mi sollevai a sedere.
Ero nel mio letto.
 Mi toccai la fronte imperlata da gocce di sudore. Sentivo il cuore che pulsava forte nel mio petto, senza alcun accenno a rallentare.
Fissai il muro di camera mia, nella penombra. Qualche raggio isolato di luce lunare filtrava attraverso la finestra, conferendo alla stanza un aspetto spettrale.
Cos’erano?
 Molto lentamente i battiti tornarono nella norma, mentre io iniziavo a realizzare che c’era stato qualcosa di diverso nel sogno.
Sono andato più avanti, pensai.
Se capite quello che intendo.
 Tutte le notti in cui avevo rivissuto quella scena mi ero sempre fermato alla conta. Adesso avevo visto due occhi rossi, nell’oscurità di quel posto infernale che era lo studio di mio padre.
Cos’erano?
 Dovevo saperlo. Chiedere a mio padre non era decisamente la strada da seguire, se avesse voluto dirmi qualcosa, lo avrebbe già fatto.
 Dovevo agire per conto mio, in qualche modo.
 Mi accorsi anche di un’altra cosa. Quel sogno non era normale, vivevo in primissima persona quello che stava accadendo, sentivo gli odori, le percezioni tattili. Era come se fossi perfettamente conscio di ogni mia azione nonostante non fossi sveglio.
Era un sogno lucido, non ci misi molto a capirlo. Ne avevo fatti altri, talvolta. Alcuni anche molto piacevoli…
Con questi pensieri ricaddi in un sonno profondo per quello che rimaneva della notte, senza sogni.
*
La mattina successiva finsi di non sentirmi bene, così mio padre mi lasciò a letto dopo essere venuto a chiamarmi alle cinque dicendomi di preparare le mie cose per la scuola.
 Quel giorno sarebbe andato in città, così avrei potuto avere la casa tutta per me. Curiosare a mio piacimento, avvicinarmi allo studio, magari avere la fortuna di trovarlo aperto.
Aspettai di sentire il portone di casa richiudersi, lasciai passare una decina di minuti e balzai giù dal letto. Mi diressi subito verso lo studio. Ovviamente chiuso, ermeticamente. Impenetrabile. Sbuffai infastidito. Nessuna via d’accesso. Eppure dovevo sapere cosa avvenisse al suo interno, dovevo sapere cosa fossero quegli occhi rossi che avevo visto di notte. D’altra parte ero solo un semplice ragazzino, non sapevo minimamente che fare.
Sentendomi impotente, scesi a fare colazione. Un paio di fette di pane e burro di arachidi, accompagnate da un succo d’arancia. Una volta sazio, tornai in camera mia. Accesi il pc e decisi di informarmi al meglio sui sogni lucidi. Imparai una marea di cose interessanti, tanto per cominciare che in alcuni casi venivano chiamati anche viaggi astrali, esperienze extracorporee e via dicendo. Ma la cosa più importante era senza dubbio che esistevano metodi per indurli. Contare mentalmente, visualizzare il corpo intensamente parte per parte. Mi sembravano un mucchio di fandonie, ma provare non costava nulla, così mi appuntai mentalmente di tentare, la notte successiva.
Appena rincasato, mio padre mi informò che nel fine settimana i Rosworth avevano intenzione di fare una grigliata a casa loro.
 “Ti va?” mi chiese con un sorriso, “le bistecche di Anthony sono leggendarie, Sam, e poi un po’ di aria aperta di farà bene, stai sempre chiuso in casa”.
“Ok, papà” risposi senza troppa convinzione, mentre guardavo un quiz alla tv. E’ incredibile ripensare alla quantità di porcherie che guardavo da ragazzo.
 “Il frigo è vuoto” gli feci notare, “ci prendiamo due pizze?”.
 “Vada per le pizze” ribattè affabile, “di andare a fare la spesa proprio non ne ho voglia”.
Una chiamata in città e nel giro di un’ora due pizze ci furono recapitate a casa. Il fattorino odiava i nostri ordini, abitando in un posto così isolato. D’altra parte si sentiva l’assenza di una presenza femminile in casa e spesso mangiavamo cibo già precotto o utilizzavamo servizi a domicilio.
Quella sera a letto mi impegnai per ricordarmi tutto quello che avevo appreso sui sogni durante la giornata.
Decisi di provare con la tecnica dell’onda azzurra. Già il nome mi appariva ridicolo, così come la scelta del colore. Visualizzare il corpo lentamente e immaginarlo riempirsi di azzurro, dai piedi fino alla punta dei capelli. Perché azzurro? Cosa sarebbe cambiato se mi fossi concentrato sul verde? O sul rosso? Mah, comunque optai per seguire alla lettera le istruzioni di internet. Questa tecnica sembrava quella più sicura e con più riscontri positivi. Dopo un tempo che non avrei saputo quantificare bene, caddi in un sonno senza sogni.
La mattina mi svegliai demoralizzato, sentendomi stupido per aver dato credito a quel mucchio di cazzate lette su quei siti strambi di creduloni. Cose affascinanti, certo, ma con delle basi ridicole, come astrologia ed affini.
 Era sabato, quindi mi preparai molto velocemente. I Rosworth ci aspettavano verso le dieci di mattina, per iniziare a preparare la griglia. Mio padre era già in macchina ad aspettarmi, “sei pronto, campione?”. “Come sempre” risposi chiudendo lo sportello.
Odiavo sentirmi chiamare campione. Non sapevo perché, ma mi dava un fastidio terribile. Come quando uno vuole essere simpatico ad ogni costo per nasconderti qualcosa. E lui ne aveva di cose da nascondere, ne sono certo. E non sto parlando solo del suo lavoro, ma anche su quel giorno, sei anni prima.
Appena arrivati, trovammo Anthony già alle prese con carbonella e diavolina, con un grembiulino a tema che lo rendeva abbastanza ridicolo.
“Sono arrivati i nostri ospiti, Diana” chiamò la moglie dal giardino, “Sam sembra parecchio affamato, inizia a portare le costine!” proseguì strizzandomi l’occhio.
“Allora Sam, la scuola come va?” mi chiese, mentre Diana uscì dalla cucina con un sacchetto di carne, abbastanza per sfamare un piccolo branco di leoni.
“Il solito, pare che sarò promosso anche quest’anno, signor Rosworth”.
“Cristo Sam, ci conosciamo da una vita, chiamami Anthony” esclamò allegro, mentre la brace iniziava a surriscaldarsi e mandare qualche sfrigolio.
Le ore successive le passammo a rimpinzarci di carne e verdure cotte alla griglia. Alle tre del pomeriggio eravamo talmente pieni da non aver nemmeno la forza di parlare. Approfittai dei pochi minuti in cui mio padre andò in bagno per porre qualche domanda al nostro vicino.
“Signor…Anthony volevo chiederle una cosa” iniziai.
“Quel giorno…”. Subito il suo sguardo si fece serio, il sorriso morto inesorabilmente sulle labbra.
“Cosa vuoi sapere, Sam?” mi chiese. Si sentiva chiaramente che toccare questo argomento facesse tanto male a lui quanto a me, alla fine si era affezionato molto sia a mia madre che alla piccola Lucy.
“Quel giorno, le sembra che ci sia stato qualcosa di strano?” continuai, “voglio dire…qualcosa che non torna”.
Lui sembrò riflettere un attimo, con sguardo interrogativo, poi rispose “non direi, no, anche se…”.
“Anche se?” lo incalzai.
 “Anche se mi sono sempre chiesto come abbia fatto ad arrivare così in fretta tuo padre quando lo chiamai per avvertirlo del fumo nero che si levava dalla vostra zona” spiegò, “alla fine Peoria dista qualche decina di miglia da qui…”.
“Capisco, signor Ros…Anthony” risposi gentilmente, adocchiando mio padre che usciva dalla cucina. Così decisi di lasciar cadere l’argomento.
Dopo qualche convenevole optammo per rincasare, il rosso del tramonto aveva già inondato il paesaggio e volevamo essere di ritorno prima che facesse buio. Non avremmo comunque mangiato nulla quella sera, ci eravamo letteralmente abbuffati.
Appena arrivati ci piazzammo davanti alla tv, in silenzio, lui immerso in so quali pensieri ed io nelle mie mille domande. Domande che avevo paura a porgli.
Durante la pubblicità del film che stavamo vedendo, The Silence Of The Lambs, raccolsi un minimo di coraggio e mi convinsi ad affrontarlo, partendo molto alla lontana.
“Ho sentito che ci sono degli animali dagli occhi rossi” iniziai, “quasi luminescenti, che permettono loro una vista praticamente normale anche in condizioni di penombra e oscurità”.
Lui mi guardò perplesso, probabilmente chiedendosi dove volessi arrivare. Ovviamente stavo inventando di sana pianta, l’unico dettaglio ben chiaro nella mia mente erano quei due occhi rossi, che mi fissavano attraverso la porta socchiusa del suo studio.
“Si?” disse simulando interesse, ma riportando gli occhi sullo schermo: eravamo giunti alla celebre scena in cui Hannibal viene scortato nella sua cella/biblioteca privata.
“Davvero, tu li hai mai visti?” continuai, “non pensavo fosse possibile”.
“No, non credo, sto sempre chiuso in ufficio in città o in casa, non giro molto per il mondo ormai” rispose sorridendo, “appena ne vedo uno te lo faccio sapere campione”.
Nulla. Come prevedibile non riuscii a cavare un ragno dal buco. Dal suo tono comunque non sembrava sospettare alcunchè. Speravo solo che il nostro vicino non gli spifferasse le mie domande. Ma da quello che avevo potuto notare, anche lui aveva qualche riserva sull’argomento.
Lasciai finire il film e salii in camera mia, sperando che la notte mi portasse qualche nuova informazione.
*
Due occhi rossi, che mi guardano, immobili. Poi una voce proveniente dall’oscurità. La sua voce, di Lucy. “Sam…vieni…”. Poi il buio.
*
Giorno e notte continuavo a pensarci. Non riuscivo più a togliermi dalla testa quella scena. Avete presente quando un ritornello vi si stampa nella mente e non potete farci niente? E continuate a girare per casa fischiettandolo, anche involontariamente.
Ecco questo è quello che capitava a me. Non avevo più concentrazione per nulla, studio, quei pochi amici che mi ero fatto alla scuola superiore.
Niente. Solo quei due occhi rossi. E quella voce.
Chi mi aveva chiamato?  Era la sua voce, come negarlo. Quando cresci con qualcuno per anni, non puoi sbagliarti su certe cose.
Contemporaneamente mio padre divenne sempre più assente. E non sto parlando solo nel senso fisico del termine. Iniziai a dover dormire dai Rosworth, in quanto doveva spesso partire per giorni, a volte anche per settimane, per lavoro.
Le volte che gli rivolgevo la parola era spesso distratto, non ero più in grado di distoglierlo da quello che gli passava per la mente anche per soli cinque minuti.
Durante i miei soggiorni dai vicini incalzai spesso Anthony, per ricavare qualche informazione in più. Ma anche lui, oltre qualche dubbio, non aveva null’altro da spartire con me.
Lo sentii un giorno mentre litigava con mio padre, riguardo la mia educazione. Era tornato dopo quasi dieci giorni dall’Europa. Il sig. Rosworth sosteneva che fosse troppo assente, non poteva permettersi di mettere al mondo un figlio per poi lasciarlo in balia di se stesso quasi ogni giorno. Non si compra la felicità coi soldi. Non bastava regalarmi l’ultimo videogame o non mettere bocca se per caso mi fosse venuta voglia di farmi un tatuaggio. Avere un figlio vuol dire qualcosa di più.
Sentii mio padre piangere, ma non per questo cambiò le sue abitudini. Anzi i suoi periodi di assenza si intensificarono sempre più, fino al giorno in cui sparì del tutto, senza alcun preavviso. Poche righe, spedite tramite telegramma.
Ciao Sam starò via per un po’ stop non preoccuparti stop Anthony si occuperà di te nella mia assenza stop ti voglio bene stop
Avevo vent’anni. Ci rimasi male, si. Ma me l’aspettavo, inutile negarlo. Quando inizi a passare giorni come Natale o Pasqua non in famiglia, non puoi negare a te stesso che un giorno del genere sarebbe prima o poi arrivato.
Il signor Rosworth ormai era come un padre per me. Aveva assunto a tutti gli effetti il ruolo che il mio non aveva mai realmente rivendicato. E sua moglie, Nina, era davvero una brava donna. Premurosa, simpatica.
Ma non come la mamma, lei era perfetta, sia con me che con Lucy. Non la dimenticherò mai.
Non fece in tempo a passare nemmeno un anno, che risentii parlare di mio padre, al telegiornale. Era sera e stavamo cenando in veranda. Ma come usanza in quel periodo lasciavamo la tv accesa, per poter almeno sentire le notizie. Appena captai il suo nome schizzai in piedi, quasi rovesciando la tavola apparecchiata. I miei nuovi genitori mi seguirono all’istante.
Ci trovammo tutti e tre a fissare appiccicati il microscopico televisore della cucina, che arrivava a stento a quindici pollici.
“…scienziato trovato morto questa mattina, in condizioni orribili, in un albergo di Glasgow. Si suppone che siano implicate associazioni malavitose…”
Morto. Mio padre.
Ero rimasto solo al mondo. Anthony e Nina mi abbracciarono forte, senza proferire parola. Le lacrime mi inumidivano gli occhi, sebbene io non lo avessi mai conosciuto bene. Non per davvero. E anche in quel momento non sapevo assolutamente nulla. Non lo auguro a nessuno.
Avevo vissuto una vita, di cui per metà solo, senza sapere né chi fosse realmente, né la verità sul giorno in cui morirono mia madre e mia sorella.
E quegli occhi? Era Lucy?
Non mi davo pace, non era giusto. Non aveva diritto di morire. MI doveva delle spiegazioni, prima. Ma ormai se n’era andato, e io non potevo far altro che accettarlo. Magari col tempo mi sarebbe passato, per quanto impossibile.
Poi arrivò quel giorno. Il giorno in cui seppi tutto, ogni cosa. E l’odio per mio padre crebbe. Al punto da indurmi a cambiare cognome. Non volevo più avere nulla a che fare con lui. Sam Rosworth, suonava decisamente meglio.
Mi ero appena svegliato, era estate. Non avevo la minima voglia di scendere dal letto, e la sveglia sul comodino segnava le nove passate abbondantemente. Le cicale erano già al lavoro e mi sentivo già stanco. Come solo una giornata estiva assolata può farti sentire.
“Sam”
Era Anthony, fuori dalla porta. Ormai vivevo con loro da anni, ma comunque vi era ancora una sottile barriera tra noi. Barriera che si spezza solo col legame di sangue. Ma nonostante tutto per me era stato molto più padre lui, che non quello che mi aveva messo al mondo. Sicuramente.
“Entra pure, ora mi alzo” biascicai con gli occhi ancora mezzi impastati.
Entrò mentre mi mettevo a sedere sul letto. Notai che aveva qualcosa in mano, una busta. Una busta aperta.
“Cos’è?” chiesi curioso. Ma mentre la prendevo dalle sue mani, riconobbi la sua grafia, stretta e alta, inclinata. Molto elegante devo dire. Non so perché notai quel dettaglio, ma era davvero una bella grafia. Di quelle che di solito vedi sulle bottiglie di whiskey o brandy costosi. Il nome non era il suo, ma la grafia era inconfondibile.
“L’ho aperta…” si scusò lui abbassando gli occhi, “non ho saputo resistere, sei sicuro di voler legg…”.
Ma ormai non lo stavo più ascoltando. Col cuore che perdeva un battito avevo già scorso le prime righe, e un bruciore acuto iniziò a premermi da dietro gli occhi. Riporto di seguito la lettera, così come arrivò nelle mie mani.
Caro Sam,
se stai leggendo queste righe probabilmente sono già morto. Non dovresti sapere niente di tutta questa storia, ma credo di doverti delle spiegazioni. Se solo sapessero quello che sto facendo saresti in pericolo, ma mi sono attrezzato per agire il più discretamente possibile. Lascerò questa busta sigillata ad caro collega ed amico, che provvederà ad inviartela solo dopo la mia morte. Mi fido di lui, gli affiderei la mia stessa vita, se questo servisse a qualcosa. Dopo che avrai letto questa lettera, bruciala. Ti chiedo questo ultimo favore.
Parto dal principio.
Come sai il mio lavoro era segreto. Non sto a dirti nemmeno ora chi fossero i miei superiori in quanto sarebbe inutile e perché non voglio instillare in te il verme della vendetta. Fatto sta che il mio ruolo era quello di ricercatore, in ambito batterico. Studiavo delle nuove specie, con le più svariate finalità, di cui io stesso ero all’oscuro. Sicuramente molte mie scoperte non venivano utilizzate per fare del bene, ma questo non posso saperlo e non VOGLIO saperlo. ‘Facile non assumersi le colpe nascondendo la testa sotto la sabbia’ starai dicendo. Si forse è così. Ad ogni modo tutto filava liscio, fino a quel giorno, il giorno in cui sintetizzai un agente batterico con delle caratteristiche, diciamo, particolari. Induceva una mutazione se sottoposto ad organismi viventi. Lo testai su cavie da laboratorio, prevalentemente, ma in seguito anche su animali più grossi come gatti o piccoli cani. Inibiva la razionalità, amplificava la forza, instillava un istinto omicida. Gli occhi divenivano rosso sangue. Non vi era antidoto. Era una scoperta grossa, puoi capire anche tu quali potenzialità una simile arma avrebbe avuto in guerra. Avrebbe distrutto intere civiltà, rivoltando il nemico contro se stesso, preda unicamente di una violenza inaudita. Insomma la portata di tale scoperta era inimmaginabile. Volevo nascondere tutto, ma forse per orgoglio, forse per avidità rivelai ai miei superiori quello che avevo creato. Mi chiesero immediatamente un campione, per effettuare dei test.
Il giorno in cui sono morte, Sam, dovevo portare quel campione a Peoria. A metà strada mi sentii morire. Rovistando nella borsa mi accorsi di averlo lasciato a casa, e non rammentavo nemmeno se gli allarmi dello studio erano stati inseriti. Ero troppo agitato per il salto che la mia carriera avrebbe fatto quel giorno, avrei realizzato i sogni di una vita. Feci inversione e tornai a casa, più velocemente che potei. Ma era troppo tardi. Trovai te riverso sul pavimento, privo di coscienza e Lucy, la mia piccola Lucy che strangolava tua madre, dopo avergli piantato un coltello da cucina nel petto. Se non fossi arrivato in tempo probabilmente saresti morto anche te. Ancora oggi non mi spiego come mai Lucy non ti avesse ucciso subito. Non vi era antidoto. Estrassi la pistola in dotazione dell’azienda, munita addirittura di silenziatore. Come nei film. E le sparai, quattro volte. La mia mira non era questo granchè, non avevo mai sparato.
Ma l’orrore non era ancora finito, dovevo fermare quel batterio. E l’unico modo che avevo per farlo era dare fuoco alla casa. I batteri non sopportano le alte temperature. Estrassi il coltello dal corpo esanime di mia moglie e la avvicinai a Lucy. Pareva che si abbracciassero.
Ti presi in braccio sperando che non fossi stato infettato e uscii in giardino. Cercai la tanica di benzina nel garage e dopo un quarto d’ora la casa era in fiamme. Mi arrivò la chiamata di Anthony, che vedeva del fumo provenire dalla nostra zona. Lo sapevo già troppo bene. Ho pianto durante tutto il tragitto da casa nostra all’ospedale, dove ti ho lasciato. Ho pagato il medico legale, per essere sicuro che non trovasse pallottole nel corpo di Lucy, o ferite di armi da taglio in quello della mamma. Non volevo lasciarti solo, non te lo meritavi. Non dovevo finire in prigione.
Da quel giorno nei nostri ambienti si iniziò a vociferare della mia scoperta e la mia presenza era sempre più richiesta. Anche per mercanteggiare con aziende europee analoghe alla nostra. Tutti parevano interessati a questo orribile e macabro batterio. In questo momento abbiamo rifiutato offerte altissime, perché provenienti da ambienti della malavita. Ma certe persone non si arrendono e so di essere sotto osservazione. Mi controllano sempre, vedo occhi ovunque. Mi uccideranno, lo so, perché io non rivelerò mai nulla a riguardo alle persone sbagliate, nemmeno sotto tortura. Spero che tu non legga mai questa lettera, ma lo ritengo molto probabile.
Ti voglio bene,
tuo papà.
Con gli occhi rigati dalle lacrime, scesi nel salotto e accesi il camino. Anche se era estate ed il caldo praticamente insopportabile. Gettai la lettera là dentro, come a voler cancellare la parte più dolorosa del mio passato.
*
Sono passati dieci anni, e il verificarsi di crimini ripetuti inizia a turbarmi decisamente. Non ho più pensato a mio padre, non ho più voluto farlo.
Ma questa nuova ondata di violenza mi preoccupa, non sembrano esserci moventi, solo vittime. Spesso la gente si suicida poco dopo aver ammazzato l’intera famiglia.
Mentre mi sto rasando, davanti allo specchio, noto una piccola scintilla nel blu dei miei occhi. Mi avvicino per guardare meglio. Una sfumatura rossa.
La lametta del rasoio sta diventando improvvisamente molto interessante, come mai?
 
  
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