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Autore: _Pulse_    16/01/2014    7 recensioni
Aveva quasi ritenuto scontato il fatto che non avrebbe visto Molly quel giorno. Eppure eccola, seduta di fronte a lui, pronta ad aiutare chiunque avesse bisogno di lei. Non che questo escludesse per forza che se non fosse stato necessario avrebbe preferito di gran lunga non vederlo, ma era segretamente contento di vederla.
«Avresti dovuto almeno asciugarti i capelli».
«Lo so, non è normale uscire di casa in questo stato solo per comprarsi delle ciambelle, ma non vanificare tutti gli sforzi che stanno facendo per…».
Sherlock simulò un colpo di tosse, attirando la sua attenzione. «Volevo solo dire che potresti ammalarti, ma apprezzo la tua deduzione sulle mie deduzioni». Le sorrise e poté quasi percepire gran parte della tensione che Molly si era portata dietro scomparire accompagnata da una sua debole risata.
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Molly Hooper, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Brain and Heart'
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Buon pomeriggio!
Ecco qui la terza e credo ultima one-shot di questa serie. Segue infatti “A criminal’s ex-girlfriend” e “That stupid coat”, e io per prima sono stupita di ciò che ho appena scritto. Tre mesi fa non avrei mai immaginato di poter scrivere fanfiction su Sherlock! Eppure in qualche modo ci sono riuscita e ringrazio chi ha speso del tempo per leggere e lasciare due righe di commento: è stato davvero emozionante, grazie di cuore.
Ora non voglio dilungarmi troppo e la chiudo qui, sperando come al solito di non essere andata troppo OOC con i personaggi e che sia una storia perlomeno plausibile. 
(Possibili riferimenti alla terza stagione, escluso - in modo totale - l’ultimo episodio).
Un abbraccio!

_Pulse_

 NB: I personaggi appartengono ai loro autori e questo scritto non ha alcuno scopo di lucro.

 

__________________________________________________

It’s not always a surprise

 

Mary raggiunse il marito in cucina e gli avvolse le braccia intorno al collo, poi gli posò un bacio sulla tempia sinistra ed adocchiò ciò che stava scrivendo al PC.

«A che punto siamo con i preparativi?».

John accennò un sorriso ironico. «Siamo?».

«Ehi, un certo dottore mi ha detto che devo stare a riposo!».

«Intendevo solo dire che non dovresti fare sforzi fisici, lo sai benissimo».

La signora Watson si sedette accanto a lui e gli prese una mano per posarla sulla sua pancia gonfia. John sospirò e socchiuse gli occhi, certo che ciò che stesse toccando fosse la pura e semplice felicità, la gioia di vivere che solo altre due persone, dopo il suo ritorno dall'Afghanistan, erano riuscite a ridargli. Entro due mesi ce ne sarebbe stata una terza, la più importante di tutte, e non stava più nella pelle, nonostante ne fosse anche un po' spaventato.

«Come possiamo aiutarti?», gli chiese la moglie ad un tratto, riportandolo alla realtà.

John girò il PC portatile verso di lei ed indicò i vari punti avvicinando una penna allo schermo: «Ho già comprato quasi tutto il necessario, stasera passerò in pasticceria».

Mary serrò gli occhi, sollevando una mano. «Non dire altro, o tuo figlio potrebbe nascere con una voglia gigantesca a forma di fetta di torta al cioccolato».

«Poi tu e Greg cercherete a turno di tene–».

«E Molly?», domandò, interrompendolo.

John si lasciò andare contro lo schienale della sedia e si massaggiò la fronte. «Ho provato a convincerla, ma non crede sia il caso».

«Non crede sia il caso? Giuro che se è ancora per ciò che è successo a Natale...!».

«Non solo per quello. Si sente tremendamente in colpa di averci dato buca a Natale, ma...».

«Ma non ha alcun senso!».

«Lo so, gliel'ho ripetuto non so quante volte anche io. Oltre a questo, dice che si sentirebbe a disagio perché non ha ancora avuto l'occasione di chiarire con lui la questione della “cena rifiutata per errore”».

«Ma questa sarebbe proprio l'occasione perfetta!».

«E ha anche detto che in questi giorni non ha cadaveri abbastanza interessanti da mostrargli, quindi non assicurerebbe la riuscita del –».

«John, quella ragazza si sta aggrappando ad un sacco di scuse», decretò Mary, alzandosi in piedi.

«Che cosa mi consigli di fare?», le chiese, intrecciando le mani davanti alla bocca.

«Nulla. Me ne occuperò io. Oggi è di turno al Bart's?».

«Sì, ma... vuoi andare a parlarle di persona?».

«È l'unico modo per convincerla. Nessuno dice mai di no ad una donna incinta», gli fece l'occhiolino e andò a prepararsi.

John sorrise e tornò a concentrarsi sulla pagina Word intitolata: “Buon Compleanno, Sherlock!”.

 

***

 

Lo squillo del telefono, improvviso ed echeggiante nel silenzio perfetto dell'obitorio, la fece trasalire. Si tolse i guanti di plastica ed abbassò la mascherina che portava sul viso, quindi alzò la cornetta e se la portò all'orecchio.

«Pronto?».

«Ciao Molly, c'è qui per te la signora Watson. Sali o la faccio scendere?».

La ragazza si gettò un'occhiata alle spalle, verso la donna in avanzato stato di decomposizione che le avevano appena portato. Non era un bello spettacolo per lei, che ci era abituata, figuriamoci per una donna al settimo mese di gravidanza.

«Salgo io. Dammi cinque minuti».

Sistemò la cornetta e alzò gli occhi al soffitto, respirando profondamente. Aveva già capito di che cosa si trattava: l'ennesimo tentativo di coinvolgerla nei preparativi della festa a sorpresa per il compleanno di Sherlock.
Si armò di tutta la propria volontà e salì al piano superiore. Trovò Mary in piedi vicino al bancone della sala d'aspetto e dopo averla salutata con due baci sulle guance la invitò a seguirla.
Raggiunsero il laboratorio d'analisi chiacchierando del più e del meno: delle previsioni che davano neve ininterrotta per i prossimi giorni, di come avevano passato l'ultimo dell'anno e delle problematiche dovute alla pancia.

«È così ingombrante, a volte! È come portare in giro un pallone da basket!».

Molly accennò un sorriso e per un attimo provò un po' di gelosia. Sin da bambina aveva sempre desiderato avere dei bambini, era il suo sogno più grande, ma gli anni passavano e lei rimaneva sempre single, a rimpiangere le occasioni buttate e quelle in cui era stata lei ad essere stata buttata via. Inevitabilmente, non poté fare a meno di chiedersi se Sherlock ci avesse mai pensato.

Lo stava immaginando accanto ad una culla, intento a suonare una ninna nanna col suo violino, quando Mary le schioccò le dita davanti al viso, cercando di farla scendere dalle nuvole.

«Molly, mi stai ascoltando?».

La ragazza sbatté più volte le palpebre e le sorrise frettolosamente. «Sì, scusami. Che ci fai da queste parti?».

Mary abbandonò la borsa sul tavolo e tirò a sé uno sgabello per sedersi e far riposare le caviglie doloranti.
«Penso che tu lo sappia già», replicò in tono pacato, tenendosi il viso tra le mani.

Molly sospirò, sedendosi al suo fianco. «La festa a sorpresa per Sherlock».

«Brava. Non puoi mancare, Molly. Lui ci rimarrebbe davvero male».

«Io non ne sarei così sicura…».

«E invece io lo sono. Alla Vigilia di Natale ha monopolizzato il divano per tutta la sera, ha parlato a malapena e non ha nemmeno suonato il violino per la signora Hudson».

Molly aprì la bocca, con le lacrime che le pizzicavano gli angoli degli occhi, ma Mary aggiunse, stringendole una mano: «Non è assolutamente colpa tua se non c’eri, tesoro, voglio che questo ti sia ben chiaro. Sto solo cercando di farti capire quanto sia importante la tua presenza».
La signora Watson le sollevò il mento con la punta delle dita e guardandola negli occhi le rivolse un sorriso incoraggiante. Ci vollero solo un paio di secondi perché Molly cedesse e ricambiasse il sorriso, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

«Che cosa devo fare, esattamente?».

 

***

 

Sherlock, imperturbabile, fissò a sua volta l’ispettore Lestrade. Se aveva intenzione di sfidarlo a chi avrebbe resistito più a lungo, allora non aveva alcuna possibilità di vittoria.

«Tutto qui?», chiese con voce atona, gli occhi azzurri attraversati da un bagliore di pura intelligenza.

Greg sollevò le braccia, come a volersi appellare ad una forza superiore. «Sono esterrefatto! Volevi sentirtelo dire?».

Sherlock nascose un sorrisino dietro il bavero del cappotto.

Nel giro di nemmeno quarantacinque minuti era riuscito a risolvere un intero scatolone di casi irrisolti, avvalendosi soltanto dell’elenco delle prove raccolte sul luogo del delitto, delle foto, dei rapporti degli agenti – la maggior parte dei quali incompleti o addirittura pieni di contraddizioni – e delle eventuali testimonianze.
Era stato divertente, fino ad un certo punto. Precisamente fino a quando una parte del suo cervello aveva preso ad indagare su un altro caso, una consapevolezza che gli aveva sfiorato la nuca come il vento freddo di quei giorni: per qualche motivo lo stavano tenendo lontano dal suo appartamento.
Prima Mary, la quale lo aveva invitato a pranzo da lei, supplicandolo di farle almeno compagnia, se proprio non aveva intenzione di mangiare; poi Lestrade, il quale lo aveva chiamato dicendogli di avere un caso molto interessante tra le mani, un caso che richiedeva la sua speciale consulenza. Stranamente, una volta arrivato a Scotland Yard era stato informato che purtroppo l’indagine non era più in mano sua. «Ordini dall’alto», aveva commentato l’ispettore, per poi tirare fuori quel vecchio scatolone di casi irrisolti.
Era proprio curioso di sapere che cos’altro si sarebbe inventato, ora. Era evidente infatti che stessero tutti seguendo una tabella di marcia e che Lestrade l’avesse intrattenuto per troppo poco tempo, viste le frequenti occhiate che lanciava all’orologio alle sue spalle.

Ad un certo punto si alzò dalla propria poltrona e con un piccolo sorriso sulle labbra gli disse: «Vado un attimo in bagno, aspettami qui».

Sherlock annuì, senza proferire verbo.

 

***

 

Afferrò il cellulare dopo essersi strofinata velocemente le mani sull’asciugamano e se lo portò all’orecchio: «Pronto?».

«Molly, dimmi che sei già pronta».

«Greg! Manca ancora un’ora e mezza, sono appena uscita dalla doccia!».
Forse questo non avrei dovuto dirlo, pensò la ragazza ascoltando il silenzio imbarazzato all’altro capo del telefono. 
«Cerco di fare il prima possibile», aggiunse in fretta.

«Okay. Noi ci incamminiamo, mandami un sms quando stai per arrivare».

Molly sbuffò e si guardò allo specchio: i capelli lunghi, completamente fradici, stavano gocciolando dappertutto. Non avrebbe mai avuto il tempo di asciugarli a dovere.

 

***

 

«Hai fatto in fretta», mormorò Sherlock, senza voltarsi.

«Già. Ti va un caffè? C’è una caffetteria, ad un paio d’isolati da qui, che fa il migliore espresso di Londra. L’ho scoperta un paio di settimane fa».

«Deve fare anche delle ottime ciambelle», esclamò, alzandosi in modo fluido, quasi felino.

«Sì, è così. Come…?».

«Sei ingrassato».

Greg roteò gli occhi e lo seguì fuori dall’ufficio. «Questo non è vero».

«Invece sì».

 

Greg insisté perché si facessero una camminata e Sherlock acconsentì di buon grado, stranamente. Era fin troppo calmo ed accondiscendente, come se non gli importasse nulla di perdere del tempo prezioso. Il sospetto che li avesse già smascherati si insinuò nella sua mente, ma altrettanto velocemente venne dimenticato, quando il consulente investigativo tentò di far partire una conversazione più o meno normale.

«Hai visto Anderson, ultimamente?».

«No, non di recente. Come mai me lo chiedi?».

Sherlock si strinse nelle spalle. «Curiosità. Pensavo sarebbe tornato a lavorare con te, dopo il mio ritorno».

«Io avrei pure messo una buona parola per lui, se solo avesse inoltrato la domanda».

«Avrà trovato qualcosa di meglio», dedusse, pensando di chiudere lì il discorso. Lestrade invece scosse il capo, schioccando la lingua contro il palato.

«Penso non sia tornato per via di Donovan. Dopo la tua… la tua caduta, ha sempre sostenuto che fosse stata lei a mettergli quel tarlo nella testa, a convincerlo che tu eri un imbroglione. Ma forse stava solo cercando qualcuno su cui scaricare il suo senso di colpa».

Sherlock rimase in silenzio, riflettendo sulle parole dell’ispettore di Scotland Yard. In quei mesi gli era capitato, di tanto in tanto, di incrociare il sergente Donovan, ma non si erano mai rivolti la parola: lei lo aveva sempre evitato, allontanandosi non appena lo vedeva arrivare, non azzardandosi nemmeno a guardarlo negli occhi. Chiaramente anche lei si sentiva in colpa e il fatto che lui non fosse davvero morto non l’aveva aiutata a superare quella specie di trauma, anzi. Un giorno magari avrebbe potuto farsene una ragione, ma con lui di nuovo in carreggiata, tra le strade di Londra, quel giorno non sarebbe mai arrivato: avrebbe sempre ricordato il momento in cui aveva spinto un altro essere umano a togliersi la vita, sempre.

«Eccoci, è questa la caffetteria di cui ti parlavo», esclamò Lestrade con un sorriso fin troppo radioso. Sherlock notò lo sguardo fugace che gettò al proprio cellulare mentre apriva la porta, ma non disse nulla.

Si sedettero al tavolo in fondo al locale, accanto alle vetrate che davano sulla strada, e quasi immediatamente una cameriera passò a ritirare le loro ordinazioni. Lestrade prese il famoso espresso, mentre Sherlock si limitò ad una tazza di tè.

Greg, a corto di argomenti, si ritrovò a fissarlo in silenzio, domandandosi cosa accadesse esattamente nella sua testa ogni volta che i suoi occhi si posavano sulle persone.
«Non ti stanchi mai, Sherlock?».

Il detective gli gettò una rapida occhiata, per poi tornare a concentrarsi sulla strada, col suo tè tra le mani.

«Insomma… Non fai altro che dire che tutti noi vediamo, ma non osserviamo. Ti capita mai di non voler osservare? Di voler pensare soltanto: “Che belle scarpe”, invece di dedurre le strade che hanno percorso?».

«Posso farlo, se voglio», mormorò, mordendosi leggermente il labbro.

Greg ridacchiò. «No, non puoi. Forse l’alcool e altre sostanze potenzialmente illegali potrebbero darti una mano, ma…».

«Sì, a volte mi stanco», rispose alzando la voce, interrompendolo. «Vorrei poter ignorare ciò che mi sta di fronte, non rendermi conto dell’evidenza. Renderebbe alcune cose più semplici. Ma allo stesso tempo più difficili, perché mi troverei impreparato». Lo guardò con gli occhi leggermente sgranati e con un finto sorriso sulle labbra sussurrò: «Contento?».

L’ispettore, incerto sulla risposta giusta da dargli, scelse il silenzio, rotto soltanto dalla suoneria di notifica per gli sms del suo cellulare. Lo estrasse dalla giacca e fu quasi sul punto di sospirare di sollievo: Molly era dietro l’angolo.

«Buone notizie?», gli chiese Sherlock, bevendo un altro sorso di tè.

Greg buttò giù tutto d’un fiato il suo espresso, ancora bollente, e rispose con un cenno d’assenso del capo. Si alzò non appena vide Molly passare accanto alla vetrata della caffetteria e pregò perché Sherlock si rifilasse la scusa dell’impegno improvviso, ma si bloccò: raramente vedeva quell’espressione sul suo volto, raramente essa durava più a lungo di qualche frazione di secondo, il tempo necessario a Sherlock per rendersene conto e tornare ad indossare quella maschera di imperturbabilità e disinteresse che lo contraddistingueva.
Sherlock era sorpreso, impreparato, e solo ora Greg riusciva a comprendere appieno le sue parole: non sapere lo rendeva fragile, insicuro, e questo doveva spaventarlo.

«Molly!», esclamò, facendo del suo meglio per fingere di non averla attesa fino a quel momento. «Che coincidenza! Che cosa ci fai qui?».

«Le migliori ciambelle di Londra!», rispose ridacchiando, una volta vicina al loro tavolo. Posò gli occhi su Sherlock e sulle sue labbra comparve un mezzo sorriso, intriso sia di dolcezza che di malinconia. «Ciao».

«Molly», disse semplicemente il detective, senza soffermarsi troppo sulla sua figura. «Lestrade ha appena ricevuto un sms e ho ottime ragioni di pensare che abbia fretta di lasciarci. Tu invece rimani, vero?».

La ragazza rimase per un attimo spiazzata, ma bastò lo sguardo sconfitto di Greg per farle accettare il fatto che non sarebbero mai riusciti a tenere nascosto qualcosa a Sherlock, mai e poi mai. Incrociando di nuovo gli occhi del detective invece si rese conto per l’ennesima volta che lei non l’avrebbe mai lasciato andare, mai gli avrebbe detto di no.

«Certo che rimango», disse, e suonò un po’ come una promessa.

 

***

 

Aveva quasi ritenuto scontato il fatto che non avrebbe visto Molly quel giorno. Eppure eccola, seduta di fronte a lui, pronta ad aiutare chiunque avesse bisogno di lei. Non che questo escludesse per forza che se non fosse stato necessario avrebbe preferito di gran lunga non vederlo, ma era segretamente contento di vederla.

«Avresti dovuto almeno asciugarti i capelli».

«Lo so, non è normale uscire di casa in questo stato solo per comprarsi delle ciambelle, ma non vanificare tutti gli sforzi che stanno facendo per…».

Sherlock simulò un colpo di tosse, attirando la sua attenzione. «Volevo solo dire che potresti ammalarti, ma apprezzo la tua deduzione sulle mie deduzioni». Le sorrise e poté quasi percepire gran parte della tensione che Molly si era portata dietro scomparire accompagnata da una sua debole risata.

Ad interrompere quel momento fu la cameriera, la quale le chiese se volesse ordinare qualcosa. Molly decise di imitare Sherlock: aveva bisogno di qualcosa per scaldarsi.

«Che cosa mi stanno preparando?», le chiese il detective quando rimasero di nuovo soli, gli occhi luminosi come quelli di un bambino.

Molly si posò l’indice sulle labbra sorridenti. «Non una parola».

«Okay, allora».

La ragazza fu sorpresa della sua resa, ma non disse nulla per paura che cambiasse idea. In ogni caso non avrebbe potuto chiedergli di più, perché alzando gli occhi verso l’entrata della caffetteria si ritrovò con la bocca completamente secca e il cuore che le batteva dolorosamente nella cassa toracica.
Sherlock dovette accorgersi del suo improvviso cambio d’umore e si voltò, individuando subito la causa di tutto ciò: Tom, il suo ex-fidanzato, era appena entrato tenendo sotto braccio una ragazza dai capelli rossi e dal sorriso luminoso.
Come se gli avessero direttamente picchiettato su una spalla, anziché osservarlo da lontano, Tom si voltò proprio verso il loro tavolo e vide prima Molly, poi Sherlock. Anche lui era sorpreso di vederli, ma al contrario di Molly sembrava anche divertito, come se lo stessero bonariamente prendendo in giro.

«Scusami un attimo», disse piano Molly, prima di alzarsi e di andargli incontro.

 

«Ti trovo bene, Molly».

«Anche tu sei in forma», ricambiò, sforzandosi per non fissare in modo troppo vistoso la ragazza che era entrata con lui e che ora stava ordinando qualcosa direttamente al bancone. «Hai poi… hai poi affittato quell’appartamento che mi dicevi?».

«Oh sì. Mi sono trasferito ufficialmente un paio di settimane fa. A Frizzy piace. A proposito, gli manchi, sai?».

Molly ripensò con tenerezza al loro cagnolino. «Anche lui mi manca tanto. A Toby nemmeno un po’».

Tom ridacchiò. «Avevi dubbi?».

In quel momento li raggiunse la ragazza misteriosa. Molly ce la mise tutta ancora una volta per non essere invidiosa dei suoi capelli – di una bellissima sfumatura ginger e raccolti in una treccia perfetta – dei suoi occhi verdi, del suo fisico da modella e della sua altezza, con scarsissimi risultati.

«Molly, ti presento Christie. Christie, lei è Molly, ti ho parlato di lei».

«Certo! È un vero piacere», esclamò, stringendole una mano.

«Quindi voi due…», iniziò a dire Molly, ma Tom la interruppe e negò in fretta:

«Oh no, no. Christie lavora nell’agenzia di viaggi accanto alla libreria e quando facciamo gli stessi orari veniamo qui a prendere un caffè. Siamo solo amici».

Una voce piena di sicurezza alle spalle di Molly disse: «No, quando fate gli stessi orari vi fermate nel back office dell’agenzia di viaggi dove lavora Christie e vi scambiate… intime confidenze, poi venite qui a prendere un caffè».

Molly guardò Sherlock, ora al suo fianco, e poi si rivolse a Tom e Christie per scusarsi, ma non ne ebbe il tempo materiale. Il ragazzo sorrise beffardo, per nulla colpito dai trucchetti del consulente investigativo.

«Speravo proprio che ti unissi a noi, Sherlock. Volevo congratularmi con entrambi».

«Per… per che cosa?», chiese Molly, confusa.

«Beh, ora siete una coppia, no? Chi l’avrebbe mai immaginato!».

Molly socchiuse gli occhi ed aprì la bocca per spiegare come stavano davvero le cose, ma dalla sua gola non uscì un solo suono: Sherlock le aveva accarezzato il polso fino ad accogliere la sua mano piccola e fredda nella propria, grande e calda.

«Non ha senso continuare a negare, Molly», le disse serenamente, continuando però a fissare in atteggiamento di sfida il suo ex. «Sì, siamo una coppia, e solo tu non te lo saresti mai immaginato, a quanto pare».

Tom rimase per un attimo spiazzato, poi accennò un sorriso sarcastico e prese Christie di nuovo sottobraccio. 
«Il caffè lo prenderemo un’altra volta», le disse baciandole la fronte. «È stato un piacere rivedervi».

«Anche per noi!», esclamò Sherlock, sollevando la mano. «E sono contento che tu abbia smesso di indossare quel cappotto! Non ti donava affatto!».

Tom si morse il labbro ed uscì dalla caffetteria con Christie.

Sherlock si stava godendo il momento, soddisfatto, quando sentì Molly ritrarre frettolosamente la mano e dirigersi verso il loro tavolo. Tirò fuori dalla borsa il portafoglio e lasciò una banconota sotto al portatovaglioli, quindi lo superò di nuovo e si gettò contro la porta, bisognosa d’aria fresca.

«Molly», la chiamò Sherlock, seguendola sul marciapiede. «Ho fatto qualcosa di sbagliato?».

«No, nulla di sbagliato», rispose in fretta, voltandosi e trovandolo troppo vicino a sé. Arretrò d’un passo prima di aggiungere: «Semplicemente non avresti dovuto comportarti in quel modo».

«Se lo meritava».

«Cosa? No!».

«Ti ha sostituita in fretta, non trovi?».

Molly piegò leggermente di lato la testa, incredula. «Non mi ha sostituita: noi ci siamo lasciati e Tom è andato avanti con la sua vita. Sono contenta per lui».

«Il tuo corpo mi dice il contrario», replicò tranquillamente Sherlock, fissandola intensamente.

«Il mio…?». Molly deglutì e scosse il capo, ficcandosi le mani gelate nelle tasche del cappotto. «Sono un po’ invidiosa, è vero: di Chrisie, del fatto che Tom sia riuscito a trovare così in fretta qualcuno che lo possa amare. Ma questo non vuol dire che non sia contenta per lui. A nessuno piace la solitudine, soprattutto dopo aver convissuto per un lungo periodo: la casa ti sembra più grande e vuota, non è importante se metti la tovaglia a cena, il divano sembra scomodo senza la persona a cui ti appoggiavi, e poi c’è il silenzio…». 
Molly notò uno strano luccichio negli occhi di Sherlock e lasciò che la voce le morisse in gola, capendo al volo ciò che aveva involontariamente fatto.
«Scusa», sussurrò, avvicinandosi. «Non mi sono resa conto…».

Sherlock sbatté le palpebre e con le lacrime spazzate via parve riacquistare la sua solita fredda lucidità.

«Stai tremando», le disse, abbassando gli occhi sulle sue labbra. «Non possiamo stare qui fuori, rischi seriamente di prenderti una polmonite». Si tolse rapidamente la sciarpa blu che aveva al collo e gliela legò intorno alla gola, quindi si voltò e fermò un taxi.

«Dove andiamo?», balbettò Molly, intontita dal calore e dal profumo della sciarpa di Sherlock.

«A casa tua, se non ti dispiace».

Aprì la portiera del taxi nero e le indicò di salire, atteggiandosi soltanto da cavaliere. Molly non disse una parola e una volta al caldo, seduta accanto al detective, non riuscì a trattenersi dal ridere, col naso che sfiorava la sciarpa di Sherlock e le guance rosse per il freddo.

«Qualcosa di divertente?», le chiese, corrugando la fronte.

«Stavo pensando a quello che hai detto a Tom. Tu sei l’unico a cui potrebbe donare quel cappotto, lo sai?».

«È proprio quello che intendevo dire», replicò, nascondendo l’ennesimo sorriso dietro il bavero sollevato. «Ah, un’altra cosa, Molly».

La ragazza si voltò verso di lui e i loro occhi si incatenarono, togliendole quasi il respiro. Erano così belli…

«Labbra troppo sottili, capelli tinti, gambe ad X, ossa del bacino troppo sporgenti. Non hai nulla da invidiarle».

Le ci volle qualche secondo per rendersi conto che stesse elencando i difetti della nuova ragazza di Tom; un altro paio per realizzare che poteva appuntarsi quella frase come uno dei rari complimenti che di tanto in tanto le rivolgeva, anche se quella volta era un complimento ben diverso: non c’era falsità nella sua voce, non lo diceva solo per strapparle qualche favore.

«Grazie», mormorò, posando lo sguardo fuori dal finestrino ed immergendo il naso nella lana morbida ed intrisa del suo profumo.

 

Non era la prima volta che Sherlock entrava in casa sua, ma si sentiva sempre a disagio, spaventata che potesse notare la polvere sui suoi soprammobili e i peli del gatto dove non riusciva mai a pulire, oppure che iniziasse a dedurre qualsiasi cosa sulla sua vita privata guardando il divano o la disposizione delle pentole nella credenza.

«Posso offrirti qualcosa?», gli chiese, appendendo il cappotto che Sherlock le aveva teso e togliendosi il proprio. 
Non avrebbe voluto separarsi dalla sciarpa e se solo fosse nata un po’ meno onesta avrebbe trovato il modo di nasconderla da qualche parte per poi tirarla fuori e portarsela al viso ogni volta che ne sentiva il bisogno. La porse al suo legittimo proprietario con entrambe le mani tese e prima di riprenderla Sherlock la fissò stupito, come se si fosse dimenticato di avergliela data.

«No, grazie», rispose infine, gettandosi sul divano come se si trattasse di quello al 221B di Baker Street.

«Okay».

Stava per andare in cucina, dove avrebbe bevuto un sorso d’acqua e avrebbe cercato di pensare a qualcosa con cui intrattenere Sherlock – qualsiasi cosa non implicasse strani esperimenti sul suo piccolo Toby sarebbe andata bene – quando il detective la chiamò con quel suo tono di voce vibrante, capace di arrivare fino alla corda più sottile del cuore di Molly.
Si girò e lentamente lo raggiunse, sentendosi un poco sotto esame, nonostante avesse gli occhi rivolti verso il soffitto.

«Tu ti senti sola?».

Quella domanda fu come un pugno nello stomaco e come se l’avesse veramente ricevuto sobbalzò appena, facendo scattare gli occhi di Sherlock su di lei. L’analizzò accuratamente, ma non volle condividere con lei alcuna deduzione.

«Prima o poi… ci sentiamo tutti soli», rispose, mordendosi le labbra.

«Voglio sapere se ti senti sola adesso».

«No, adesso no».

Sherlock registrò il suo sorriso – tremendamente amorevole – e aprì la bocca per aggiungere che lui ci sarebbe stato, se si fosse sentita sola di nuovo, ma non ne ebbe la forza: sapeva di non poter tirar troppo la corda, di non poter illudere Molly così tanto. Come aveva detto a John qualche tempo prima, il suo lavoro era la cosa più importante e necessitava di tutta la sua concentrazione, di tutto il suo tempo, e non era nemmeno sicuro di poter offrire a Molly ciò che lei desiderava. Preferiva di gran lunga lasciarla sognare, vedere i suoi occhi illuminarsi quando si perdeva nel suo personale Palazzo Mentale – chissà come doveva essere – piuttosto che offrirle una realtà definitiva e deludente, oltre che pericolosa.

«Bene», esclamò soltanto, girandosi sul fianco. «A che ora dovresti farmi tornare a casa?».

«Alle sette».

«Mancano ancora tre ore. Che cosa diavolo dovremmo fare, io e te, per tre ore?».

Molly pensò a mille e più cose che lei avrebbe fatto a Sherlock in tre ore e ringraziò il cielo che fosse più interessato alla trama dello schienale del divano che a lei: sarebbe stato sconveniente farsi cogliere così imbarazzata, soprattutto perché il consulente non ci avrebbe pensato su due volte prima di lanciarle un’occhiataccia.

«Sarebbe interessante provare ad esporre il tuo gatto alla…».

«No! Qualsiasi cosa tu abbia in mente, NO!».

Molly si diresse verso il bagno con passo pesante e accese il phon per asciugarsi i capelli ancora umidi, impedendosi di sentire la risata sommessa di Sherlock.

 

Sherlock si guardò intorno, annoiato, e il suo sguardo si posò sul PC portatile di Molly. Inevitabilmente attratto, si alzò e dopo aver controllato che la ragazza si stesse ancora asciugando i capelli, lo afferrò spostando i libri di anatomia che c’erano posati sopra.
Lo accese e al contrario del laptop di John, quello di Molly non era protetto da alcuna password. In ogni caso l’avrebbe scoperta facilmente.

Si connesse subito ad Internet e cliccò sulla stellina dei preferiti, scoprendo i siti che visitava abitualmente. Tra questi c’era anche il suo blog personale.
Non sapeva ne avesse uno, non l’aveva mai saputo. Forse John, forse lui lo sapeva, dato che Molly frequentava spesso e volentieri quello del dottore, ma non gliel’aveva mai detto. E c’era un unico motivo per cui non avesse condiviso quell’informazione con lui: sensibilità.

Sherlock iniziò a leggere i post. Non erano molti a dire il vero, ma ci mise parecchio tempo. Le parole che Molly non era mai stata in grado di dirgli erano lì, di fronte al suo naso, e facevano male. Non aveva mai effettivamente pensato che Molly potesse rendersi conto di ciò che faceva e perché lo facesse, non prima di quella famosa notte e dei suoi due anni di isolamento, nei quali aveva avuto tempo in abbondanza per riflettere su cose a cui forse non aveva prestato la dovuta attenzione. E ora provava uno spiacevole rimorso, pensando che lei, nonostante tutto, c’era sempre stata per lui.

Arrivato al post datato 25 Marzo, nel quale Molly spiegava che era stato il solito arrogante e che aveva flirtato con lei solo per ottenere ciò che voleva e poi sparire, fu colpito dall’incremento dei commenti. Li scorse velocemente e scoprì finalmente come Jim Moriarty si fosse messo in contatto con lei.
La rabbia che provò fu così tanta che chiuse violentemente il PC portatile e lo gettò in fondo al divano. Quindi si prese le tempie tra le mani, mentre le parole di Molly gli rimbombavano nella mente:
«Quello che mi hai detto quella sera, al Bart’s… Hai usato i miei sentimenti solo perché ti aiutassi. Il bello è che ti avrei aiutato comunque, senza che tu ti sentissi costretto a mentirmi. Perché io non conto niente per te, lo so benissimo. E la prova è che non mi hai mai chiesto nulla di Jim, senza contare quella terribile frecciatina. Lui ha fatto finta di essere interessato a me per arrivare a te, era solo un gioco anche quello, e tu, tu che per primo hai capito che era un criminale, non mi hai mai chiesto se mi avesse fatto del male».

«Sherlock, che cos’hai? Stai bene?».

Il consulente investigativo alzò di scatto gli occhi e trovò Molly in piedi al suo fianco, un’espressione colma di apprensione dipinta sul viso.

«Oh, Molly…», sussurrò, alzandosi e portandosi a pochissimi centimetri dal suo corpo, occhi negli occhi. Vide le sue pupille dilatarsi e per un attimo, vedendo il proprio riflesso in quegli specchi castani, si chiese come facesse a vederlo davvero, di quale dono straordinario possedesse, per quale oscuro motivo lo amasse così tanto. Ma più di ogni altra cosa, si chiese ancora: «Che cos’ho fatto per meritarmelo?».

La ragazza accennò un sorriso imbarazzato, al quale Sherlock reagì aggrottando le sopracciglia.

«Sei il nostro Sherlock, non hai bisogno di fare nient’altro», gli disse, e il detective capì che doveva aver pensato ad alta voce, come gli capitava spesso di fare. Ma non doveva aver esternato molto, visto che Molly – fortunatamente – non aveva colto il vero significato della sua domanda.

«Quindi non pensi che io debba cambiare in qualche modo?», le chiese, tornando a sedersi sul divano come se non fosse davvero interessato a ciò che avrebbe detto.

«Non saresti Sherlock, se cambiassi».

«Non vorresti nemmeno che diventassi più gentile con te?».

Molly si ritrovò a boccheggiare, mentre pensava alla cosa più giusta da dire senza risultare eccessivamente smielata. Sherlock lo odiava.
Alla fine decise di metterla sul ridere, ma evitò con cura il suo sguardo, dirigendosi in cucina: «Sono quasi certa che tu non te ne renda conto. Non ti comporti in maniera irritante e non rispondi male di proposito. Insomma… non lo fai con cattive intenzioni».

«Ne sei proprio sicura?».

Molly sobbalzò, sentendo la sua voce troppo vicina. Si girò e vide Sherlock appoggiato al tavolo, con le braccia incrociate al petto e gli occhi inchiodati su di lei. Sotto la luce del lampadario avevano assunto una particolarissima sfumatura d’azzurro, un azzurro argentato.

«Mi devi perdonare, Molly Hooper».

«Sono sicura di averlo già fatto», rispose velocemente, raccogliendo tutta la voce che le era rimasta.

«E devi promettermi che lo farai anche in futuro, perché io non posso prometterti che sarò sempre gentile con te».

Molly annuì, girandosi un bicchiere di vetro tra le mani. «Se tu fossi…».

«Cosa?».

È decisamente troppo smielato, pensò Molly, mordendosi l’interno della guancia.
Non avrebbe dovuto incominciare quella frase e ora era troppo tardi per tornare indietro. Se avesse detto a Sherlock di lasciar perdere sarebbe stato ancora peggio: stimolato, avrebbe fatto di tutto pur di far parla parlare, e l’imbarazzo – come una tossina velenosa – avrebbe raggiunto livelli epici nel suo sangue, facendole provare del vero e proprio dolore fisico.

«Penso che se tu fossi sempre gentile con me non apprezzerei così tanto i momenti in cui lo sei», disse tutto d’un fiato, per poi voltargli subito le spalle e riempirsi il bicchiere d’acqua.

Stava combattendo con il rossore sulle guance, stava cercando disperatamente il coraggio di voltarsi ed affrontare di petto la sua reazione, quando sentì delle voci in salotto. Si sporse un poco oltre la soglia della cucina e vide Sherlock appollaiato su un angolo del divano, col telecomando in mano e il riflesso della televisione negli occhi.

«Hai delle patatine?».

Molly, confusa – ma nemmeno troppo – dal suo repentino cambio d’umore, impiegò qualche secondo per capire che lei era l’unica a cui avrebbe potuto rivolgersi.

«Al formaggio, possibilmente».

Sorrise e andò ad aprire uno specifico armadietto sopra i fornelli. In punta di piedi afferrò un pacchetto di patatine al formaggio e ne versò il contenuto in una ciotola. Quindi gliela portò al divano e Sherlock non la ringraziò; in compenso, senza staccare gli occhi dalle news che scorrevano in fondo allo schermo, le porse silenziosamente la ciotola: un invito a mangiarle insieme a lui.

«No, grazie. A me non piacciono quelle al formaggio», gli rispose.

Sherlock si voltò a guardarla, ma quella volta era lei ad avere gli occhi fissi sullo schermo della TV, un sorrisino divertito sulle labbra.

 

***

 

«Per favore».

«Farò del mio meglio per non farvi notare gli errori grossolani che avete commesso. Far finta che tutti si dimenticassero del mio compleanno è stato il primo».

«Sul serio, Sherlock. Per favore».

Il consulente investigativo le rivolse un breve sorriso ed aprì la porta di casa, sbraitando: «Sono dannatamente stufo di voi e delle vostre chiacch–!».

«SORPRESA!», lo interruppero un coro di voci e lo scoppio di un tubo spara coriandoli.

Sherlock si era già immaginato qualcosa – aveva avuto un mucchio di tempo per farlo, quel giorno – ma vederlo con i propri occhi, vedere quello che le persone che amava avevano fatto per lui… lo fece quasi commuovere. C’erano palloncini colorati ovunque, due striscioni appesi ai lati del salotto e uno con scritto “Buon Compleanno” sopra la testa cornuta tra le due ampie finestre. Il tavolo della cucina, sgombro di tutti i suoi strumenti per gli esperimenti chimici, era stato spostato e messo accanto a quello in salotto, e sopra c’erano stuzzichini di ogni tipo, bevande, pasticcini e persino una pila di pacchi regalo.

«Ci vorrà un mese prima che torni tutto come prima», non poté far a meno di commentare, arruffandosi i capelli per togliersi i coriandoli che Lestrade gli aveva sparato addosso.

John si portò le mani sui fianchi e fece per rimproverarlo, ma quando scorse il sorriso di Sherlock ci ripensò e gli andò incontro per stringerlo in un abbraccio.
«Buon compleanno, amico».

«Grazie. Ma non ti sembro un po’ troppo grande per i palloncini?».

Il dottore scoppiò a ridere e come punizione esclamò: «Forza, vai a farti abbracciare da tutti».

Sherlock avrebbe preferito di gran lunga evitare, un «Grazie» complessivo sarebbe bastato secondo la sua opinione, ma aveva promesso a Molly che avrebbe fatto “il bravo”. Si lasciò stringere e baciare dalla signora Hudson e da Mary, mentre rivolse un’occhiataccia a Lestrade, il quale non si azzardò e gli strinse semplicemente la mano.

«Ho provato ad invitare anche Mycroft, ma ha declinato dicendo che doveva assolutamente partecipare ad una riunione. L’ha definita “d’importanza nazionale”», spiegò John, stringendosi il collo tra le spalle. «Ha fatto portare qui un regalo dalla sua assistente».

«Carino da parte sua», rispose Sherlock con un sorriso, chiarendo subito dopo: «Non presentarsi, ovviamente».

Si voltò per ringraziare l’ultima – ma non per questo meno importante – persona rimasta e rimase basito quando non la vide alle sue spalle. «Molly», mormorò.

Mary, con una mano sul pancione, lo affiancò e gli riconsegnò il cappotto che aveva lanciato sul divano. «Fai ancora in tempo a raggiungerla».

Sherlock la ringraziò con gli occhi e corse giù dalle scale. Aveva appena iniziato a nevicare  un dettaglio che la sua mente registrò e che cancellò subito dopo, impegnata com’era a cercare Molly tra i passanti. Alla fine la scorse ad appena qualche metro di distanza, in attesa di un taxi che aveva appena messo la freccia per accostare.

Le corse incontro e richiuse violentemente la portiera che aveva appena aperto, facendola trasalire.
«Dove hai intenzione di andare?», le domandò quasi minacciosamente. Era davvero infuriato con lei.

Molly cercò una scusa plausibile per evitare tutto ciò che avrebbe provato stando in quell’appartamento pieno di calore, di vita, di… unità familiare.

«Ho il turno di notte al Bart’s».

«No, ho controllato».

«Non ci si può presentare ad una festa di compleanno senza un regalo».

«Non mi interessa. E poi non sei mai stata brava ad azzeccarli».

«Mi sono dimenticata di dare da mangiare a Toby».

«Aveva la ciotola ancora piena, quando siamo usciti».

Il tassista tirò giù il finestrino, irritato, e chiese che cosa volessero fare. Sherlock gli urlò di andarsene e Molly guardò le sue speranze di tornare a casa diminuire metro dopo metro.

«Perché ti comporti in questo modo?», le chiese di nuovo, attirando la sua attenzione.

Molly notò la rabbia e la confusione dipinte sul suo viso, ma non ne fu eccessivamente colpita: per certe cose Sherlock non era portato.
«Non me la sento, dopo quello che è successo io…».

«Okay, ascoltami bene, Molly». Le posò entrambe le mani sulle spalle e si abbassò in modo tale che i loro occhi fossero perfettamente allo stesso livello. «Non ce l’ho con te per il tuo rifiuto. So di averti delusa molte volte e che tu non mi abbia preso sul serio quella volta è perfettamente normale. Non ti ho mai mentito e quando ti ho detto che per me conti, lo pensavo davvero. Tu sei importante per me, Molly».
Sherlock si fermò per riprendere fiato e solo allora si accorse delle lacrime che le avevano riempito gli occhi. «Oddio, è come al matrimonio di John. Perché fate sempre così?».

«Tu non lo sai… Non sai niente», balbettò, lottando con tutte le sue forze per non piangere di fronte a lui.

«Non so che cosa?».

«John non te l’ha detto…».

«Molly?».

«Il motivo per cui non sono venuta a Natale, Sherlock».

Il detective si raddrizzò, sforzandosi di ricordare le esatte parole che John gli aveva detto per giustificare l’assenza di Molly e che lui aveva subito catalogato come “la scusa più vecchia del mondo”: «Molly non si sente molto bene, non verrà stasera».

«Mia madre è morta quella mattina, Sherlock, e sono dovuta volare a Inverness». Si passò le mani sotto agli occhi, spazzando via le due lacrime che non era riuscita a tenere sotto controllo, e tirò su col naso.
«Poco fa, vedervi tutti insieme, felici, mi ha fatto ricordare quando noi Hooper ci riunivamo per le occasioni davvero speciali. Mia sorella si è trasferita in America e non la vedo mai, quindi ora che anche mamma se n’è andata… non ho più nessuno».

Sherlock alzò gli occhi verso il cielo e con ancora le mani sulle sue spalle l’attirò a sé, stringendola in un delicato abbraccio. «Non essere sciocca, Molly Hooper. Lo sai che non è così».

Molly sgranò gli occhi e subito dopo li serrò, pregando perché quelle parole si imprimessero nella sua mente. Non osò fare di più e anche se avesse voluto non ci sarebbe riuscita, paralizzata com’era dal suo gesto del tutto inaspettato.

«Puoi abbracciarmi se vuoi», sussurrò il consulente investigativo, guardandosi intorno per assicurarsi che non ci fossero macchine fotografiche e cellulari puntati su di loro.

Quando Molly decise di cedere a quella tentazione, Sherlock si ritrovò per un attimo senza fiato, sorpreso dalla forza che era riuscita a tirare fuori e dalla piacevole sensazione che provò all’altezza dello stomaco.

«Come anatomo patologa, spero tu abbia calcolato con precisione la pressione massima da poter esercitare senza rischiare di provocarmi danni permanenti», commentò ad un certo punto, lasciandosi andare ad una risata.

Molly si scostò e con gli occhi ancora lucidi, ma pieni di vita, rispose: «Era un esperimento, in realtà». E aveva funzionato, perché posando l’orecchio contro il suo petto aveva sentito distintamente il cuore di Sherlock battere come quello di chiunque altro. Non che ne avesse mai dubitato, ma aveva bisogno di sentirlo almeno una volta senza l’uso di uno stetoscopio.
«Grazie, Sherlock. Davvero».

Il detective scrollò leggermente le spalle. «Rimani?».

Molly lo guardò negli occhi e fu colpita da un intenso déjà-vu. Sherlock aveva la stessa espressione di quella sera, quando le aveva detto che aveva bisogno di lei; un’espressione così forte e così piena di debolezza allo stesso tempo, determinata e fragile. Molly avvertì un brivido correrle giù per la schiena, rendendosi conto di quanto ci tenesse alla sua presenza.

Socchiuse gli occhi ed annuì, certa che avrebbe rinnovato quella promessa ogni qualvolta Sherlock ne avesse sentito il bisogno. «Sì, rimango».

Soddisfatto, il detective la fece voltare e con una mano sulla sua schiena la spinse verso la porta del 221B.
Molly venne accolta nell’appartamento come se fosse stata lei la festeggiata e grazie a Sherlock, il quale le porse un bicchiere di champagne appena stappato, si sentì di nuovo parte di una famiglia.

«E comunque ce l’hai, il regalo», le disse a bassa voce quando le passò accanto per andare a sbirciare la torta che John stava tirando fuori dal frigorifero (ripulito anch’esso proprio per l’occasione). «Ti ho visto mentre lo infilavi in borsa di nascosto».

«Hai detto che non sono mai brava ad azzeccarli, quindi è meglio che lo tenga io».

«Scordatelo». Fece tintinnare il proprio flûte contro quello di Molly e si scambiarono un sorriso.

 

***

 

Arrivata a casa, a mezzanotte circa, trovò Toby appallottolato sul divano, che sonnecchiava pigramente. Lo raggiunse per dargli la buonanotte, ma si fermò con la mano a pochi centimetri dalla sua testolina: non era appallottolato sul divano, bensì sopra una sciarpa blu a lei ben nota.
Senza badare alla poca delicatezza con cui l’avrebbe svegliato, spostò Toby e dopo aver fatto del suo meglio per togliere più peli possibili si portò la lana morbida al viso. Ne respirò profondamente il profumo e con essa avvolta intorno al collo si infilò sotto le coperte.

Prima di addormentarsi i suoi pensieri furono ancora più incontrollabili del solito, probabilmente a causa dello champagne, ed immaginò Sherlock dimenticarsi di proposito la sciarpa a casa sua, in modo da poterla utilizzare come pretesto per tornarci.
Aggrappata a quel folle pensiero, si addormentò con una risata inespressa sulle labbra e il profumo di Sherlock nei polmoni.

 

 

 

   
 
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