Buon pomeriggio!
Ecco qui la terza e credo ultima one-shot di questa serie. Segue
infatti “A criminal’s
ex-girlfriend”
e “That stupid coat”,
e io per prima
sono stupita di ciò che ho appena scritto. Tre mesi fa non
avrei mai immaginato
di poter scrivere fanfiction su Sherlock! Eppure in qualche modo ci
sono
riuscita e ringrazio chi ha speso del tempo per leggere e lasciare due
righe di
commento: è stato davvero emozionante, grazie di cuore.
Ora non voglio dilungarmi troppo e la chiudo qui, sperando
come al solito di non essere andata troppo OOC con i personaggi e che
sia una
storia perlomeno plausibile.
(Possibili riferimenti alla terza stagione,
escluso - in modo totale - l’ultimo episodio).
Un abbraccio!
_Pulse_
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It’s
not always a surprise
Mary
raggiunse il marito in cucina e gli avvolse le braccia intorno al
collo, poi
gli posò un bacio sulla tempia sinistra ed
adocchiò ciò che stava scrivendo al
PC.
«A
che punto siamo con i preparativi?».
John
accennò un sorriso ironico. «Siamo?».
«Ehi,
un certo dottore mi ha detto che devo stare a riposo!».
«Intendevo
solo dire che non dovresti fare sforzi fisici, lo sai
benissimo».
La
signora Watson si sedette accanto a lui e gli prese una mano per
posarla sulla
sua pancia gonfia. John sospirò e socchiuse gli occhi, certo
che ciò che stesse
toccando fosse la pura e semplice felicità, la gioia di
vivere che solo altre
due persone, dopo il suo ritorno dall'Afghanistan, erano riuscite a ridargli. Entro due mesi ce
ne sarebbe stata
una terza, la più importante di tutte, e non stava
più nella pelle, nonostante
ne fosse anche un po' spaventato.
«Come
possiamo aiutarti?», gli chiese la moglie ad un tratto,
riportandolo alla
realtà.
John
girò il PC portatile verso di lei ed indicò i
vari punti avvicinando una penna
allo schermo: «Ho già comprato quasi tutto il
necessario, stasera passerò in
pasticceria».
Mary
serrò gli occhi, sollevando una mano. «Non dire
altro, o tuo figlio potrebbe
nascere con una voglia gigantesca a forma di fetta di torta al
cioccolato».
«Poi
tu e Greg cercherete a turno di tene–».
«E
Molly?», domandò, interrompendolo.
John
si lasciò andare contro lo schienale della sedia e si
massaggiò la fronte. «Ho
provato a convincerla, ma non crede sia il caso».
«Non crede sia il caso? Giuro che se
è
ancora per ciò che è successo a
Natale...!».
«Non
solo per quello. Si sente tremendamente in colpa di averci dato buca a
Natale,
ma...».
«Ma
non ha alcun senso!».
«Lo
so, gliel'ho ripetuto non so quante volte anche io. Oltre a questo,
dice che si
sentirebbe a disagio perché non ha ancora avuto l'occasione
di chiarire con lui
la questione della “cena rifiutata per
errore”».
«Ma
questa sarebbe proprio l'occasione perfetta!».
«E
ha anche detto che in questi giorni non ha cadaveri abbastanza
interessanti da
mostrargli, quindi non assicurerebbe la riuscita del
–».
«John,
quella ragazza si sta aggrappando ad un sacco di scuse»,
decretò Mary,
alzandosi in piedi.
«Che
cosa mi consigli di fare?», le chiese, intrecciando le mani
davanti alla bocca.
«Nulla.
Me ne occuperò io. Oggi è di turno al
Bart's?».
«Sì,
ma... vuoi andare a parlarle di persona?».
«È
l'unico modo per convincerla. Nessuno dice mai di no ad una donna
incinta», gli
fece l'occhiolino e andò a prepararsi.
John
sorrise e tornò a concentrarsi sulla pagina Word intitolata:
“Buon Compleanno,
Sherlock!”.
***
Lo
squillo del telefono, improvviso ed echeggiante nel silenzio perfetto
dell'obitorio, la fece trasalire. Si tolse i guanti di plastica ed
abbassò la
mascherina che portava sul viso, quindi alzò la cornetta e
se la portò
all'orecchio.
«Pronto?».
«Ciao
Molly, c'è qui per te la signora Watson. Sali o la faccio
scendere?».
La
ragazza si gettò un'occhiata alle spalle, verso la donna in
avanzato stato di
decomposizione che le avevano appena portato. Non era un bello
spettacolo per
lei, che ci era abituata, figuriamoci per una donna al settimo mese di
gravidanza.
«Salgo
io. Dammi cinque minuti».
Sistemò
la cornetta e alzò gli occhi al soffitto, respirando
profondamente. Aveva già capito
di che cosa si trattava: l'ennesimo tentativo di coinvolgerla nei
preparativi
della festa a sorpresa per il compleanno di Sherlock.
Si
armò di tutta la propria volontà e
salì al piano superiore. Trovò Mary in piedi
vicino al bancone della sala d'aspetto e dopo averla salutata con due
baci
sulle guance la invitò a seguirla.
Raggiunsero
il laboratorio d'analisi chiacchierando del più e del meno:
delle previsioni
che davano neve ininterrotta per i prossimi giorni, di come avevano
passato
l'ultimo dell'anno e delle problematiche dovute alla pancia.
«È
così ingombrante, a volte! È come portare in giro
un pallone da basket!».
Molly
accennò un sorriso e per un attimo provò un po'
di gelosia. Sin da bambina
aveva sempre desiderato avere dei bambini, era il suo sogno
più grande, ma gli
anni passavano e lei rimaneva sempre single, a rimpiangere le occasioni
buttate
e quelle in cui era stata lei ad essere stata buttata via.
Inevitabilmente, non
poté fare a meno di chiedersi se Sherlock ci avesse mai
pensato.
Lo
stava immaginando accanto ad una culla, intento a suonare una ninna
nanna col
suo violino, quando Mary le schioccò le dita davanti al
viso, cercando di farla
scendere dalle nuvole.
«Molly,
mi stai ascoltando?».
La
ragazza sbatté più volte le palpebre e le sorrise
frettolosamente. «Sì,
scusami. Che ci fai da queste parti?».
Mary
abbandonò la borsa sul tavolo e tirò a
sé uno sgabello per sedersi e far
riposare le caviglie doloranti.
«Penso
che tu lo sappia già», replicò in tono
pacato, tenendosi il viso tra le mani.
Molly
sospirò, sedendosi al suo fianco. «La festa a
sorpresa per Sherlock».
«Brava.
Non puoi mancare, Molly. Lui ci rimarrebbe davvero male».
«Io
non ne sarei così sicura…».
«E
invece io lo sono. Alla Vigilia di
Natale ha monopolizzato il divano per tutta la sera, ha parlato a
malapena e
non ha nemmeno suonato il violino per la signora Hudson».
Molly
aprì la bocca, con le lacrime che le pizzicavano gli angoli
degli occhi, ma
Mary aggiunse, stringendole una mano: «Non è
assolutamente colpa tua se non c’eri,
tesoro, voglio che questo ti sia ben chiaro. Sto solo cercando di farti
capire
quanto sia importante la tua presenza».
La
signora Watson le sollevò il mento con la punta delle dita e
guardandola negli
occhi le rivolse un sorriso incoraggiante. Ci vollero solo un paio di
secondi
perché Molly cedesse e ricambiasse il sorriso, sistemandosi
una ciocca di
capelli dietro l’orecchio.
«Che
cosa devo fare, esattamente?».
***
Sherlock,
imperturbabile, fissò a sua volta l’ispettore
Lestrade. Se aveva intenzione di
sfidarlo a chi avrebbe resistito più a lungo, allora non
aveva alcuna
possibilità di vittoria.
«Tutto
qui?», chiese con voce atona, gli occhi azzurri attraversati
da un bagliore di
pura intelligenza.
Greg
sollevò le braccia, come a volersi appellare ad una forza
superiore. «Sono
esterrefatto! Volevi sentirtelo dire?».
Sherlock
nascose un sorrisino dietro il bavero del cappotto.
Nel
giro di nemmeno quarantacinque minuti era riuscito a risolvere un
intero
scatolone di casi irrisolti, avvalendosi soltanto dell’elenco
delle prove
raccolte sul luogo del delitto, delle foto, dei rapporti degli agenti
– la
maggior parte dei quali incompleti o addirittura pieni di
contraddizioni – e
delle eventuali testimonianze.
Era
stato divertente, fino ad un certo punto. Precisamente fino a quando
una parte
del suo cervello aveva preso ad indagare su un altro caso,
una consapevolezza che gli aveva sfiorato la nuca come il
vento freddo di quei giorni: per qualche motivo lo stavano tenendo
lontano dal
suo appartamento.
Prima
Mary, la quale lo aveva invitato a pranzo da lei, supplicandolo di
farle almeno
compagnia, se proprio non aveva intenzione di mangiare; poi Lestrade,
il quale
lo aveva chiamato dicendogli di avere un caso molto interessante tra le
mani,
un caso che richiedeva la sua speciale consulenza. Stranamente, una
volta
arrivato a Scotland Yard era stato informato che purtroppo
l’indagine non era
più in mano sua. «Ordini
dall’alto», aveva commentato l’ispettore,
per poi
tirare fuori quel vecchio scatolone di casi irrisolti.
Era
proprio curioso di sapere che cos’altro si sarebbe inventato,
ora. Era evidente
infatti che stessero tutti seguendo una tabella di marcia e che
Lestrade
l’avesse intrattenuto per troppo poco tempo, viste le
frequenti occhiate che
lanciava all’orologio alle sue spalle.
Ad
un certo punto si alzò dalla propria poltrona e con un
piccolo sorriso sulle
labbra gli disse: «Vado un attimo in bagno, aspettami
qui».
Sherlock
annuì, senza proferire verbo.
***
Afferrò
il cellulare dopo essersi strofinata velocemente le mani
sull’asciugamano e se
lo portò all’orecchio:
«Pronto?».
«Molly,
dimmi che sei già pronta».
«Greg!
Manca ancora un’ora e mezza, sono appena uscita dalla
doccia!».
Forse questo non
avrei
dovuto dirlo, pensò
la
ragazza ascoltando il silenzio imbarazzato all’altro capo del
telefono.
«Cerco
di fare il prima possibile», aggiunse in fretta.
«Okay.
Noi ci incamminiamo, mandami un sms quando stai per arrivare».
Molly
sbuffò e si guardò allo specchio: i capelli
lunghi, completamente fradici,
stavano gocciolando dappertutto. Non avrebbe mai avuto il tempo di
asciugarli a
dovere.
***
«Hai
fatto in fretta», mormorò Sherlock, senza voltarsi.
«Già.
Ti va un caffè? C’è una caffetteria, ad
un paio d’isolati da qui, che fa il
migliore espresso di Londra. L’ho scoperta un paio di
settimane fa».
«Deve
fare anche delle ottime ciambelle», esclamò,
alzandosi in modo fluido, quasi
felino.
«Sì,
è così. Come…?».
«Sei
ingrassato».
Greg
roteò gli occhi e lo seguì fuori
dall’ufficio. «Questo non è
vero».
«Invece
sì».
Greg
insisté perché si facessero una camminata e
Sherlock acconsentì di buon grado,
stranamente. Era fin troppo calmo ed accondiscendente, come se non gli
importasse nulla di perdere del tempo prezioso. Il sospetto che li
avesse già
smascherati si insinuò nella sua mente, ma altrettanto
velocemente venne
dimenticato, quando il consulente investigativo tentò di far
partire una conversazione
più o meno normale.
«Hai
visto Anderson, ultimamente?».
«No,
non di recente. Come mai me lo chiedi?».
Sherlock
si strinse nelle spalle. «Curiosità. Pensavo
sarebbe tornato a lavorare con te,
dopo il mio ritorno».
«Io
avrei pure messo una buona parola per lui, se solo avesse inoltrato la
domanda».
«Avrà
trovato qualcosa di meglio», dedusse, pensando di chiudere
lì il discorso.
Lestrade invece scosse il capo, schioccando la lingua contro il palato.
«Penso
non sia tornato per via di Donovan. Dopo la tua… la tua
caduta, ha sempre
sostenuto che fosse stata lei a mettergli quel tarlo nella testa, a
convincerlo
che tu eri un imbroglione. Ma forse stava solo cercando qualcuno su cui
scaricare il suo senso di colpa».
Sherlock
rimase in silenzio, riflettendo sulle parole dell’ispettore
di Scotland Yard.
In quei mesi gli era capitato, di tanto in tanto, di incrociare il
sergente
Donovan, ma non si erano mai rivolti la parola: lei lo aveva sempre
evitato,
allontanandosi non appena lo vedeva arrivare, non azzardandosi nemmeno
a
guardarlo negli occhi. Chiaramente anche lei si sentiva in colpa e il
fatto che
lui non fosse davvero morto non l’aveva aiutata a superare
quella specie di
trauma, anzi. Un giorno magari avrebbe potuto farsene una ragione, ma
con lui
di nuovo in carreggiata, tra le strade di Londra, quel giorno non
sarebbe mai
arrivato: avrebbe sempre ricordato il momento in cui aveva spinto un
altro
essere umano a togliersi la vita, sempre.
«Eccoci,
è questa la caffetteria di cui ti parlavo»,
esclamò Lestrade con un sorriso fin
troppo radioso. Sherlock notò lo sguardo fugace che
gettò al proprio cellulare
mentre apriva la porta, ma non disse nulla.
Si
sedettero al tavolo in fondo al locale, accanto alle vetrate che davano
sulla
strada, e quasi immediatamente una cameriera passò a
ritirare le loro
ordinazioni. Lestrade prese il famoso espresso, mentre Sherlock si
limitò ad
una tazza di tè.
Greg,
a corto di argomenti, si ritrovò a fissarlo in silenzio,
domandandosi cosa
accadesse esattamente nella sua testa ogni volta che i suoi occhi si
posavano
sulle persone.
«Non
ti stanchi mai, Sherlock?».
Il
detective gli gettò una rapida occhiata, per poi tornare a
concentrarsi sulla
strada, col suo tè tra le mani.
«Insomma…
Non fai altro che dire che tutti noi vediamo,
ma non osserviamo. Ti capita mai di
non voler osservare? Di voler pensare soltanto: “Che belle
scarpe”, invece di
dedurre le strade che hanno percorso?».
«Posso
farlo, se voglio», mormorò, mordendosi leggermente
il labbro.
Greg
ridacchiò. «No, non puoi. Forse l’alcool
e altre sostanze potenzialmente
illegali potrebbero darti una mano, ma…».
«Sì,
a volte mi stanco», rispose alzando la voce, interrompendolo.
«Vorrei poter
ignorare ciò che mi sta di fronte, non rendermi conto
dell’evidenza. Renderebbe
alcune cose più semplici. Ma allo stesso tempo
più difficili, perché mi
troverei impreparato». Lo guardò con gli occhi
leggermente sgranati e con un
finto sorriso sulle labbra sussurrò:
«Contento?».
L’ispettore,
incerto sulla risposta giusta da dargli, scelse il silenzio, rotto
soltanto
dalla suoneria di notifica per gli sms del suo cellulare. Lo estrasse
dalla
giacca e fu quasi sul punto di sospirare di sollievo: Molly era dietro
l’angolo.
«Buone
notizie?», gli chiese Sherlock, bevendo un altro sorso di
tè.
Greg
buttò giù tutto d’un fiato il suo
espresso, ancora bollente, e rispose con un
cenno d’assenso del capo. Si alzò non appena vide
Molly passare accanto alla
vetrata della caffetteria e pregò perché Sherlock
si rifilasse la scusa
dell’impegno improvviso, ma si bloccò: raramente
vedeva quell’espressione sul
suo volto, raramente essa durava più a lungo di qualche
frazione di secondo, il
tempo necessario a Sherlock per rendersene conto e tornare ad indossare
quella
maschera di imperturbabilità e disinteresse che lo
contraddistingueva.
Sherlock
era sorpreso, impreparato, e solo ora Greg riusciva a comprendere
appieno le
sue parole: non sapere lo rendeva fragile, insicuro, e questo doveva
spaventarlo.
«Molly!»,
esclamò, facendo del suo meglio per fingere di non averla
attesa fino a quel
momento. «Che coincidenza! Che cosa ci fai qui?».
«Le
migliori ciambelle di Londra!», rispose ridacchiando, una
volta vicina al loro
tavolo. Posò gli occhi su Sherlock e sulle sue labbra
comparve un mezzo
sorriso, intriso sia di dolcezza che di malinconia.
«Ciao».
«Molly»,
disse semplicemente il detective, senza soffermarsi troppo sulla sua
figura. «Lestrade
ha appena ricevuto un sms e ho ottime ragioni di pensare che abbia
fretta di
lasciarci. Tu invece rimani, vero?».
La
ragazza rimase per un attimo spiazzata, ma bastò lo sguardo
sconfitto di Greg
per farle accettare il fatto che non sarebbero mai riusciti a tenere
nascosto
qualcosa a Sherlock, mai e poi mai. Incrociando di nuovo gli occhi del
detective
invece si rese conto per l’ennesima volta che lei non
l’avrebbe mai lasciato
andare, mai gli avrebbe detto di no.
«Certo
che rimango», disse, e suonò un po’ come
una promessa.
***
Aveva
quasi ritenuto scontato il fatto che non avrebbe visto Molly quel
giorno.
Eppure eccola, seduta di fronte a lui, pronta ad aiutare chiunque
avesse
bisogno di lei. Non che questo escludesse per forza che se non fosse
stato
necessario avrebbe preferito di gran lunga non vederlo, ma era
segretamente
contento di vederla.
«Avresti
dovuto almeno asciugarti i capelli».
«Lo
so, non è normale uscire di casa in questo stato solo per
comprarsi delle
ciambelle, ma non vanificare tutti gli sforzi che stanno facendo
per…».
Sherlock
simulò un colpo di tosse, attirando la sua attenzione.
«Volevo solo dire che
potresti ammalarti, ma apprezzo la tua deduzione sulle mie
deduzioni». Le
sorrise e poté quasi percepire gran parte della tensione che
Molly si era
portata dietro scomparire accompagnata da una sua debole risata.
Ad
interrompere quel momento fu la cameriera, la quale le chiese se
volesse
ordinare qualcosa. Molly decise di imitare Sherlock: aveva bisogno di
qualcosa
per scaldarsi.
«Che
cosa mi stanno preparando?», le chiese il detective quando
rimasero di nuovo
soli, gli occhi luminosi come quelli di un bambino.
Molly
si posò l’indice sulle labbra sorridenti.
«Non una parola».
«Okay,
allora».
La
ragazza fu sorpresa della sua resa, ma non disse nulla per paura che
cambiasse
idea. In ogni caso non avrebbe potuto chiedergli di più,
perché alzando gli
occhi verso l’entrata della caffetteria si ritrovò
con la bocca completamente
secca e il cuore che le batteva dolorosamente nella cassa toracica.
Sherlock
dovette accorgersi del suo improvviso cambio d’umore e si
voltò, individuando
subito la causa di tutto ciò: Tom, il suo ex-fidanzato, era
appena entrato
tenendo sotto braccio una ragazza dai capelli rossi e dal sorriso
luminoso.
Come
se gli avessero direttamente picchiettato su una spalla,
anziché osservarlo da
lontano, Tom si voltò proprio verso il loro tavolo e vide
prima Molly, poi
Sherlock. Anche lui era sorpreso di vederli, ma al contrario di Molly
sembrava
anche divertito, come se lo stessero bonariamente prendendo in giro.
«Scusami
un attimo», disse piano Molly, prima di alzarsi e di andargli
incontro.
«Ti
trovo bene, Molly».
«Anche
tu sei in forma», ricambiò, sforzandosi per non
fissare in modo troppo vistoso
la ragazza che era entrata con lui e che ora stava ordinando qualcosa
direttamente al bancone. «Hai poi… hai poi
affittato quell’appartamento che mi
dicevi?».
«Oh
sì. Mi sono trasferito ufficialmente un paio di settimane
fa. A Frizzy piace. A
proposito, gli manchi, sai?».
Molly
ripensò con tenerezza al loro cagnolino. «Anche
lui mi manca tanto. A Toby
nemmeno un po’».
Tom
ridacchiò. «Avevi dubbi?».
In
quel momento li raggiunse la ragazza misteriosa. Molly ce la mise tutta
ancora
una volta per non essere invidiosa dei suoi capelli – di una
bellissima sfumatura
ginger e raccolti in una treccia
perfetta – dei suoi occhi verdi, del suo fisico da modella e
della sua altezza,
con scarsissimi risultati.
«Molly,
ti presento Christie. Christie, lei è Molly, ti ho parlato
di lei».
«Certo!
È un vero piacere», esclamò,
stringendole una mano.
«Quindi
voi due…», iniziò a dire Molly, ma Tom
la interruppe e negò in fretta:
«Oh
no, no. Christie lavora nell’agenzia di viaggi accanto alla
libreria e quando
facciamo gli stessi orari veniamo qui a prendere un caffè.
Siamo solo amici».
Una
voce piena di sicurezza alle spalle di Molly disse: «No,
quando fate gli stessi
orari vi fermate nel back office dell’agenzia di viaggi dove
lavora Christie e
vi scambiate… intime confidenze, poi
venite qui a prendere un caffè».
Molly
guardò Sherlock, ora al suo fianco, e poi si rivolse a Tom e
Christie per
scusarsi, ma non ne ebbe il tempo materiale. Il ragazzo sorrise
beffardo, per
nulla colpito dai trucchetti del consulente investigativo.
«Speravo
proprio che ti unissi a noi, Sherlock. Volevo congratularmi con
entrambi».
«Per…
per che cosa?», chiese Molly, confusa.
«Beh,
ora siete una coppia, no? Chi l’avrebbe mai
immaginato!».
Molly
socchiuse gli occhi ed aprì la bocca per spiegare come
stavano davvero le cose,
ma dalla sua gola non uscì un solo suono: Sherlock le aveva
accarezzato il
polso fino ad accogliere la sua mano piccola e fredda nella propria,
grande e
calda.
«Non
ha senso continuare a negare, Molly», le disse serenamente,
continuando però a
fissare in atteggiamento di sfida il suo ex. «Sì,
siamo una coppia, e solo tu
non te lo saresti mai immaginato, a quanto pare».
Tom
rimase per un attimo spiazzato, poi accennò un sorriso
sarcastico e prese Christie
di nuovo sottobraccio.
«Il caffè lo prenderemo un’altra
volta», le disse
baciandole la fronte. «È stato un piacere
rivedervi».
«Anche
per noi!», esclamò Sherlock, sollevando la mano.
«E sono contento che tu abbia
smesso di indossare quel cappotto! Non ti donava affatto!».
Tom
si morse il labbro ed uscì dalla caffetteria con Christie.
Sherlock
si stava godendo il momento, soddisfatto, quando sentì Molly
ritrarre
frettolosamente la mano e dirigersi verso il loro tavolo.
Tirò fuori dalla borsa
il portafoglio e lasciò una banconota sotto al
portatovaglioli, quindi lo
superò di nuovo e si gettò contro la porta,
bisognosa d’aria fresca.
«Molly»,
la chiamò Sherlock, seguendola sul marciapiede.
«Ho fatto qualcosa di
sbagliato?».
«No,
nulla di sbagliato», rispose in fretta, voltandosi e
trovandolo troppo vicino a
sé. Arretrò d’un passo prima di
aggiungere: «Semplicemente non avresti dovuto
comportarti in quel modo».
«Se
lo meritava».
«Cosa?
No!».
«Ti
ha sostituita in fretta, non trovi?».
Molly
piegò leggermente di lato la testa, incredula.
«Non mi ha sostituita:
noi ci siamo lasciati e Tom è andato avanti con la sua
vita. Sono contenta per lui».
«Il
tuo corpo mi dice il contrario», replicò
tranquillamente Sherlock, fissandola
intensamente.
«Il
mio…?». Molly deglutì e scosse il capo,
ficcandosi le mani gelate nelle tasche
del cappotto. «Sono un po’ invidiosa, è
vero: di Chrisie, del fatto che Tom sia
riuscito a trovare così in fretta qualcuno che lo possa
amare. Ma questo non
vuol dire che non sia contenta per lui. A nessuno piace la solitudine,
soprattutto dopo aver convissuto per un lungo periodo: la casa ti
sembra più
grande e vuota, non è importante se metti la tovaglia a
cena, il divano sembra
scomodo senza la persona a cui ti appoggiavi, e poi
c’è il silenzio…».
Molly
notò uno strano luccichio negli occhi di Sherlock e
lasciò che la voce le
morisse in gola, capendo al volo ciò che aveva
involontariamente fatto.
«Scusa»,
sussurrò, avvicinandosi. «Non mi sono resa
conto…».
Sherlock
sbatté le palpebre e con le lacrime spazzate via parve
riacquistare la sua
solita fredda lucidità.
«Stai
tremando», le disse, abbassando gli occhi sulle sue labbra.
«Non possiamo stare
qui fuori, rischi seriamente di prenderti una polmonite». Si
tolse rapidamente
la sciarpa blu che aveva al collo e gliela legò intorno alla
gola, quindi si
voltò e fermò un taxi.
«Dove
andiamo?», balbettò Molly, intontita dal calore e
dal profumo della sciarpa di
Sherlock.
«A
casa tua, se non ti dispiace».
Aprì
la portiera del taxi nero e le indicò di salire,
atteggiandosi soltanto da
cavaliere. Molly non disse una parola e una volta al caldo, seduta
accanto al
detective, non riuscì a trattenersi dal ridere, col naso che
sfiorava la
sciarpa di Sherlock e le guance rosse per il freddo.
«Qualcosa
di divertente?», le chiese, corrugando la fronte.
«Stavo
pensando a quello che hai detto a Tom. Tu sei l’unico a cui
potrebbe donare
quel cappotto, lo sai?».
«È
proprio quello che intendevo dire», replicò,
nascondendo l’ennesimo sorriso
dietro il bavero sollevato. «Ah, un’altra cosa,
Molly».
La
ragazza si voltò verso di lui e i loro occhi si
incatenarono, togliendole quasi
il respiro. Erano così belli…
«Labbra
troppo sottili, capelli tinti, gambe ad X, ossa del bacino troppo
sporgenti. Non
hai nulla da invidiarle».
Le
ci volle qualche secondo per rendersi conto che stesse elencando i
difetti
della nuova ragazza di Tom; un altro paio per realizzare che poteva
appuntarsi
quella frase come uno dei rari complimenti che di tanto in tanto le
rivolgeva,
anche se quella volta era un complimento ben diverso: non
c’era falsità nella
sua voce, non lo diceva solo per strapparle qualche favore.
«Grazie»,
mormorò, posando lo sguardo fuori dal finestrino ed
immergendo il naso nella
lana morbida ed intrisa del suo profumo.
Non
era la prima volta che Sherlock entrava in casa sua, ma si sentiva
sempre a
disagio, spaventata che potesse notare la polvere sui suoi soprammobili
e i
peli del gatto dove non riusciva mai a pulire, oppure che iniziasse a
dedurre
qualsiasi cosa sulla sua vita privata guardando il divano o la
disposizione
delle pentole nella credenza.
«Posso
offrirti qualcosa?», gli chiese, appendendo il cappotto che
Sherlock le aveva
teso e togliendosi il proprio.
Non avrebbe voluto separarsi dalla sciarpa e se
solo fosse nata un po’ meno onesta avrebbe trovato il modo di
nasconderla da
qualche parte per poi tirarla fuori e portarsela al viso ogni volta che
ne
sentiva il bisogno. La porse al suo legittimo proprietario con
entrambe le mani
tese e prima di riprenderla Sherlock la fissò stupito, come
se si fosse
dimenticato di avergliela data.
«No,
grazie», rispose infine, gettandosi sul divano come se si
trattasse di quello
al 221B di Baker Street.
«Okay».
Stava
per andare in cucina, dove avrebbe bevuto un sorso d’acqua e
avrebbe cercato di
pensare a qualcosa con cui intrattenere Sherlock – qualsiasi
cosa non
implicasse strani esperimenti sul suo piccolo Toby sarebbe andata bene
– quando
il detective la chiamò con quel suo tono di voce vibrante,
capace di arrivare
fino alla corda più sottile del cuore di Molly.
Si
girò e lentamente lo raggiunse, sentendosi un poco sotto
esame, nonostante
avesse gli occhi rivolti verso il soffitto.
«Tu
ti senti sola?».
Quella
domanda fu come un pugno nello stomaco e come se l’avesse
veramente ricevuto
sobbalzò appena, facendo scattare gli occhi di Sherlock su
di lei. L’analizzò
accuratamente, ma non volle condividere con lei alcuna deduzione.
«Prima
o poi… ci sentiamo tutti soli», rispose,
mordendosi le labbra.
«Voglio
sapere se ti senti sola adesso».
«No,
adesso no».
Sherlock
registrò il suo sorriso – tremendamente amorevole
– e aprì la bocca per
aggiungere che lui ci sarebbe stato, se si fosse sentita sola di nuovo,
ma non
ne ebbe la forza: sapeva di non poter tirar troppo la corda, di non
poter
illudere Molly così tanto. Come aveva detto a John qualche
tempo prima, il suo
lavoro era la cosa più importante e necessitava di tutta la
sua concentrazione,
di tutto il suo tempo, e non era nemmeno sicuro di poter offrire a
Molly ciò
che lei desiderava. Preferiva di gran lunga lasciarla sognare, vedere i
suoi
occhi illuminarsi quando si perdeva nel suo personale Palazzo
Mentale – chissà come
doveva essere – piuttosto che offrirle una realtà
definitiva e deludente, oltre
che pericolosa.
«Bene»,
esclamò soltanto, girandosi sul fianco. «A che ora
dovresti farmi tornare a
casa?».
«Alle
sette».
«Mancano
ancora tre ore. Che cosa diavolo dovremmo fare, io e te, per tre
ore?».
Molly
pensò a mille e più cose che lei avrebbe fatto a
Sherlock in tre ore e
ringraziò il cielo che fosse più interessato alla
trama dello schienale del
divano che a lei: sarebbe stato sconveniente farsi cogliere
così imbarazzata,
soprattutto perché il consulente non ci avrebbe pensato su
due volte prima di
lanciarle un’occhiataccia.
«Sarebbe
interessante provare ad esporre il tuo gatto
alla…».
«No!
Qualsiasi cosa tu abbia in mente, NO!».
Molly
si diresse verso il bagno con passo pesante e accese il phon per
asciugarsi i
capelli ancora umidi, impedendosi di sentire la risata sommessa di
Sherlock.
Sherlock
si guardò intorno, annoiato, e il suo sguardo si
posò sul PC portatile di
Molly. Inevitabilmente attratto, si alzò e dopo aver
controllato che la ragazza
si stesse ancora asciugando i capelli, lo afferrò spostando
i libri di anatomia
che c’erano posati sopra.
Lo
accese e al contrario del laptop di John, quello di Molly non era
protetto da
alcuna password. In ogni caso l’avrebbe scoperta facilmente.
Si
connesse subito ad Internet e cliccò sulla stellina dei
preferiti, scoprendo i
siti che visitava abitualmente. Tra questi c’era anche il suo
blog personale.
Non
sapeva ne avesse uno, non l’aveva mai saputo. Forse John,
forse lui lo sapeva,
dato che Molly frequentava spesso e volentieri quello del dottore, ma
non
gliel’aveva mai detto. E c’era un unico motivo per
cui non avesse condiviso
quell’informazione con lui: sensibilità.
Sherlock
iniziò a leggere i post. Non erano molti a dire il vero, ma
ci mise parecchio
tempo. Le parole che Molly non era mai stata in grado di dirgli erano
lì, di
fronte al suo naso, e facevano male. Non aveva mai effettivamente
pensato che
Molly potesse rendersi conto di ciò che faceva e
perché lo facesse, non prima
di quella famosa notte e dei suoi due anni di isolamento, nei quali
aveva avuto
tempo in abbondanza per riflettere su cose a cui forse non aveva
prestato la
dovuta attenzione. E ora provava uno spiacevole rimorso, pensando che
lei,
nonostante tutto, c’era sempre stata per lui.
Arrivato
al post datato 25 Marzo, nel quale Molly spiegava che era stato il
solito
arrogante e che aveva flirtato con lei solo per ottenere ciò
che voleva e poi
sparire, fu colpito dall’incremento dei commenti. Li scorse
velocemente e
scoprì finalmente come Jim Moriarty si fosse messo in
contatto con lei.
La
rabbia che provò fu così tanta che chiuse
violentemente il PC portatile e lo
gettò in fondo al divano. Quindi si prese le tempie tra le
mani, mentre le
parole di Molly gli rimbombavano nella mente:
«Sherlock,
che cos’hai? Stai bene?».
«Oh,
Molly…», sussurrò, alzandosi e
portandosi a pochissimi centimetri dal suo corpo,
occhi negli occhi. Vide le sue pupille dilatarsi e per un attimo,
vedendo il
proprio riflesso in quegli specchi castani, si chiese come facesse a
vederlo
davvero, di quale dono straordinario possedesse, per quale oscuro
motivo lo
amasse così tanto. Ma più di ogni altra cosa, si
chiese ancora: «Che cos’ho
fatto per meritarmelo?».
La
ragazza accennò un sorriso imbarazzato, al quale Sherlock
reagì aggrottando le
sopracciglia.
«Sei
il nostro Sherlock, non hai bisogno di fare
nient’altro», gli disse, e il
detective capì che doveva aver pensato ad alta voce, come
gli capitava spesso
di fare. Ma non doveva aver esternato molto, visto che Molly
– fortunatamente
– non aveva colto il vero
significato della sua domanda.
«Quindi
non pensi che io debba cambiare in qualche modo?», le chiese,
tornando a
sedersi sul divano come se non fosse davvero interessato a
ciò che avrebbe
detto.
«Non
saresti Sherlock, se cambiassi».
«Non
vorresti nemmeno che diventassi più gentile con
te?».
Molly
si ritrovò a boccheggiare, mentre pensava alla cosa
più giusta da dire senza
risultare eccessivamente smielata. Sherlock lo odiava.
Alla
fine decise di metterla sul ridere, ma evitò con cura il suo
sguardo,
dirigendosi in cucina: «Sono quasi certa che tu non te ne
renda conto. Non ti
comporti in maniera irritante e non rispondi male di proposito.
Insomma… non lo
fai con cattive intenzioni».
«Ne
sei proprio sicura?».
Molly
sobbalzò, sentendo la sua voce troppo vicina. Si
girò e vide Sherlock
appoggiato al tavolo, con le braccia incrociate al petto e gli occhi
inchiodati
su di lei. Sotto la luce del lampadario avevano assunto una
particolarissima
sfumatura d’azzurro, un azzurro argentato.
«Mi
devi perdonare, Molly Hooper».
«Sono
sicura di averlo già fatto», rispose velocemente,
raccogliendo tutta la voce
che le era rimasta.
«E
devi promettermi che lo farai anche in futuro, perché io non
posso prometterti
che sarò sempre gentile con te».
Molly
annuì, girandosi un bicchiere di vetro tra le mani.
«Se tu fossi…».
«Cosa?».
È
decisamente troppo
smielato, pensò
Molly,
mordendosi l’interno della guancia.
Non
avrebbe dovuto incominciare quella frase e ora era troppo tardi per
tornare
indietro. Se avesse detto a Sherlock di lasciar perdere sarebbe stato
ancora
peggio: stimolato, avrebbe fatto di tutto pur di far parla parlare, e
l’imbarazzo – come una tossina velenosa –
avrebbe raggiunto livelli epici nel
suo sangue, facendole provare del vero e proprio dolore fisico.
«Penso
che se tu fossi sempre gentile con me non apprezzerei così
tanto i momenti in
cui lo sei», disse tutto d’un fiato, per poi
voltargli subito le spalle e
riempirsi il bicchiere d’acqua.
Stava
combattendo con il rossore sulle guance, stava cercando disperatamente
il
coraggio di voltarsi ed affrontare di petto la sua reazione, quando
sentì delle
voci in salotto. Si sporse un poco oltre la soglia della cucina e vide
Sherlock
appollaiato su un angolo del divano, col telecomando in mano e il
riflesso
della televisione negli occhi.
«Hai
delle patatine?».
Molly,
confusa – ma nemmeno troppo – dal suo repentino
cambio d’umore, impiegò qualche
secondo per capire che lei era l’unica a cui avrebbe potuto
rivolgersi.
«Al
formaggio, possibilmente».
Sorrise
e andò ad aprire uno specifico armadietto sopra i fornelli.
In punta di piedi
afferrò un pacchetto di patatine al formaggio e ne
versò il contenuto in una
ciotola. Quindi gliela portò al divano e Sherlock non la
ringraziò; in compenso, senza
staccare gli occhi dalle news che scorrevano in fondo allo schermo, le
porse
silenziosamente la ciotola: un invito a mangiarle insieme a lui.
«No,
grazie. A me non piacciono quelle al formaggio», gli rispose.
Sherlock
si voltò a guardarla, ma quella volta era lei ad avere gli
occhi fissi sullo
schermo della TV, un sorrisino divertito sulle labbra.
***
«Per
favore».
«Farò
del mio meglio per non farvi notare gli errori grossolani che avete
commesso.
Far finta che tutti si
dimenticassero
del mio compleanno è stato il primo».
«Sul
serio, Sherlock. Per favore».
Il
consulente investigativo le rivolse un breve sorriso ed aprì
la porta di casa,
sbraitando: «Sono dannatamente stufo di voi e delle vostre
chiacch–!».
«SORPRESA!»,
lo interruppero un coro di voci e lo scoppio di un tubo spara
coriandoli.
Sherlock
si era già immaginato qualcosa – aveva avuto un
mucchio di tempo per farlo,
quel giorno – ma vederlo con i propri occhi, vedere quello
che le persone che
amava avevano fatto per lui… lo fece quasi commuovere.
C’erano palloncini
colorati ovunque, due striscioni appesi ai lati del salotto e uno con
scritto
“Buon Compleanno” sopra la testa cornuta tra le due
ampie finestre. Il tavolo
della cucina, sgombro di tutti i suoi strumenti per gli esperimenti
chimici,
era stato spostato e messo accanto a quello in salotto, e sopra
c’erano
stuzzichini di ogni tipo, bevande, pasticcini e persino una pila di
pacchi
regalo.
«Ci
vorrà un mese prima che torni tutto come prima»,
non poté far a meno di
commentare, arruffandosi i capelli per togliersi i coriandoli che
Lestrade gli
aveva sparato addosso.
John
si portò le mani sui fianchi e fece per rimproverarlo, ma
quando scorse il
sorriso di Sherlock ci ripensò e gli andò
incontro per stringerlo in un
abbraccio.
«Buon
compleanno, amico».
«Grazie.
Ma non ti sembro un po’ troppo grande per i
palloncini?».
Il
dottore scoppiò a ridere e come punizione
esclamò: «Forza, vai a farti
abbracciare da tutti».
Sherlock
avrebbe preferito di gran lunga evitare, un
«Grazie» complessivo sarebbe
bastato secondo la sua opinione, ma aveva promesso a Molly che avrebbe
fatto
“il bravo”. Si lasciò stringere e
baciare dalla signora Hudson e da Mary,
mentre rivolse un’occhiataccia a Lestrade, il quale non si
azzardò e gli
strinse semplicemente la mano.
«Ho
provato ad invitare anche Mycroft, ma ha declinato dicendo che doveva
assolutamente partecipare ad una riunione. L’ha definita
“d’importanza
nazionale”», spiegò John, stringendosi
il collo tra le spalle. «Ha fatto
portare qui un regalo dalla sua assistente».
«Carino
da parte sua», rispose Sherlock con un sorriso, chiarendo
subito dopo: «Non
presentarsi, ovviamente».
Si
voltò per ringraziare l’ultima – ma non
per questo meno importante – persona
rimasta e rimase basito quando non la vide alle sue spalle.
«Molly», mormorò.
Mary,
con una mano sul pancione, lo affiancò e gli
riconsegnò il cappotto che aveva
lanciato sul divano. «Fai ancora in tempo a
raggiungerla».
Sherlock
la ringraziò con gli occhi e corse giù dalle
scale. Aveva appena iniziato a
nevicare –
un dettaglio che la sua mente registrò e che
cancellò subito dopo,
impegnata com’era a cercare Molly tra i passanti. Alla fine
la scorse ad appena qualche
metro di distanza, in attesa di un taxi che aveva appena messo la
freccia per
accostare.
Le
corse incontro e richiuse violentemente la portiera che aveva appena
aperto,
facendola trasalire.
«Dove
hai intenzione di andare?», le domandò quasi
minacciosamente. Era davvero infuriato
con lei.
Molly
cercò una scusa plausibile per evitare tutto ciò
che avrebbe provato stando in
quell’appartamento pieno di calore, di vita, di…
unità familiare.
«Ho
il turno di notte al Bart’s».
«No,
ho controllato».
«Non
ci si può presentare ad una festa di compleanno senza un
regalo».
«Non
mi interessa. E poi non sei mai stata brava ad azzeccarli».
«Mi
sono dimenticata di dare da mangiare a Toby».
«Aveva
la ciotola ancora piena, quando siamo usciti».
Il
tassista tirò giù il finestrino, irritato, e
chiese che cosa volessero fare.
Sherlock gli urlò di andarsene e Molly guardò le
sue speranze di tornare a casa
diminuire metro dopo metro.
«Perché
ti comporti in questo modo?», le chiese di nuovo, attirando
la sua attenzione.
Molly
notò la rabbia e la confusione dipinte sul suo viso, ma non
ne fu
eccessivamente colpita: per certe cose Sherlock non era portato.
«Non
me la sento, dopo quello che è successo
io…».
«Okay,
ascoltami bene, Molly». Le posò entrambe le mani
sulle spalle e si abbassò in
modo tale che i loro occhi fossero perfettamente allo stesso livello.
«Non ce
l’ho con te per il tuo rifiuto. So di averti delusa molte
volte e che tu non mi
abbia preso sul serio quella volta
è
perfettamente normale. Non ti ho mai mentito e quando ti ho detto che
per me
conti, lo pensavo davvero. Tu sei importante per me, Molly».
Sherlock
si fermò per riprendere fiato e solo allora si accorse delle
lacrime che le
avevano riempito gli occhi. «Oddio, è come al
matrimonio di John. Perché fate
sempre così?».
«Tu
non lo sai… Non sai niente», balbettò,
lottando con tutte le sue forze per non
piangere di fronte a lui.
«Non
so che cosa?».
«John
non te l’ha detto…».
«Molly?».
«Il
motivo per cui non sono venuta a Natale, Sherlock».
Il
detective si raddrizzò, sforzandosi di ricordare le esatte
parole che John gli
aveva detto per giustificare l’assenza di Molly e che lui
aveva subito
catalogato come “la scusa più vecchia del
mondo”: «Molly non si
sente molto bene, non verrà stasera».
«Mia
madre è morta quella mattina, Sherlock, e sono dovuta volare
a Inverness». Si
passò le mani sotto agli occhi, spazzando via le due lacrime
che non era
riuscita a tenere sotto controllo, e tirò su col naso.
«Poco
fa, vedervi tutti insieme, felici, mi ha fatto ricordare quando noi
Hooper ci
riunivamo per le occasioni davvero speciali. Mia sorella si
è trasferita in
America e non la vedo mai, quindi ora che anche mamma se
n’è andata… non ho più
nessuno».
Sherlock
alzò gli occhi verso il cielo e con ancora le mani sulle sue
spalle l’attirò a
sé, stringendola in un delicato abbraccio. «Non
essere sciocca, Molly Hooper.
Lo sai che non è così».
Molly
sgranò gli occhi e subito dopo li serrò, pregando
perché quelle parole si
imprimessero nella sua mente. Non osò fare di più
e anche se avesse voluto non
ci sarebbe riuscita, paralizzata com’era dal suo gesto del
tutto inaspettato.
«Puoi
abbracciarmi se vuoi», sussurrò il consulente
investigativo, guardandosi
intorno per assicurarsi che non ci fossero macchine fotografiche e
cellulari
puntati su di loro.
Quando
Molly decise di cedere a quella tentazione, Sherlock si
ritrovò per un attimo
senza fiato, sorpreso dalla forza che era riuscita a tirare fuori e
dalla
piacevole sensazione che provò all’altezza dello
stomaco.
«Come
anatomo patologa, spero tu abbia calcolato con precisione la pressione
massima
da poter esercitare senza rischiare di provocarmi danni
permanenti», commentò
ad un certo punto, lasciandosi andare ad una risata.
Molly
si scostò e con gli occhi ancora lucidi, ma pieni di vita,
rispose: «Era un
esperimento, in realtà». E aveva funzionato,
perché posando l’orecchio contro
il suo petto aveva sentito distintamente il cuore di Sherlock battere
come
quello di chiunque altro. Non che ne avesse mai dubitato, ma aveva bisogno di sentirlo almeno una volta
senza l’uso di uno stetoscopio.
«Grazie,
Sherlock. Davvero».
Il
detective scrollò leggermente le spalle.
«Rimani?».
Molly
lo guardò negli occhi e fu colpita da un intenso
déjà-vu. Sherlock aveva la
stessa espressione di quella sera, quando le aveva detto che aveva
bisogno di
lei; un’espressione così forte e così
piena di debolezza allo stesso tempo,
determinata e fragile. Molly avvertì un brivido correrle
giù per la schiena,
rendendosi conto di quanto ci tenesse alla sua presenza.
Socchiuse
gli occhi ed annuì, certa che avrebbe rinnovato quella
promessa ogni qualvolta
Sherlock ne avesse sentito il bisogno. «Sì,
rimango».
Soddisfatto,
il detective la fece voltare e con una mano sulla sua schiena la spinse
verso
la porta del 221B.
Molly
venne accolta nell’appartamento come se fosse stata lei la
festeggiata e grazie
a Sherlock, il quale le porse un bicchiere di champagne appena
stappato, si
sentì di nuovo parte di una famiglia.
«E
comunque ce l’hai, il regalo», le disse a bassa
voce quando le passò accanto
per andare a sbirciare la torta che John stava tirando fuori dal
frigorifero
(ripulito anch’esso proprio per l’occasione).
«Ti ho visto mentre lo infilavi
in borsa di nascosto».
«Hai
detto che non sono mai brava ad azzeccarli, quindi è meglio
che lo tenga io».
«Scordatelo».
Fece tintinnare il proprio flûte contro quello di Molly e si
scambiarono un sorriso.
***
Arrivata
a casa, a mezzanotte circa, trovò Toby appallottolato sul
divano, che
sonnecchiava pigramente. Lo raggiunse per dargli la buonanotte, ma si
fermò
con la mano a pochi centimetri dalla sua testolina: non era
appallottolato sul
divano, bensì sopra una sciarpa blu a lei ben nota.
Senza
badare alla poca delicatezza con cui l’avrebbe svegliato,
spostò Toby e dopo aver
fatto del suo meglio per togliere più peli possibili si
portò la lana morbida
al viso. Ne respirò profondamente il profumo e con essa
avvolta intorno al
collo si infilò sotto le coperte.
Prima
di addormentarsi i suoi pensieri furono ancora più
incontrollabili del solito,
probabilmente a causa dello champagne, ed immaginò Sherlock
dimenticarsi di
proposito la sciarpa a casa sua, in modo da poterla utilizzare come
pretesto
per tornarci.
Aggrappata
a quel folle pensiero, si addormentò con una risata
inespressa sulle labbra e
il profumo di Sherlock nei polmoni.