PIZ’S POV
La osservo sorridere, imperterrita, seduta sulla panchina appena fuori
dall’ospedale di Neptune; comportarsi con eccessiva disinvoltura, mentre è così
lampante la morte nei suoi occhi. Il loro azzurro cristallino è reso opaco
dalle lacrime trattenute e seccate; le occhiaie troppo visibili, persino per
chi soffre costantemente di insonnia. Eppure lei rimane lì, impassibile, con lo
sguardo fisso all’edificio bianco di fronte a noi. –Forse sarebbe meglio andare
via da qui, Ver…- -No.- Appoggio il gomito sulle ginocchia, per reggermi la
testa, ormai confuso su cos’altro potrei fare per portare la sua mente, oltre
che il suo corpo, via da questo luogo che la sta logorando, ormai da due giorni
e mezzo. Sono riuscito almeno, con estrema fatica, a convincere la testarda qui
di fianco a me a prendere una boccata d’aria. Poco più distante dalla stanza
dove, quasi esanime, c’è quello che tutti definirebbero il grande amore della
sua vita. Con grande considerazione per il sottoscritto, certo. Questo è ovvio.
-Va bene, piccola. Va bene.- La scruto, per l’ennesima volta. Cerco di
catturare il suo sguardo, e, piano, avvicino le mie mani alle sue. Non so come
prendermi cura di lei. Davvero, non lo so. E’ una situazione troppo delicata, e
lei…Lei lo è ancora di più. Magari non è la mossa giusta. Magari non vuole
essere confortata con un banale abbraccio. Magari… -Posso?- alla fine decido di
chiederle, timoroso. Un rifiuto mi sarebbe dispiaciuto, ma per lei...c’è
qualcosa che non farei, per lei? -Perché me lo chiedi, Piznarski? Certo che
puoi. E poi sto bene, non mi devi trattare come una bambina di cinque anni.-
Più che un sorriso, come avrebbe voluto, apparve una smorfia, ai bordi delle
sue labbra. Poi fu lei a prendermi le mani tra le sue. Ci giocava, come una
bambina con la plastilina, pensierosa e distratta. -Ma forse hai ragione. Devo
andare a casa. Devo prendergli il pigiama, per quando si sveglia, e delle
mutande, dei calzini, e poi…e poi. …-si alza, e inizia a camminare veloce verso
la macchina. La sua affezionata Saturn. Ricordo quel buffo episodio, quando
l’aveva collaudata per la prima volta nei parcheggi dell’università: “Una
Saturn, per una Mars…e siamo a Neptune!” Avevo notato, con ironia. Ha
dell’assurdo pensarci in questa strana circostanza. –Ehi, calma! Dove vai?- -A
casa. Ehi…ma non eri tu che volevi che mi togliessi di qui per un po’ di ore? E
poi, non voglio che sia solo quando si sveglia, bisogna fare in fretta.- Una
maschera di cera. Ecco cosa mi sembra la donna che amo, mentre pronuncia quelle
parole, con un astio quasi sarcastico, e con un perfetto tono monocorda, che
quasi mi spaventa. - Veronica, prendi almeno le chiavi, se no come la metti in
moto la macchina?- La mia risposta alle sue frasi accatastate l’una sull’altra.
Mi corre incontro, e quasi mi strappa le chiavi di mano. Si precipita alla
vettura grigia e nera, e io non posso fare altro che salire dalla parte del
passeggero. Lei infila le chiavi nel cruscotto, ma la macchina non parte. Prova
a spingere più a fondo la frizione. Spegne, riaccende, spegne riaccende. E la
Saturn si ostina a non partire -Stupida macchina!- La sento sbottare,
all’improvviso, mentre prende a pugni il volante. Il rumore delle botte viene
sovrastato da quello ansimante dei singhiozzi trattenuti. Lascio andare un
sospiro. Prima o poi questo momento sarebbe dovuto arrivare. La fortezza
incrollabile di Veronica Mars è stata assediata dai sentimenti, e questi hanno
vinto, alla fine. Vincono sempre su tutti, prima o poi, chissà perché.
-Sshh…vedrai che starà bene.- Il suo viso stretto al mio petto, e le sue unghie
conficcate nella carne della mia schiena. Il suo dolore anche un po’ mio. La
mia forza, la sua. Si allontana di qualche centimetro, e mi fissa negli occhi,
truce. La regina di ghiaccio. – E’ in fin di vita, Piz. Lo capisci? Eh? Lo
capisci? Ma a te non è mai importato. Sarai content…- Le tappo la bocca con una
mano, e lei cerca di divincolarsi. – No. Non finire la frase. So che non
intendi dire quello che stavi per dire, perciò evita di pronunciare parole di
cui poi ti pentiresti.- Pian piano, sento il suo respiro farsi più calmo, e le
sue spalle si abbassano. Lacrime iniziano a bagnarmi le mani, ancora sul suo
viso. Si ritrae ancora di più. –E’ colpa mia. E’ solo colpa mia se è in quello
stato. Dovevo chiudere. E invece abbiamo continuato ad essere amici…Io…- -“Io,
io, io, io…" Veronica, ma ti senti? Per un attimo, lascia da parte il tuo
ego strabordante, e pensa che si tratta solo di lui. Ventiquattro anni di
tragedie su tragedie. Non pensi che fosse un po’ troppo? Tu probabilmente sei
l’unica cosa che lo ha fatto resistere un po’ di più, prima che…ecco…- - Per
favore, ora taci tu, ok? – è il suo turno di bloccarmi, con il solito gesto; il
palmo della mano posto a schermare fronte e occhi, come uno scudo dal mondo
esterno, da una realtà troppo crudele da affrontare, e che l’ha sfidata troppe
volte. Un gesto ormai automatico, verso tutto, verso tutti. O quasi. Ma è lei
ad arrendersi, prima che io possa fiatare. -Per favore, Piz, portami a casa.-
In quella sua espressione, tutto mi supplica, distrutto. La bacio, a fior di
labbra, e prendo il posto del guidatore. –Lo sai che ti amo, vero?- -Certo,
altrimenti perché pensi ti lascerei guidare la mia macchina?- Sguardo di
sbieco, strategico. Con il dorso della mano si asciuga e nasconde quello che
resta delle sue gocce invisibili di emozioni. Sorriso sghembo e malizioso.
Rieccola, la Veronica pronta a schermarsi dietro alla battuta, a fingersi
forte, dopo essere crollata di fronte all’universo intero. Una farsa, che, per
quel momento, e quelli a venire, e a venire ancora, ero disposto a reggere.
Almeno io, per lei. Dopo una doccia, una spesa, e due ore, siamo di nuovo nel
reparto che è stata la nostra casa per le ultime quasi 72 ore. -Se non vuoi
entrare, nessuno te ne fa una colpa, tesoro.- dice il buon Keith, a sua figlia,
vedendola titubante alla soglia della camera di Logan. In teoria le visite sono
negate, ma essere lo sceriffo ha i suoi vantaggi. Veronica, ci avrei scommesso,
non si sarebbe fatta sfuggire l’occasione, visto che per una volta _
ironicamente fortunata nella sfortuna_ avrebbe potuto fare a meno di
stratagemmi. Un respiro pesante è l’unico suono a malapena percepibile dalla
ragazza, in risposta al padre. Come previsto, senza dire una parola, varca la
porta bianco sporco. Sorrido, amaro. E’ come l’anima di Veronica. Tanto, tanto
pura. Onesta, eppure così traviata dal male del mondo. –Io vado a parlare coi
medici, ok? Tu tienila d’occhio.- mi dice papà Mars, e io annuisco, con un
cenno leggero del capo. Mi piace che si fidi di me. Ma mi irrigidisco, appena
sento una voce, femminile, lieve, parlare al vuoto, dentro la stanza. Sbircio
tra le tapparelle che escludono leggermente lo sguardo all’interno delle
parenti in cui è entrata Veronica. La vedo posare il borsone accanto al letto,
con tutte le cose che abbiamo comprato per Logan, nel viaggio di andata verso
casa, e anche di ritorno. Perché “Non si sa mai cosa gli sarebbe potuto
servire”, per citare mentalmente una biondina a me ben conosciuta. Poi si siede
accanto a lui, sul bordo del materasso -Sai, mi hai fatto spaventare, ma hai la
pellaccia dura. Scommetto che l’hai fatto apposta. Sei sempre il solito,
stupido Logan. Almeno potevi pensare a comprarti gli indumenti per l’ospedale,
no? Ah, giusto, ma tu sei quello perfetto, sei quello che non si fa mai male.
Beh, mi sa che questa volta hai pianificato le cose nel modo sbagliato. –
Parla, mentre piega e impila sul letto, premurosa, il necessario per una
persona ricoverata in ospedale. La voce tremante, e le mani ancora di più. Per
la seconda volta mette in ordine gli asciugamani, che a quanto pare non hanno
intenzione di rimanere ordinatamente l’uno sopra l’altro. Un sospiro frustrato.
-…Perché non ce l’hai fatta questa volta a rovinare tutto. E…e io, resterò qui
a tormentarti, finchè tu non ti sveglierai, mi guarderai, e ti lamenterai,
sarcastico, perché ti assillo, come fai sempre.- Gli tiene la mano, e ad un
certo punto, come se non ce la facesse più a sostenere la sua vista, gira il
volto verso la finestra. La presa della sua mano affusolata e minuscola, sempre
più forte sulla mano senza flebo di Logan. – Perché, Logan? Perché devi sempre
giocare con la morte? Un giorno o l’altro finirai per fare morire anche me...-
Su queste note, mi allontano da quello che, sapevo fin dall’inizio di quel
discorso, non avrei dovuto fare. Origliare fa sempre male a chi ascolta di
soppiatto. Sempre. Ma non si impara mai, evidentemente. D’un tratto mi spunta
sotto il naso una cartella clinica, la fotocopia per i pazienti. -Ehi,
figliolo. Dovremmo dirglielo, secondo te?- chiede consiglio, amara, la persona di fronte a me. -E’
inevitabile, Keith. Non vedi come soffre?- -Già, è proprio per questo che ho
paura. E si arrabbierà il doppio, se glielo teniamo nascosto. Tu stai qui.
Vedrò come rendere la cosa in modo più sincero e indolore possibile.- Lo
sceriffo mi dà una pacca sulla spalla. Il cuore è quasi visibile, in
quell’uomo, che se lo porta appresso, pesante come il macigno delle verità
scomode. Triste ritornello, ormai. –So che la ami abbastanza da riuscire a
curare ogni suo dolore. Lo so.- Solenne e risoluto, entra a sua volta dentro
alla stanza, in cui si trovano sua figlia e Logan, ormai nella penombra del
tardo pomeriggio. – Mi accascio, stanco, contro lo stipite della porta, giusto
in tempo per sentire. -Veronica, non vorrei dirtelo, ma…Logan è in coma. Ci
vorrà un po’ perché…- Ed esplose il temporale.
NOTA AUTRICE:
Ma salve! :D Mi auguro che questo capitolo sia piaciuto! Vi avviso, niente
è come sembra. Ho pianto, mentro scrivevo...è stato davvero intenso pensare a
questo scenario così triste. Spero che commenterete in tanti: sono curiosa di
sapere il vostro parere sulla storia :)
Grazie di cuore, a voi che leggete e a chi commenterà <3
With Love,
Infected Heart.