All’inizio
erano pochi minuti. Arrivava, sedeva all’estremo sinistro
della panchina e
guardava in alto. Restava così, immobile, per quindici,
venti minuti al
massimo, poi se ne andava come era venuto.
Chuck
aveva
pensato che fosse strano. Non lui, non più di altri almeno
– uno non
immaginerebbe mai quanta gente strana si incontri nei parchi di notte
– ma il
fatto che sedesse proprio lì, all’estremo sinistro
della panchina, dove l’asse
di legno verde era danneggiata, spezzata a metà. Restare in
bilico su quella
seduta malridotta doveva essere complicato, non era abbastanza larga
per
fornire una buona base, sedercisi certamente richiedeva una buona dose
di equilibrio,
e poi era acuminata e appogiarvisi doveva fare male. Non che non
potesse
andare, all’occorrenza – lo sapeva bene, lui, che
da anni passava ogni notte
d’estate nella stessa casetta di legno del vecchio parco
giochi – ma a
quell’ora non c’era nessun altro in giro.
C’era molto spazio su quella stessa
panchina, e ce n’erano altre, integre o quasi, dove avrebbe
potuto accomodarsi.
Perché scegliere proprio quella posizione, fra tante altre?
Le
sue visite
non erano così frequenti, ad ogni modo, e se non fosse stato
per quel bizzarro
dettaglio non lo avrebbe nemmeno notato. Chuck era un senzatetto, uno
che si
faceva i fatto suoi finchè poteva. Non si immischiava negli
affari degli altri,
lui. Se quello voleva ferirsi le chiappe su un pezzo di legno marcio,
padronissimo, la cosa non lo riguardava. Era primavera, e finalmente
poteva
smettere di passare la notte nelle stazioni della metropolitana, fetide
e
sovraffollate, e tornare nel suo parco, ad addormentarsi –
con una o due pinte
di vino, sia ben chiaro, - guardando le stelle. Quell’angolo
di Londra era la
cosa che più si avvicinava ad una casa, per Chuck, ma non
gli dispiaceva
dividerla con qualcun altro, una o due sere a settimana.
Purchè non desse
fastidio, beninteso, quell’uomo silenzioso era il benvenuto.
Dopo
un po’,
tuttavia, le sue visite erano diventate più frequenti. In
maggio lo incontrava
a sere alterne, ritto e con lo sguardo fisso in alto; in giugno, aveva
preso a
restare fino a sera inoltrata, le mani appoggiate in grembo. A volte,
aveva in
mano un involto di stagnola, il luccichio di quel metallo impostore ben
visibile
anche a metri di distanza (lo apriva, l’involucro ben
srotolato sulle gambe
magre, lo teneva lì per un po’, ma alla fine non
mangiava mai. Era la sua cena?
Non ce l’aveva un posto migliore dove mangiare? E
comunque… che spreco, pensava
Chuck. Lui sì che avrebbe saputo cosa farsene).
In
luglio,
aveva cominciato a sedere sulla sua panchina rotta ogni sera. Arrivava
intorno
alle sette, sette e dieci – Chuck non aveva un orologio ma
sapeva sempre che
ora fosse, un po’ perché leggeva la posizione
della luna e del sole, un po’
perché sentiva la sigla dei programmi tv attraverso le
finestre aperte – e se
ne andava a un orario variabile tra le dieci e mezzanotte. Non era un
orario
fisso, eppure, quando era il momento, si alzava e senza esitazione si
allontanava a passo spedito, come se un bidello avesse suonato la
campanella di
uscita da scuola. Non leggeva, non ascoltava musica, non controllava il
cellulare – tutte le cose che fanno le persone quando stanno
sedute su una
panchina al parco – sembrava non facesse nulla, eppure non
era così. Era chiaro
nel modo in cui si metteva in piedi, si scrollava di dosso la polvere e
si
allontanava senza voltarsi, che c’era una logica –
sbilenca, secondo Chuck, ma
logica nondimeno – nei suoi movimenti. Arrivava per una
ragione, e per un’altra
se ne andava al momento giusto.
Quello
era un
uomo che aspettava i titoli di coda.
Chuck
si era
preoccupato, alla sua prima scomparsa. Era ormai abituato al suo
arrivo, che
coincideva più o meno con il quarto bicchiere di vino, e ad
essere sincero la
sua presenza aveva cominciato ad essere confortante. Addormentarsi era
molto
più facile se lui era lì, vino o non vino.
Purtroppo, a un certo punto, in
luglio inoltrato, era scomparso, così come era arrivato. La
sua panchina
rimaneva libera ogni sera. Chuck era inquieto, più rissoso
del solito. Lo
avrebbe cercato, se avesse saputo come farlo.
La
sera in cui
era tornato, aveva tirato un piccolo – a suo giudizio, almeno
– sospiro di
sollievo. Lo aveva salutato con la mano, quando lo aveva visto
ricomparire. La
mattina dopo, il pacchetto di stagnola che teneva in mano era accanto
alla sua
casetta di legno. Chuck quasi non se lo ricordava, quanto fosse bello
avere da
mangiare la mattina.
Avevano
un
tacito accordo da allora. Non si parlavano, non si guardavano nemmeno,
ma erano
entrambi ben consapevoli della presenza dell’altro. Chuck
aspettava l’uomo che
non parla – lo chiamava così ormai- ogni sera, e
spesso si addormentava cullato
dal suo silenzio.
Erano
andati
avanti così fino all’inizio di novembre. Le foglie
erano arancioni, sparute sui
rami spogli, e Chuck disertava la casa nel parco sempre più
spesso. La pioggia
era ormai all’ordine del giorno, e fin troppi senzatetto
morivano di freddo
nelle notti d’inverno.
Libero
sì, ma
surgelato? No grazie. La stazione di Charing Cross era maleodorante,
sì, e
chiassosa, ma era coperta e calda. La primavera torna sempre, si diceva
Chuck,
e lui aveva intenzione di vederne tante altre.
La
nostalgia,
tuttavia, è una brutta bestia – lo ripeteva sempre
sua nonna, su al paese – e
una sera di dicembre Chuck decide di fare una passeggiata nel parco.
Solo per un
saluto alla sua casa, si dice, aspettando giorni migliori che
certamente
sarebbero arrivati.
Chuck
arriva
al vecchio parco giochi, e lui è lì. La nevicata
è cessata da qualche ora, e il
parco è coperto di bianco. Il lampione sgangherato emette
una luce tremolante,
ed ombre fredde si insinuano in ogni anfratto, lo lambiscono, lo
circondano. E’
seduto sul legno bagnato come era stato seduto in estate, immerso nel
profumo
dei soffioni, e sembra non avere notato la differenza.
Però
c’è solo
ghiaccio adesso, pensa Chuck.
In
una notte
di fantasmi, che male può fare uno spettro in
più? Chuck si avvicina in
silenzio, poi si siede accanto a lui. L’uomo si volta.
E’ più giovane di quanto
sembrasse a prima vista, attorno ai trenta, forse qualcosa in
più. Il suo viso
pallido sembra incorporeo sotto quella luce fioca: se non lo avesse
visto
tremare di freddo, avrebbe pensato che lui fosse un fantasma per
davvero.
Gli
fa un
mezzo sorriso: l’ha riconosciuto. Senza ancora aver trovato
il coraggio di
parlare, Chuck gli porge la bottiglia che tiene in mano, una vinaccia
spessa
fondo di barile. Lui esita un attimo, poi la afferra e se la porta alla
labbra.
Per
un po’ si
limitano a bere, Chuck che guarda lui e lui che guarda in alto, come
sempre.
Chuck strizza gli occhi nella stessa direzione, ma non vede nulla.
C’è un
palazzo anni ‘30, uno di quegli edifici solidi e massicci con
i balconi in
pietra e un giardino privato, recintato da sbarre di ferro rispetto al
parco
che lo fiancheggia. Solo un palazzo, ma come lo guarda!, con gli occhi
sbarrati, come se non volesse perdere nemmeno un millimetro di quel
banale
colpo d’occhio. Il busto è leggermente proteso in
avanti, per avvicinarsi quanto
più possibile, le dita delle mani di tanto in tanto si
allungano ad afferrare
qualcosa che non c’è, e tutto il suo corpo
è percorso da un tremore
impercettibile, sottile, incessante. Chuck pensava che fosse freddo, ma
adesso
vede bene che si tratta di desiderio, un bisogno così
intenso che a lui manca
il fiato solo a guardarlo. A volte inclina appena il capo e muove le
labbra,
come volesse cominciare a parlare. C’è un vuoto
così angosciante, terebrante, in
quel gesto che si arresta.
Forse
è il
vino, si dice. Troppi solfiti in quel pintone da quattro soldi. Che
cosa può
mai esserci, là, di così prezioso?
Alla
fine,
Chuck decide che il momento è arrivato. Ora o mai
più.
“Amico”
dice “qui
sta nevicando. Perché non te ne torni a casa? Ce
l’avrai pure, un posto dove
andare.”
Beve,
una
lunga sorsata che –Chuck è sicuro – gli
brucia lo gola e lo stomaco come fosse
benzina. Sarebbe meglio che ci andasse piano, è vinaccia,
quella, mica un barolo
raffinato.
“Si”
esita “Si,
ne ho uno, ho un posto dove andare. Ma la mia casa e
là.”
Che
sorpresa,
che parli davvero.
“Abiti
in quel
palazzo laggiù, allora? E’ quella casa
tua?”
“No,
quella
non è casa mia. Ma la mia casa è
là.”
Chuck
è
interdetto. Non è sicuro di aver capito bene. Non ha
studiato, lui, finito a
stento le elementari e delle medie ha fatto solo qualche settimana, ma
è sempre
stato bravo con le parole. E’ una cosa che viene sempre
utile, sulla strada.
Stavolta, però, c’è qualcosa che non
torna. Come fa ad essere casa sua se non
abita là? Forse l’hanno sfrattato? Ma no,
è ben vestito, fin troppo; all’inizio
ci aveva fatto un pensierino, sulla possibilità di
alleggerirlo un po’, quel
cappotto scuro ha un’aria così calda, ma poi ci ha
ripensato. Non sembra che
gli manchino i mezzi per vivere dove preferisce, in ogni caso.
Forse
è solo
un po’ matto, non sarebbe certo l’unico da queste
parti. Non sembrava, a prima
vista, ma non si può mai dire.
“Senti”
esordisce “io sono uno che si fa i fatti suoi, che lo so che
chi si fa gli
affari suoi campa cent’anni… Però te le
devo proprio chiedere, amico, perché sono
mesi che vieni qui ogni sera, e adesso pure sotto la neve, insomma,
ognuno è
libero di fare quel che crede ma strano è strano, poco ma
sicuro. E poi ti
siedi proprio lì, dove la panchina è rotta, ormai
avrai dei lividi grossi così
su quelle chiappe. Che cos’è che guardi
là? Perché io non vedo proprio nulla.”
Senza
distogliere lo sguardo gli fa cenno di avvicinarsi. Chuck è
un po’ dubbioso,
sarà che ormai inizia ad essere ubriaco ed ha paura che a
toccarlo potrebbe
scomparire, ma vuole capire, vuole sapere. Così si avvicina,
si siede accanto a
lui, stretto corpo a corpo con quello sconosciuto che, in un modo un
po’ strano
e ingarbugliato, gli sta più a cuore di tanti altri.
E
non è solo
per gli involtini di stagnola, Chuck lo giurerebbe a chiunque lo
domandasse.
Inaspettatamente,
lo sconosciuto solleva la mano a indicare qualcosa, laggiù,
e allora Chuck
capisce perché abbia scelto quello stesso posto per tante
notti, perché abbia
accolto il dolore che lui già sente tormentare i suoi lombi
dopo pochi istanti.
Se
non fosse
seduto proprio lì non potrebbe mai vedere dentro quella
finestra.
Strizza
gli
occhi, e guarda insieme a lui. Un uomo, sui quaranta, non esattamente
un bell’uomo,
un po’ trascurato, con i capelli biondo scuro e un
po’ di grigio qua e là,
anche se non è facile dirlo così da lontano. Una
donna bionda, in tuta e
vestaglia, appena un po’ più giovane. Una bambina,
una neonata, in pigiama, con
una piccola coda un po’ disfatta. Una bella bambina, pensa
Chuck.
Stanno
apparecchiando il tavolo, deve essere più o meno ora di cena
(dentro le case ci
sono orari regolari, pensa Chuck, ma lui preferisce
l’imprevedibilità delle sue
stelle). Parlano tra loro. Ridono, a un certo punto. L’uomo
afferra la donna –
deve essere la moglie, presumibilmente – per la vita e le
bacia il collo,
mentre lei si ritrae estasiata. Appoggia una mano sulla sua testa, la
fa
scivolare attraverso i capelli.
Chuck
sente la
strana necessità di non distogliere lo sguardo.
C’è tanto calore in quel
piccolo rettangolo di luce, di giallo ed arancio nel mare buio della
facciata
del palazzo. Si vedono ombre pallide danzare sullo sfondo,
c’è un camino acceso
là. Per un attimo pare anche a lui di sentire il fuoco
crepitare. Eppure,
questo non fa altro che rendere più vivido il contrasto, non
fa che ricordargli
che loro due si trovano fuori, nella neve, su una panchina rotta nel
buio dell’inverno.
Sono infinitamente lontani dal giallo e dall’arancio, dal
tavolo apparecchiato,
dal fuoco.
Faceva
già così
freddo, prima? Era così buio anche poco fa?
Poco
dopo si
siedono a cenare, l’uomo a capotavola, la bimba nella culla
alla sua destra.
Non è sicuro, ma gli pare che quelle sul tavolo siano
lasagne fumanti. Sembrano
allegri mentre mangiano, la cena dura parecchio, non sembra abbiano
fretta di
alzarsi, sono felici di essere lì insieme, ancora di
più quando, più tardi, si
accomodano su un divano di pelle grigia – o forse verde?-
dall’aspetto
consumato e dannatamente accogliente. La donna bionda si appoggia al
petto del
marito che le bacia la fronte mentre accarezza con un dito la guancia
della
bambina accoccolata sul suo grembo. Restano lì per quelle
che sembrano ore – o sono
pochi minuti, Chuck non saprebbe proprio più dirlo,
sarà il vino – e si
addormentano uno dopo l’altro.
Il
suo vicino
rimane accanto a lui per tutto il tempo, come una statuta di marmo, e
non fosse
per quel fremito che lo percorre a Chuck parrebbe di essere solo. Alla
fine, l’uomo
nella finestra scuote leggermente la donna bionda, che si alza e
solleva
delicatamente la bambina dal grembo del –quasi certamente
– papà. L’uomo si
alza dopo di lei, rassetta il divano, sprimaccia i cuscini, si
stiracchia prima
di scomparire dalla visuale.
Poi,
la luce
si spegne, e restano solo gli ultimi baluginii della brace nel camino.
In un
attimo il suo vicino è in piedi accanto a lui e scrolla le
tracce di neve dal
lungo cappotto bagnato.
A
Chuck è
sembrato che abbia mormorato buonanotte alla luce che si spegneva, ma
non
potrebbe giuraraci.
“E’
questo che
fai, ogni sera?” gli chiede prima che possa allontanarsi.
“E’ per loro che continui
tornare al tuo posto?”
Lui
abbassa la
testa, poi annuisce, e fissa i suoi occhi – azzurri, non se
ne era mai accorto
prima- nei suoi. E allora Chuck vuole scappare, vuole tornare a Charing
Cross,
alla gente, alla luce a giorno, all’odore sgradevole ma
innegabilmente vivo dei
suoi compagni di sventura, lontano dal questo buio, dal freddo, dallo
sguardo
di quell’uomo che racconta la storia di un vuoto che lo
divora, di un grido di
dolore soffocato in mancanza d’aria, lontano dalla
solennità di una angoscia
che non cessa, che non conosce più alcuna speranza.
Chuck,
per una
volta, si sente fortunato. Almeno ha qualcosa da aspettare, lui. Almeno
lui ha la
primavera.
L’uomo
inizia
ad allontanarsi, le spalle un po’curve. Prima che la sua
lunga sagoma scompaia
nel buio, Chuck lo induce a voltarsi un’ultima volta.
“Amico,
ehi,
amico!” chiama a mezza voce. “Aspetta! Un ultimo
brindisi.” dice, porgendogli
la bottiglia e sentendosi un po’ sciocco “Alla
primavera. Perché ci rivediamo,
non è vero? Ci vediamo al disgelo.”
L’uomo
fa un
mezzo sorriso, o almeno a Chuck sembra che sia così.
“Ci
vediamo al
disgelo” mormora.
Mesi
dopo,
Chuck sta nella sua casetta di legno. Fa ancora un po’
freddo, marzo è appena
iniziato, ma quest’anno era più forte il grido di
libertà. E poi, aspettava da
dicembre questo momento. Si è fatto aiutare da un paio di
amici, è costato solo
un paio di bicchieri, e non ci hanno messo poi molto ad effettuare lo
scambio.
Ora,
lo
sconosciuto ha una panchina intera, integra, tutta per lui. Chuck
l’ha
trascinata fin lì insieme ai suoi amici, l’ha
ripulita un po’ dalla patina che
l’inverno ha lasciato, si è accertato che la
visuale sia perfetta. Ed ora
aspetta.
La
finestra si
illumina alla solita ora. E’ tutto come nella notte di
dicembre, la famigliola
felice, la cena, il divano verde o forse grigio. La bimba è
cresciuta, è ovvio,
ora gattona felice sul tavolo.
Mancano
solo
il camino acceso e lo sconosciuto. Chuck si addormenta con un peso sul
cuore,
quella notte.
La
mattina
dopo, sulla panchina c’è un involto scuro. Anche
da lontano Chuck riconosce il
suo lungo cappotto, pulito e ordinatamente ripiegato. Sopra, un
biglietto:
Goditi
la primavera. A me non serve più.
Gli
occhi di
Chuck si inumidiscono un po’, ed erano anni che non accadeva,
almeno da sobrio.
Potrebbe
riferirsi alla panchina, si dice, o al cappotto.
In
fondo,
però, lo sa bene cosa intende. A chi non ha speranza non
serve a nulla la
primavera.