A chi è andato via troppo presto.
Wayward One
Ora
che ti guardo,
vedo
solo il buono,
che
rimane quando sai
che
tutto è perso tutto è rotto ormai
Tra i volti delle donne che
avevano atteso assieme a lei le notizie dei mariti ancora sepolti sotto le
miniere, Hazelle ne ricordava tre in particolare. Erano i volti delle uniche
donne che avevano potuto riabbracciare i loro mariti, quella sera. I tre
minatori avevano terminato da poco il loro turno di lavoro ed erano appena
giunti in superficie quando l’esplosione li aveva sorpresi: si erano salvati. Erano
sconvolti e feriti, ricoperti di
carbone, ma vivi. Hazelle li aveva guardati più e più volte, nella speranza di
riconoscere tra quelle figure scosse da conati di tosse e di vomito la presenza
di suo marito, ma era stata costretta ad arrendersi quando le mogli li avevano
raggiunti. Una ad una si erano lasciate cadere a terra per toccarli, per
abbracciarli, per assicurarsi che fossero lì sul serio. Circondata dal dolore
di altre persone come lei, che ancora supplicavano silenziosamente la bocca
delle miniere di sputare fuori i loro
uomini, i loro mariti e figli, Hazelle non era riuscita a distogliere lo
sguardo da quelle tre donne. Avevano gli occhi che urlavano sollievo, ma
tenevano il capo chino e le lacrime rigavano silenziose i loro volti, mentre le
loro mani stringevano con forza quelle dei mariti. Lottavano per non lasciarsi
sfuggire un sospiro, un sorriso, un grazie
rivolto a qualcuno in cui nemmeno credevano. Perché sapevano che non fosse
giusto lasciarsi cullare dal sollievo, non di fronte alle espressioni cariche
di stordimento e dolore delle donne che come loro erano madri, figlie e mogli,
ma che non avrebbero trovato conforto tra le braccia delle persone che amavano
e che avevano salutato quel mattino, prima di vederle incamminarsi verso le
miniere.
In quel momento Hazelle si sentiva come cinque
anni prima dovettero essersi sentite quelle donne. Alzò lo sguardo e lo
specchio le restituì il suo riflesso, attraverso un sottile strato di carbone. Analizzò
con aria stanca le ombre nere che le contornavano gli occhi grigi e le proprie
guance magre, ancora segnate dalle tracce di lacrime ormai asciutte. Il ricordo
dell’espressione sgomenta della signora Everdeen era
ancora vivido nella sua mente e non accennava a sfumare, così come quello dello
sguardo rassegnato di Katniss, mentre la ragazzina saliva sul palco della
mietitura al posto di Prim. O quello del volto del
ragazzo dei Mellark, più in carne e in forze dei suoi figli, ma non per questo
meno spaventato o meno indifeso di loro. Non era giusto, Hazelle lo sapeva. Non
era giusto provare sollievo, stringersi nelle braccia e tornare a respirare
regolarmente, nel sentir gridare da Effie Trinket il nome di un ragazzo che non era il proprio. Non era
giusto riconoscere lo sgomento nello sguardo di un altro genitore e la tensione
allentarsi nel proprio corpo. Il senso di colpa era forte, proprio come doveva
esserlo stato per le tre donne che avevano stretto i propri mariti tra le
braccia quella sera di cinque anni prima, sotto lo sguardo di chi aveva appena
perso tutto.
Hazelle cercò di indirizzare i
propri pensieri verso i suoi figli, sperando di dimenticare le urla di Prim Everdeen, mentre veniva
portata via da sua sorella. Pensò ai suoi bambini; a come il silenzio che
regnava in casa fosse dovuto solo al fatto che stessero tutti dormendo, nella
stanza accanto. Gale era salvo, Rory sarebbe rimasto con lei almeno per un
altro anno e Vick per altri due. Per Posy c’era ancora tempo. Era una magra
consolazione, ma in quel momento, con gli occhi spenti della signora Everdeen ancora ben delineati nella sua mente, quel
pensiero valeva ben più di quanto avrebbe potuto aspettarsi quel mattino.
Un rumore leggero alle sue spalle
la spinse a voltarsi. Gale chiuse la porta d’ingresso e si lasciò cadere su una
sedia, senza nemmeno togliersi il giubbotto. Hazelle non lo vedeva dal primo
pomeriggio, quando avevano accompagnato a casa Prim e
la signora Everdeen. La donna era stata costretta a
rincasare dopo un paio d’ore, per poter preparare qualcosa da mangiare ai bambini, ma
Gale doveva essere rimasto da loro fino a quel momento. La donna sospirò, prima
di avvinarsi al tavolo per sedersi accanto a lui, aspettando l’occasione buona
per incominciare a parlargli. Suo figlio aveva i gomiti sul tavolo e
la fronte appoggiata sulle mani serrate a pugno: il suo sguardo era imperlato
dalla stessa sfumatura di rabbia e di dolore che gli aveva velato gli occhi il
giorno in cui suo padre era morto. Hazelle lo guardò a lungo, sfiorandogli
delicatamente i capelli con la mano. Riuscì a incrociare per poco il suo
sguardo e seppe all’istante che
avrebbero voluto piangere entrambi, ma non potevano e non l’avrebbero fatto. Nemmeno in quel momento,
anche se erano soli. Anche se c’erano solo loro due a farsi forza l’un l’altra,
proprio come quella sera di cinque anni prima.
“Hai mangiato qualcosa?” chiese infine la
donna, senza sforzarsi di nascondere l’apprensione nel suo tono di voce. Gale
non rispose. Hazelle si alzò per andare a prendere gli avanzi della cena, ma il
figlio scosse bruscamente il capo, tirando la schiena all’indietro.
“Non ti preoccupare, non ho fame.”
La madre sospirò, tornando a sedere.
“Come stanno loro?” chiese infine. Gale distolse lo sguardo dalla donna, tornando a
cingersi il pugno chiuso con l’altra mano.
“Non bene” mormorò infine. “Prim ha smesso di piangere solo ora. Ho aspettato che si
addormentasse, prima di andare via. Sua madre… Non lo
so” commentò infine, passandosi una mano fra i capelli. “Forse riuscirà a non
lasciarsi andare. Per ora. Finchè Katniss resta…”
Non concluse la frase. Si limitò a respirare
a fondo, cercando di mantenere il controllo. Fu in quel frangente che Hazelle
lo vide, appoggiato alla sedia con la stessa espressione stanca e i capelli
arruffati del figlio: suo marito. Lo vide mentre congiungeva le mani sporche di
nero, imprecando a denti stretti contro la fatica e le ingiustizie che
regnavano in miniera.
“Ho lasciato a loro le fragole e il pane” proseguì Gale, voltandosi verso la
madre. “Ho tenuto i due pesci che erano per noi e la nostra parte di sale e
paraffina. Gli ho lasciato anche i soldi…” proseguì, con un principio di esitazione nel tono
di voce. La determinazione del suo sguardo si affievolì, lasciando il posto a un
barlume di insicurezza. Sembrava aspettarsi un rimprovero, ma l’espressione di Hazelle non mutò.
Non sorrise, ma nemmeno apparve sorpresa o turbata.
“Ho dovuto farlo” dichiarò il
ragazzo.
“Lo so.”
“Domani me ne procurerò altri.”
“Lo so, Gale” ripeté ancora
Hazelle, accarezzandogli materna una guancia. “Non sono arrabbiata.”
Gale sospirò, passandosi una mano
fra i capelli arruffati. Tornò ad appoggiare la fronte contro le dita
intrecciate, sotto lo sguardo preoccupato di Hazelle: lui sì. Lui era
arrabbiato.
“Non so che cosa fare” mormorò
infine il ragazzo. La determinazione che era solita tracciare il suo sguardo
resisteva, ma la madre notò ugualmente lo smarrimento e il dolore nei suoi
occhi. D’un tratto ebbe paura per lui. Con i suoi diciotto anni Gale era ormai
un uomo, ma nemmeno gli adulti erano esentati dalla confusione
che comportava l’affrontare la perdita di qualcuno. Suo figlio aveva paura e
non c’era nulla che potesse fare per aiutarlo a superare il dolore per l’allontanamento
di Katniss.
“Certo che lo sai” lo smentì la
madre, parlando in tono di voce fermo. “Ti comporterai come hai sempre fatto.
Andrai a caccia, ti prenderai cura di te stesso e dei tuoi fratelli. Aiuterai Prim e la signora Everdeen. Le
abitudini, le persone che ami e quelle che hanno bisogno di te: sono queste le
cose che ti salvano quando soffri, Gale” proseguì la donna, addolcendo il tono
di voce. “Resta te stesso. Resta in piedi, Fallo per te, per Katniss e per i
tuoi fratelli. Fallo per tuo padre” aggiunse, concedendosi un lieve sorriso
malinconico.
Lo osservò fissare con rabbia il
nulla, i pugni ancora serrati e le spalle rigide. Hazelle riconobbe all’istante
quell’atteggiamento. Ripensò al marito e alle volte in cui Joel rimaneva in
silenzio per trattenere la rabbia. Hazelle sapeva sempre quando era sul punto
di esplodere e con il tempo aveva imparato a mitigare i suoi scoppi d’ira,
sostenendolo e calmandolo quando il suo atteggiamento da testa calda prendeva
il sopravvento. Poteva solo sperare che suo figlio, un domani, avrebbe avuto
accanto una persona in grado di fare lo stesso con lui. C’erano giorni in cui
avrebbe preferito che gli somigliasse meno; sarebbe stato più semplice
guardarlo, cercare di consolarlo, di parlare con lui senza avere costantemente
sotto gli occhi lo sguardo fiero e determinato di suo marito.
“Prim e
la signora Everdeen se la caveranno, vedrai” cercò di
rassicurarlo, tornando ad accarezzargli una guancia. “Le aiuteremo noi.”
Gale scosse il capo.
“Non basta” ribatté asciutto,
appoggiando i pugni sul tavolo. “Non
basta, io la rivoglio indietro. Sono stanco di come ci prendano sempre tutto” dichiarò
in tono di voce più alto, sotto lo sguardo apprensivo di Hazelle. “Prima papà,
adesso lei. Ci buttano nelle miniere e ci fanno lavorare come animali, portiamo
a casa quel poco che basta a tenere in vita i nostri figli e poi ce li portano
via così. Li mandano in televisione e li uccidono sotto i nostri occhi. Perché?”
“Non c’è una risposta, Gale”
rispose ferma la donna. “Lo so che è ingiusto e lo so che fa male essere
costretti a guardare senza fare nulla, mentre ti portano via le persone che ami.
C’ero anch’io in quella piazza” aggiunse, appoggiando le dita sul mento del
ragazzo e facendo pressione perché il figlio ricambiasse il suo sguardo. “Ho
visto gli occhi di quella povera donna spegnersi per il dolore una seconda
volta, quando hanno fatto il nome di Prim. Ho visto
una ragazzina di sedici anni accollarsi l’ennesima responsabilità che mai e poi
mai avrebbe dovuto spettare a lei. E c’è stato un momento in cui ho avuto paura
per te, perché ho temuto che ti saresti offerto volontario anche tu.”
“L’ho pensato” ammise a bassa voce il ragazzo,
distogliendo lo sguardo. “L’ho pensato per un attimo, ma non avrebbe avuto
senso. Chi si sarebbe preso cura di voi? E di Prim?
Dovevo restare qui.”
“Certo che dovevi restare qui” ribatté la
madre un po più forte di quanto si fosse aspettata. “Come avrei fatto senza di
te?”
Hazelle sapeva perfettamente che se
Gale o Rory fossero stati estratti per la mietitura, non avrebbe impiegato
molto a fare la fine della signora Everdeen. Quando
era morto Joel era riuscita a superare il dolore solo perché aveva una
gravidanza da gestire e tre figli da accudire. Aveva colmato quel vuoto con lo
sfregare delle lenzuola sulle assi, con le mani tremolanti dei figli che si
insinuavano nella sua e con i pianti estenuanti della piccola Posy. C’erano stati dei giorni in cui aveva faticato
ad aprire gli occhi la mattina quando, allungando la mano lungo il materasso, aveva
trovato l’altra parte del letto fredda e vuota. Si era rialzata ogni volta lo stesso, la mattina presto e durante la notte, per lavorare e per
vegliare sul sonno dei suoi figli, quando erano malati. Ma sarebbe riuscita a
fare altrettanto se le avessero portato via uno dei bambini? Come ci si rialza, quando si perde un
figlio? Con che coraggio si aprono gli occhi, si affronta una giornata, si
vive? E in che modo avrebbe ancora potuto guardare in faccia la signora Everdeen senza provare al tempo stesso dolore e
riconoscenza, nel sapere che i suoi figli erano a casa al sicuro, mentre la sua
rischiava di morire ogni giorno?
Tornò ad analizzare con apprensione
il volto stanco e gli occhi furenti del suo primogenito.
“Perché ci lasciano, mamma?” chiese
infine Gale, chinando lo sguardo, come se provasse vergogna delle sue stesse
parole. “Perché ce li portano via tutti?”
Hazelle sospirò, accarezzandolo
tristemente con lo sguardo: ancora una volta non aveva risposte per lui. Il
male sembrava attecchire per la maggior parte delle volte sulle persone che se lo meritavano di
meno ed era sempre stato difficile per Gale accettare il fatto che non potesse
fare nulla per impedirlo.
“Non lo so, amore” mormorò infine,
sistemandogli un paio di ciocche ribelli sulla fronte, come faceva spesso
quando era più piccolo. “Non lo so.”
Rimasero entrambi in silenzio per
qualche istante. Lo sguardo di Gale ricadde sul vecchio televisore all’angolo,
semi-illuminato dalla luce fioca delle candele.
“E noi lasciamo che ci trattino così” concluse infine, con espressione d’un tratto
risentita. Strinse le mani a pugno e tornò a voltarsi verso la madre. “Perché
nessuno fa niente, perché ci strappano via tutto e noi non reagiamo?” sbottò
secco, battendo un pugno sul tavolo. La donna trasalì.
“Gale” mormorò in tono di
rimprovero, scoccando un’occhiata alla porta che dava sulla camera da letto dei
figli. Ancora una volta Joel Hawthorne si fece spazio fra i suoi pensieri,
usando lo sguardo del suo primogenito come tramite. Le parole che aveva usato
Gale non erano poi così distanti dalle frase cariche di rancore che il marito pronunciava
nei momenti di collera, quando qualcuno rimaneva ferito o perdeva il lavoro
nelle miniere. Quando un collega moriva o perdeva un figlio per gli stenti, un
incidente o una malattia. Quando le ingiustizie si imbattevano sulla gente del
Giacimento.
“…
Ti ricordi di Deev, quel ragazzo che ti ha sostituito in miniera quando eri
incinta di Rory?”
La voce di Joel era tranquilla, ma c’era
una nota di astio, nelle sue parole, che ad Hazelle non sfuggì.
“C’è stato un incidente, oggi. Una
parete è crollata e lui e un collega si sono trovati travolti dalle rocce. Siamo
riusciti a tirarli fuori in tempo, ma Deev ha una gamba completamente fatta a
pezzi”concluse secco l’uomo, scuotendo il capo e passandosi una mano fra i
capelli arruffati. “Non può tornare in miniera in quelle condizioni. Sua moglie
è malata e i suoi figli vanno ancora a scuola, come diamine farà a dar loro da
mangiare? Sono bambini piccoli, potrebbero avere l’età dei nostri due”
aggiunse, guardandosi le mani sporche di carbone. Hazelle riconobbe nei suoi
occhi grigi la venatura di rabbia che a breve l’avrebbe portato ad esplodere.
“Lo sai perché ci trattano così, Haze?”
domandò infatti poco dopo, voltandosi verso la moglie. “Lo sai perché ci
costringono a lavorare in quelle condizioni? Perché non reagiamo, ecco perché”
sbottò improvvisamente, alzando il tono di voce. “E non voglio questo per Gale
e per Rory. Non voglio che siano costretti a spaccarsi la schiena per un po’ di
pane, che rischino la vita tutti i giorni, lavorando dodici ore là sotto.”
“Joel…” Hazelle gli sfiorò la spalla con delicatezza,
risalendo poi lungo il collo. “Calmati.”
“Perché?” ribatté il marito, pestando
un pugno sul tavolo. “Perché se mi sentono mi sbattono in prigione? Sarei
punibile dalla legge solo perché amo i miei figli e sogno una vita decente per
loro? Sono i nostri figli, Haze” ribadì,
fissando con insistenza la moglie. “I nostri figli.”
“Shhh.”
Hazelle scosse il capo, prima di intervallare le sue parole cariche di rancore
con un bacio. Joel la lasciò fare, ritirando i pugni dal tavolo per avvicinare
a sé la moglie, cingendole i fianchi con le mani. Hazelle scostò appena le
labbra dalle sue per guardarlo negli occhi, sfiorandogli con tenerezza una
guancia.
“Arrabbiandoti così non risolvi nulla” mormorò
infine con sguardo determinato. Joel annuì; appoggiò per un attimo la fronte contro quella
della moglie, estinguendo la rabbia in un ultimo sospiro rassegnato. Nello
scostarsi da Hazelle notò una figurina minuta appoggiata alla porta della
camera da letto. Gale li stava squadrando con espressione preoccupata, gli
occhi grigi puntati contro quelli identici del padre: il suo sguardo era serio
e attento. Aveva appena compiuto sei anni, eppure per certi versi sembrava già un uomo.
Joel gli sorrise, battendosi una mano
sulla gamba.
“Vieni qui, ragazzo.”
Gale obbedì. Attraverso la cucina a passo
svelto e si issò sulle ginocchia del padre, che gli arruffò giocosamente i
capelli.
“Hai
tenuto d’occhio tua madre e Rory per me, mentre ero via?” chiese, recuperando l’elmetto
da lavoro dal bordo del tavolo per metterglielo in testa.
“Sissignore!”
Gale annuì fiero ed Hazelle rise,
osservando gli occhi chiari di suo figlio scomparire sotto il casco. “Ti
assomiglio con questo in testa, papà?” chiese il bambino da sotto l’elmo, scoprendosi
gli occhi e sorridendo alla madre. Le labbra di Joel si incresparono per dare
origine a un sorrisetto divertito.
“Sei la mia copia sputata, te lo
garantisco” dichiarò, incrociando lo sguardo della moglie. “Difetti inclusi”.
“Soprattutto i difetti” gli diede man
forte Hazelle, sorridendo intenerita al bambino. Gale fece spallucce.
“Sono contento” dichiarò fiero,
sollevando il capo per poter guardare il padre negli occhi. “Io voglio essere
come te” rivelò, togliendosi l’elmetto per metterlo in testa all'uomo. Joel gli
sorrise, tornando ad arruffargli i capelli.
“Non so se sia un bene per tua madre
avere in casa un altro come me” osservò con un guizzo divertito nello sguardo,
ammiccando poi alla moglie. Hazelle rise di nuovo.
“Finché non mi fate arrabbiare va tutto
bene” concluse, chinandosi in avanti per baciare entrambi. Quando si alzò per
andare a controllare Rory nella stanza accanto si accorse che Gale stava
sussurrando qualcosa nell’orecchio di Joel.
“Non farò mai andare Rory nelle miniere”
lo sentì dire, in un mormorio sottile
che era indirizzato soltanto al padre, ma che Hazelle riuscì ad udire lo
stesso. “Te lo prometto.”
Hazelle sbatté le palpebre,
tornando a concentrarsi sul figlio. La rabbia segnava ancora gli occhi di Gale,
che si era alzato dalla sedia, incapace di restare immobile.
“E se l’anno prossimo ci prendono
Rory?” chiese ancora, fissando con insistenza la madre. “E se fra due anni chiamano Vick? Non
potrò offrirmi volontario per tenerli a casa. Dovrei starmene zitto? Dovrei
lasciarli andare?”
“Basta così, Gale” mormorò infine
la donna, stringendogli con fermezza una spalla. “Hai bisogno di dormire
adesso.”
Gale si ritrasse alla sua presa e
scosse il capo, distogliendo bruscamente lo sguardo.
“Non ho sonno.”
Hazelle ignorò il gesto scostante
del figlio e rimase al suo fianco, aspettando che si calmasse. Passò quasi un
minuto, prima che Gale si lasciasse andare ad un ultimo sospiro di
rassegnazione.
“Scusami” mormorò infine,
indirizzando una breve occhiata alla madre. Hazelle annuì, analizzando con
sguardo triste la stanchezza ancorata nel volto del figlio.
“Vai a dormire, Gale” mormorò con
dolcezza, appoggiandogli una mano sull’avambraccio. Gale si arrese; baciò la
madre sulla guancia e sparì nella stanza a fianco. Il mattino successivo,
tuttavia, Hazelle lo trovò nuovamente in cucina, con i gomiti appoggiati al
tavolo e gli occhi rossi di chi non vuole piangere, né dormire, ma solo
aspettare. Non disse nulla, perché lo capiva; lo aveva fatto anche lei per
giorni, settimane - forse mesi – in seguito alla morte del marito. Ogni tanto
si sorprendeva ancora ad attendere il ritorno di Joel, si aspettava di
trovarselo seduto in cucina, con il suo sorriso un po’ storto e lo sguardo
sempre impegnato ad inseguire i movimenti e i gesti dei suoi figli. In quei
momenti le era capitato più volte di ripensare a una vecchia frase del marito: c’era
sempre chi andava via troppo presto e quasi tutti, con il tempo, imparavano ad
accettarlo. Ma c’era anche chi a quegli abbandoni reagiva con rabbia,
ribellandosi e lottando contro la rassegnazione. C’erano persone che non volevano
arrendersi perché non ci si può sottomettere a qualcosa, se non la si ritiene
giusta: suo figlio Gale era una di quelle persone.
Non
lo so che farò
quando
avrò finito il tempo e sarà tardi per l'inverno
che
nel cuore ho per te io pregherò
Nota dell’autrice.
#1. I
versi della canzone sono tratti da “Pregherò” di Giorgia feat. Alicia Keys. Non c’entrano praticamente nulla con la one-shot, ma sono ciò che mi a spinto a scrivere, perché l’idea
è nata proprio ascoltandola. E in un certo senso trovo che la melodia e alcune
parole della canzone si appoggino bene alla
sensazione di perdita che provano sia Gale, che Hazelle.
#2
Grazie a Chara
per il suggerimento sul titolo. Wayward One è una canzone degli Alter Bridge e mi sembra particolarmente adatto sia a Gale che a
suo padre, specialmente in relazione alle ultime frasi della one-shot.
#3. C’è
un punto tre? Non lo so >.< Questa storia è nata per caso mentre ne stavo
scrivendo un’altra. È nata perché avevo bisogno di scriverla, credo, anche se
me ne sono accorta solo dopo averla iniziata. Chi mi conosce sa che la famiglia
Hawthorne è il mio punto debole e
nonostante fossi partita dall’idea di scrivere una cosa solamente su Hazelle,
alla fine suo marito e suo figlio si sono messi in mezzo e li ho assecondati, perché
credo che senza di loro la storia sarebbe sembrata incompleta. Non sono sicura
che i personaggi siano IC, ma questo è il modo in cui li ho sempre percepiti io,
specialmente per quanto riguarda Mr. Hawthorne che non conosciamo affatto. Joel è il nome che ho scelto per lui in Piccoli
Uomini e che cerco sempre di riproporre quando lo introduco come
personaggio in qualche storia, perché ci sono molto affezionata. Il flashback è
un’altra cosa che alla fine non sono riuscita a trattenermi dall’aggiungere,
forse per calcare le somiglianze tra padre e figlio, forse per spezzare un po’
la storia. E niente, spero che la storia non sia risultata troppo noiosa, perché
sono consapevole del fatto che sia parecchio lunga e in certi punti piuttosto
introspettiva. Grazie a chiunque sia passato a leggere <3
Un abbraccio!
Laura