Il segreto del tempo
Il suo primo giorno da umano John lo ricorda a
stento.
Lo trascorre dormendo sul divano del salotto di
villa Tyler, con Tony a pizzicargli i piedi e una coperta eccessivamente
pesante rimboccata fin sul naso.
Quando si sveglia, scalcia via la coperta, si stropiccia
il viso, sbatte le palpebre finché non smettono di sembrargli ricoperte del
miele di Andros.
Appiccicose,
decisamente troppo.
All’inizio il salone è una macchia confusa e
soffitto e pavimento fanno a gara a chi si ridimensiona per ultimo.
Rose è seduta su una poltrona con stampe a
fiori, frontalmente nella linea di fuoco del suo sguardo. Ha in mano una tazza di qualcosa dall’aroma
delizioso.
Lui annusa senza vergogna, come un segugio, e prova
un’estasi smisurata, mai così partecipe prima. Caffè, riconosce con un palpito di quasi tenerezza.
La vede sollevare il mento, ricacciare indietro
una riflessione con la volontà determinante con cui di solito si ingoiano solo
i brutti pensieri o i bocconi troppo aspri e, nell’incontrare i suoi, gli occhi
le brillano di malizia, curiosità e qualcosa di più fragile e vago, morbido e
dolce.
- Quanto ho dormito? –
La voce gli esce come una cosa roca e
gracchiante. Ha l’impressione di avere un rospo in gola o un Lillipuziano.
- Quasi dodici ore. Un record, davvero - risponde
lei e manda giù un sorso del suo meraviglioso caffè.
John si colpisce sulla fronte, incredulo. Ogni
arto, compreso i denti e il naso che tecnicamente non lo sono, gli sembra
estraneo, un prolungamento avulso a cui deve abituarsi. – Dodici ore. Non posso
crederci. Dodici ore! Sono un bambino, no, un vecchio. Solo i vecchi hanno
bisogno di dormire tanto. Ricordami di chiederlo a Peter. –
Rose nasconde poco e male un sorriso di vera
ilarità dietro la tazza. – Non credo che dovresti, sai. Diventa piuttosto
suscettibile quando si tira in ballo l’argomento. Mamma dice che è la crisi di
mezza età. –
John si stiracchia, le gambe troppo lunghe per
lo spazio scarso del divano. Poi si copre il volto con entrambi le mani, si
prende a schiaffi, fa un numero imprecisato di boccacce, si trapassa i capelli
tante volte da renderli una cosa arruffata e sparata in mille direzioni,
controlla l’alito e fa la peggiore delle smorfie disgustate.
- Be’ - biascica alla
fine, - dovrò farci l’abitudine. –
Dopo una pausa, con il proposito
preciso di strapparle quella risata che le vede incastrata sulle labbra e che nello
scoppiare suona come le trombe di Troia, quando ha aperto le sue porte al
famoso cavallo, la stessa speranza nata da un’attesa così lunga da sembrare una
vita: - Che dici, potrei avere anch’io un goccio di quella cosa che bevi? –
Quella sera stessa - o è pomeriggio? – Rose gli mostra la sua stanza.
- È piccola - fa notare in tono di scuse - e il
colore è orribile, ma potremmo ridipingerla. -
John non ribatte. Spiegare che qualunque parete
di una qualunque stanza non sarà mai abbastanza grande - tranne forse le camere
a Buckingham Palace, a quelle è piuttosto sicuro che saprebbe abituarsi –
perché troppo finita, la sospensione di uno spazio determinato, sigillato,
bollato, etichettato, richiederebbe l’uso di parole che non possiede.
E il bianco va bene, decide. Qualsiasi altro
colore sarebbe sbagliato. Il bianco è pulito, amorfo, una pagina da riempire.
Come una lavagna gigante. Gli piace. – Va bene
così – dice e si ficca le mani in tasca, dondolando sui talloni. Bene, ma non molto bene.
È già il mese dopo – forse il terzo che è lì,
non è bravo a raccapezzarsi con quel tempo così lineare e semplice e catalogato
in giorni che formano settimane e mesi – che John avanza la proposta a Rose.
- Potremmo cercare un appartamento. –
Rose rimane a bocca aperta, il pezzo di
ciambella ancora in mano e la glassa a sporcarle le labbra.
– Perché? – domanda, leccando via lo zucchero.
John tamburella le dita sul tavolo della cucina,
chiude gli occhi e li riapre, immensamente divertito da un pensiero
irriverente. – Non credi di essere troppo grande per il discorso sul primo volo
dal nido? –
- Non ti piace stare qui? -
Il divertimento negli occhi sgranati di Rose è
moderato da una nota di panico leggera e infima.
- Per quanto mi piaccia fare a lotte di cuscini
con Tony e ritrovarmi Jackie appendiabiti che mi passa l’asciugamano fuori
dalla doccia - muove le mani con svolazzi nervosi – rimango dell’idea che un
appartamento in centro sarebbe una soluzione più agevole. -
Rose annuisce e il bagliore nel suo sguardo si
fa terso, senza macchie di alcun genere. - Continua a infilarsi nel bagno, eh?
-
John rotea gli occhi, il ritratto enfatizzato
dell’esasperazione. – Anche quando mi chiudo a chiave. –
- Credo che abbia un passepartout o qualcosa di
simile. -
John impreca tra i denti e Rose si allunga per
battergli un colpetto di consolazione sulla mano e confiscare l’ultima
ciambella al cioccolato dal contenitore. – Trova qualcosa di eccentrico, ma non
esagerare con le stranezze. –
Lui si sfrega le mani, sorride e sprofonda nella
lettura degli annunci immobiliari con una matita dietro l’orecchio.
- Oh, - continua Rose, ritornando al suo
rapporto - a mia madre lo spieghi tu. -
E John si strozza con il caffè.
Convincere Jackie che è arrivato il momento di
lasciarli andare richiede la pazienza congiunta di tre generazioni Tyler,
quattro contando il Tyler acquisito che è John, tre e mezzo contando che Tony e
Rose è come se appartenessero alla stessa, una all’inizio e una alla
conclusione dell’arco.
All’inizio Jackie ha giocato la carta di Tony
che ha pianto per ore perché “non voleva lasciare che il Folletto se ne
andasse”.
Rose avrebbe sghignazzato come al solito per
quel soprannome se l’esserino piagnucolante avvinghiato alle sue gambe non
avesse impietosito il suo cuore tenero.
John ha promesso di venire a giocare con lui (“Parola
di scout” e ha incrociato le dita), entrambi hanno giurato che saranno presenti
ai pranzi della domenica e che se scompariranno per qualche missione o faccenda
aliena del governo glielo faranno sapere con largo anticipo.
Tony si è convinto, Pete era dalla loro parte
dall’inizio e Jackie a quel punto ha dovuto cedere le armi.
Casa loro si trova all’ultimo piano di una
palazzina senza ascensore. È una mansarda e John praticamente deve camminare quasi
tutto il tempo con la schiena incurvata e deve chinarsi pure in bagno, ma il
giorno in cui staccano la carta da parati è il più bello e quello in cui lui
monta la lavatrice il più bagnato.
Ci sono pile di libri e piccole librerie
dell’altezza di un Nano o di Tony dove le pareti sprofondano nel pavimento in
perfette oblique. Le finestre si affacciano sulla City trafficata, la cucina è
un angolo cottura che assomiglia al baby forno e il letto e il frigo sono gli
unici mobili di dimensioni normali là dentro.
Eppure Rose ride ogni volta che tornano a casa e
dopo il Torchwood, asettico e sproporzionato, la loro casetta pare una tana
confortevole e accogliente. Ci sono pouf rosa e viola, un divano cigolante con
tanti di quei cuscini che sembra di sprofondare nelle sabbie mobili di Delta,
fili di lucine alle pareti che formano strani motivi a ghirigori, un tappeto
persiano di cui John è fierissimo, quadri di artisti emergenti e riproduzioni
fedeli dei suoi pittori preferiti, una collezione di vinili e un giradischi che
John è sicuro di riuscire a far funzionare un giorno o l’altro.
Pian piano la casa si riempie di ninnoli e
souvenir, un’accozzaglia di oggetti che Rose, ridendo con le mani sui fianchi,
definisce “una marea di robaccia”, ma la adora come lui e non rinuncerebbe a nessun
ricordo, non più.
L’obi della geisha che li ha aiutati a scoprire
il trucco di quel boss mafioso che era un Sodomon in fuga. Un cappello da
torero della volta in Spagna. Un loro acquerello sulla Senna, risalente a
quella missione a Parigi che al solo ripensarci gli fa ritornare il mal d’aria.
La collana di perline della bambina in Jamaica – treccine nere e sorriso
radioso - e i sigari mai fumati dello Zratr a Cuba.
Un giorno succede a John di guardarsi allo
specchio e trovare qualcosa di diverso.
Scopre di avere ai bordi degli occhi rughe da
sorrisi e questo non gli dispiace.
Scopre un capello bianco e anche questo non gli
dispiace. In virtù della vita che fa avere un solo capello bianco gli pare un
compromesso accettabile.
Ora deve farsi la barba ogni giorno perché
ricresce alla velocità di una rotazione sul pianeta Klosk. Qualche volta gli
piace tenerla. Rose allora lo accusa di essere ruvido come una grattugia e poi
si lascia “grattugiare”.
Non porta più le basette, ha i capelli più
lunghi e il suo armadio contempla un numero crescente di capi di vestiario,
adatti alle occasioni e alle stagioni.
Al momento ha uno smoking, due completi
giacca-pantaloni, tre paia di jeans, un giubbotto di pelle, cinque camicie e
una pioggia di magliette delle sue band preferite, più un’infinità di maglioni
infeltriti e l’immancabile soprabito. Ah, e un completo da torero e uno da
ausiliare del traffico.
John si tasta le guance, si rade, si studia la
capigliatura in cerca di fantomatici amici bianchi. Deve tagliarsi le unghie,
mangiare, dormire sei ore per notte, ricordarsi di bere e mettersi i calzini.
(“È come se una mattina ti svegliassi e non
sapessi più chi sei”, ha detto a Rose durante
Una mattina di un giorno qualunque, John scopre
di avere meno stelle negli occhi e qualcosa di diverso a riempirli, qualcosa di
così umano che fa male ed è un po’ come ricevere un pugno.
L’altro sé non avrà mai quello sguardo, pensa, e
ha un moto di pietà.
Il segreto non sta nel Carpe Diem, nel vivere
giorno per giorno, nel non pensare al domani o nel rimuginarci troppo. Il
segreto non sta nel tempo in sé e per sé, ma nella qualità con cui lo si
afferra, senza stringerlo o stritolarlo o farsi del male a vicenda.
Il tempo è un po’ un animaletto selvatico: puoi
cercare di addomesticarlo tutta la vita o accettarlo per quello che è,
coccolarlo quando è disposto a farsi ammansire, allontanarti quando tira fuori
gli artigli e ti soffia contro con un ringhio di rabbia e malcontento.
Si tratta di capacità di adattamento a tutto ciò
che è nuovo.
Si tratta di avere una mente aperta e di essere
disposti a rischiare, stare al gioco, sempre al passo.
Il segreto del tempo John lo tiene a mente ogni
giorno, tutti i giorni. Ce lo ha riflesso nel sorriso senza tempo di Rose, nei
suoi occhi vecchi e nuovi, che hanno visto troppe cose strane e uniche e le
portano incise in ogni ciglio.
Il segreto del tempo è in bella vista. Chiunque
può arrivarci. E tuttavia la qualità di un segreto è che chiunque ne venga a
conoscenza lo custodisce e non ne fa mai parola. Per nessuna ragione al mondo,
nel tempo e nello spazio.