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Autore: Hiraedd    20/01/2014    4 recensioni
Vorrei che tu aprissi gli occhi, amore mio.
E se non puoi farlo per me, per chi ti ama, fallo per la nostra famiglia, che la legge non tutela.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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PREMESSA: breve e (per intendere la storia come l’ho sentita io) abbastanza necessaria.
 
ultimamente, purtroppo, mi ritrovo piuttosto spesso a girare per ospedali. Non mi sono mai piaciuti ma devo ammettere che nell’ultimo anno e mezzo ho proprio iniziato ad odiarli.
Sarà che su di me, sul mio carattere così sognatore, hanno avuto un effetto a dir poco devastante. Vedere visi tristi quattro giorni su cinque, sentire troppo spesso quell’odore che ormai associo alla malattia, mi ha in parte fatto perdere la voglia di sognare. Da mesi ho perso la voglia di scrivere, sempre con il pensiero che avendo altre cose da fare e altre persone da consolare avrei potuto impegnare in modo più fruttuoso il mio tempo.
 
Qualche giorno fa, mentre in orario di visita entravo in un reparto di Neurochirurgia, per la prima volta da un sacco di tempo ho provato l’intensa voglia di tornare a scrivere. Dietro ad una porta aperta solo per metà ho visto un uomo. Era sdraiato su un letto dalle lenzuola inamidate, in una stanza asettica come lo sono troppo spesso quelle degli ospedali. Sembrava dormire, ed era circondato da macchine strane di cui io non mi intendo, ma quel genere di macchine che scandiscono ritmici rumori in grado –in genere- di mettere in soggezione. Non era una scena così strana, in effetti, da vedere in un ospedale.
 
Accanto a lui c’era qualcuno, gli teneva una mano con fare affettuoso. Quella posa mi ha subito dato idea di un qualche tipo di amore, di devozione. Potevano essere parenti, amici, o magari, perché no, erano davvero una coppia. Non lo so.
 
Questa cosa che troverete di seguito, mi è entrata in testa proprio lì e da lì non ha voluto andarsene. Ovviamente io quelle due persone non le conosco, quindi tutto ciò che leggerete è frutto della mia fantasia (anche se parlerei più che altro di ispirazione, poiché vedrete che nulla è fantasioso ed originale, è solo una storia come un’altra).

Per ultima cosa, c'è un motivo preciso per cui, nella voce "tipo di coppia" ho messo "nessuna". Questa storia parla di una coppia, come ho già detto, ma preferirei che fino alla fine ognuno immaginasse ciò che vuole.
 
Buona lettura,
Hir
 
 
 
 
 
 
VORREI CHE TU APRISSI GLI OCCHI
Una lettera, o forse un grido, d’amore
 
 
 
 
 
 
Vorrei che tu aprissi gli occhi, Diego.
 
Sono qui accanto a te, su una sedia di plastica scomoda che mi fa dolere la schiena, e ti guardo dormire attaccato a quella macchina.
 
Emette suoni, quella macchina, ritmici battiti che se da una parte –infernali rumori- mi ricordano perché siamo qui in ospedale, dall’altra –musica, per le mie orecchie- mi danno la certezza che il tuo cuore batte ancora.
 
Ad ogni nuovo battito corrisponde una stilettata di dolore misto a felicità. Posso solo pregare di sentirne ancora, posso solo sperare che questi battiti continuino a scandire il tempo, questa notte e domani, fino a quando non riaprirai i tuoi meravigliosi occhi.
 
Mi guarderai con quello sguardo sornione che ti fa tanto assomigliare ad un gatto. Ti bacerò.
 
Te lo giuro, ti bacerò.
 
Andremo a casa da nostro figlio, quando usciremo di qui, e mentre mi occuperò di mettere qualcosa in tavola vi sentirò parlare e guardare la televisione seduti sul divano. Sembrerà una giornata come tante altre, una di quelle in cui mi sveglio con te vicino e la felicità nel cuore.
 
Non ci sarà nessuna nube ad eclissare il sole splendente che la vita per me diventa quando siamo riparati dalle pareti di casa nostra. Tra quei muri possiamo essere noi senza paura che qualcuno ci giudichi, e ci offenda.
 
In questo ospedale non è così… il che è buffo se pensi che è un ospedale, e che dovrebbe curare i mali del mondo anziché infliggerne di gratuiti. Se sono qui accanto a te, se posso guardarti nella tua agonia pregando per la tua vita, se posso accarezzarti i capelli, lo devo soltanto al fatto che mia sorella lavora in questo reparto, e mi ha concesso un piccolo favore: quello di stare al fianco della persona che amo mentre lotta tra la vita e la morte.
 
Penso che tante altre persone non sono state fortunate come noi. C’è chi non può tenere la mano del proprio compagno, al suo capezzale: a tante persone come me viene vietato il diritto di piangere i propri feriti.
 
Quando ti ho incontrato, Diego, avevamo undici anni. Te lo ricordi, il nostro primo giorno alle scuola medie? Diventasti il mio compagno di banco per caso, ma non credo che il caso esista veramente quando si parla di compagni di banco. 
 
Io andavo bene in italiano mentre tu eri un asso in matematica. Lo sei ancora, dopotutto. Me lo ricordi ogni volta che andiamo a fare la spesa insieme, e passata la cassa ti fermi per controllare con calma ogni cifra sullo scontrino.
 
Comunque, dicevo, sei rimasto mio amico per i tre anni delle scuole medie. Tre anni d’inferno, se me lo permetti, ma non per colpa tua.
 
È proprio quello il momento in cui gli adolescenti cominciano a trasformarsi negli adulti che saranno domani. E quello è anche il momento in cui sono più vulnerabili: una giornata storta può storcere tutta una vita, a quell’età.
 
E così è stato, in effetti, per molti dei nostri conoscenti di allora.
 
Ti ricordi quanto mi pesava, allora? Li odiavo tutti, i nostri compagni di classe, esclusa qualche eccezione piuttosto rara.
 
Alla fine delle scuole medie sparire mi è sembrata la cosa più intelligente da fare: ne uscivo a pezzi, da quegli anni, e nemmeno l’idea della tua amicizia bastò a farmi tornare sui miei passi. Passai un periodo di depressione durissimo, senza un briciolo d’autostima –me l’avevano strappata tutta, i nostri amici, prendendomi in giro a causa del mio aspetto non proprio eccellente-, chiedendomi perché la vita mi avesse riservato un destino del genere.
 
A quell’età tutto sembra una tragedia.
 
Scelsi il liceo artistico non tanto perché mi piaceva l’arte, ma perché sapevo che nessuno della nostra scuola –se non dell’intero quartiere- avrebbe pensato di iscriversi lì. Avevo ragione, riuscii a tagliare i ponti definitivamente con tutto e tutti.
 
Quante cose sono accadute nel buco di tempo che ho vissuto senza di te?
 
Quattro anni di liceo, la maturità, l’anno integrativo e l’inizio dell’università. Tentai il test di medicina e lo passai, ma già alla fine del primo anno desideravo solo mollare tutto e viaggiare per vedere il mondo.
 
Lo feci. Sotto lo sguardo attonito dei miei genitori lasciai la nostra piccola città con uno zaino in spalla e partii.
 
Partire è difficile, disse qualcuno, perché sai cosa ti lasci alle spalle ma non sai cosa ti troverai davanti.
 
Mi trovai davanti il mondo.
 
Ed era molto diverso da come lo avevo immaginato io: c’era chi aveva problemi più grandi dei bulletti delle scuole medie, dell’aspetto fisico non proprio perfetto.
 
Amore mio, il mondo però non è solo fatto di problemi.
 
Ho scoperto l’arte come non l’avevo mai capita guardandola disegnata in grafiti sui muri di una stazione ferroviaria rumena, e ho sentito la musica migliore del mondo suonata dalla fisarmonica di un vecchio barbone in una via di Parigi.
 
Colori, odori, cibi e sguardi stranieri. È quando inizi a guardare le cose da punti di vista diversi che inizi a crescere, forse.
 
Tornai a casa, ed ero una persona diversa da quella che ne era partita undici mesi e diciassette giorni prima. Tutto sembrava più piccolo, tutto sembrava più prezioso.
 
Ero consapevole di essere solo uno dei sette miliardi di esseri umani sulla faccia della terra.
 
Forse a primo impatto è un pensiero terrificante, questo, ma a lungo andare ti tranquillizza sapere che con così tante persone forse il peso del mondo non grava solo sulle tue spalle.
 
Mi riscrissi all’università, ma questa volta decisi di studiare Antropologia. Non avevo mai stimato troppo le persone, anzi, ma viaggiando avevo capito di poter amare l’umanità nelle sue varie forme.
 
Mi laureai con il massimo dei voti, iniziai a lavorare sul campo e lasciai l’Italia per diversi anni, fino a quando la morte di mia madre non mi costrinse a tornare in patria.
 
Pochi giorni dopo il suo funerale, al cimitero, ti incrociai davanti ad una fila di lapidi tutte simili. Ti riconobbi subito.
 
Avevi lo sguardo sereno di chi ha accettato una perdita serbando nella mente ricordi malgrado tutto felici, a differenza mia. Sei sempre stato più saggio di me, amore.
 
Anche tu mi riconoscesti e i tuoi occhi scuri si spalancarono di stupore incrociando i miei. Me lo ricordo perfettamente, così come ricordo il mazzo di Dalie che portavi sulla tomba di quella che scoprii essere stata tua moglie, la madre di tuo figlio Fabio.
 
<< Melissa è morta di cancro un anno fa >>.
 
Fabio aveva solo tre anni, allora, e si sa che è difficile gestire in completa solitudine un figlio così piccolo. Non avevi nessuno ad aiutarti e i genitori di Melissa, dicesti, non volevano saperne di quel nipote.
 
Davanti ad un caffè ti raccontai la mia vita, e tu mi raccontasti la tua.
 
Parlasti di Melissa con il cuore in mano, me lo ricordo bene, ma fu il modo in cui mi raccontasti di Fabio a rapirmi totalmente.
 
Dal tuo sguardo, dalle tue parole, riuscii a capire per la prima volta in vita mia perché il genere umano portava avanti da millenni quell’assurda idea della sopravvivenza della specie. Oltre che per l’istinto, intendo.
 
Non avevo mai provato attrazione verso l’idea di formarmi una famiglia e facendo il lavoro che facevo pensavo stupidamente che una famiglia mi avrebbe messo i bastoni tra le ruote.
 
<< Te lo farò conoscere, vedrai. Non scapperai all’estero adesso, vero? È stato così bello rincontrarti! Devi assolutamente conoscere Fabio. Vedrai, gli piacerai un sacco >>.
 
Incontrare Fabio e volergli bene furono una cosa sola. Ti assomigliava nei tratti del volto e nel colore rossiccio dei capelli, ma quei brillanti occhi verdi dovevano essere stati anche quelli di Melissa.
 
Imparai a conoscere anche lei tramite voi.
 
Fu Fabio a farmi entrare, senza che nemmeno ce ne accorgessimo, nella vostra routine quotidiana, nella vostra famiglia. Seppi di averlo conquistato quando, alla prima cena a casa vostra a cui mi invitasti, gli regalai quel bell’orso bianco di peluche, quello con cui ha continuato a dormire fino ad un paio d’anni fa.
 
Non saprò mai dirti, invece, quando seppi con certezza che tu avevi conquistato me. Immagino fu quando accettai la cattedra di Antropologia Culturale all’università, io che da anni ormai non concepivo l’idea di fermarmi nello stesso posto per più di sei mesi.
 
Diego, ti ricordi quanto ci spaventava provare ciò che provavamo?
 
Per me era tutto così nuovo! In un certo senso, lo era anche per te, a pensarci bene.
 
All’improvviso tutto quello che avevo sempre creduto di sapere svanì in una nuvola di fumo: restai solo io, la testa tra le nuvole e le budella attorcigliate ogni volta che mi ritrovavo a guardarti e a pensare, semplicemente, di non aver mai conosciuto una persona come te.
 
Avevo paura, ovvio. Paura che capendo i miei sentimenti per te tu mi avresti allontanato; paura del tuo giudizio, del giudizio degli altri. Paura di perderti, in fondo, e di perdere quel bambino meraviglioso che avevo saputo riconoscere in tuo figlio. Vedere le tue tracce in lui, nel broncio che metteva quando faceva i capricci e nel suono della sua risata argentina, mi avvicinò di più alla vostra idea di famiglia.
 
Ormai ero talmente dipendente da voi che la sola idea di perdervi bastava a non farmi dormire la notte.
 
Realizzare questo bastò a farmi rimettere in discussione tutto ciò che avevo avuto nella vita, tutto ciò che avevo sempre creduto di essere. Insieme a voi imparai a non avere paura di me.
 
Iniziai a pensare ai miei sentimenti per te come qualcosa di possibile quando ti chiesi, per la prima volta armandomi di coraggio, se avessi mai pensato di ricominciare, dopo Melissa. Ricordo benissimo i tuoi occhi puntati nei miei, quello sguardo serio con cui mi scrutasti il viso.
 
<< Mi piacerebbe avere al mio fianco una persona speciale. Non mi ci vedo ad invecchiare da solo >>.
 
Avevamo trentasette anni, Fabio ne aveva cinque.
 
Ricordo benissimo la prima volta che mi chiedesti di andare a prendere Fabio all’asilo a causa di un tuo contrattempo al lavoro. L’idea mi agitava e mi emozionava, e arrivai all’asilo impugnando la tua delega come un’arma: non avrei permesso a nessuno di mettere in discussione il privilegio che mi avevi concesso per quel giorno. Prendendo per mano Fabio sotto lo sguardo gentile della maestra mi sentii la persona più felice dell’universo.
 
Ricordo anche come, quella stessa sera, scoppiammo a ridere quando a cena Fabio annunciò con una vocetta sicura che non sarebbe più uscito dall’asilo se non ci fossi stato io a prenderlo. Sgranasti gli occhi divertito, chiedendomi cosa avessimo fatto dopo l’asilo di tanto bello da giustificare un’affermazione del genere.
 
Quando ti rivelai che lo avevo semplicemente portato a mangiare un gelato mi rimbrottasti gentilmente dicendo che non dovevo iniziare a dargli vizi inutili.
 
Un paio di giorni dopo, finita la lezione all’università, ti trovai ad aspettarmi in strada. Andammo insieme a prendere Fabio, e poi mangiammo un gelato buonissimo.
 
Piano piano, con il passare del tempo, l’apertura fu reciproca.
 
Fabio conobbe mio padre, che era rimasto solo dalla morte della mamma. Iniziò a chiamarlo nonno << perché nei cartoni >> ci disse << tutti i vecchietti che hanno la barba bianca si chiamano nonno >>.
 
<< Siamo sicuri che a tuo padre non dispiaccia sentirsi chiamare nonno, vero? >> mi chiedesti una sera, mentre lavavi i piatti alla fine di una delle nostre tante cene in compagnia. Fabio avrebbe dormito per una notte a casa di un amichetto dell’asilo.
 
<< Perché dovrebbe dispiacergli? Tanto più che sa per certo che non avrà mai dei nipoti… per lo meno non da parte mia, ormai. Forse mia sorella… >>.
 
Ti uscì fuori quella che, a posteriori, mi accorsi doveva sembrare una risata. Sembrava più che altro uno sbuffo.
 
<< Suvvia, non hai nemmeno quarant’anni >>.
 
Lo mormorasti, piano. Fu proprio quel tono, credo, ad indurmi ad alzare gli occhi su di te, che adesso fissavi l’acqua scendere nel lavello tra quelle poche stoviglie ancora rimaste.
 
<< Non è una questione d’età, Diego >> sussurrai in risposta.
 
Tu alzasti lentamente gli occhi su di me, con la stessa cautela che avresti usato con un animale selvatico. Mi guardasti e ti inumidisti le labbra, una, due, tre volte. Sembravi indeciso, in bilico sul ciglio di qualcosa di molto più grande di noi.
 
Ed è strano, se ci pensi: a trentasette anni uno si aspetta di aver paura di tante cose, ma non dell’amore. Non si dovrebbe aver paura mai, dell’amore.
 
Non riuscivo a muovermi, mentre ti vedevo arrivarmi più vicino. C’era un passo, tra noi, eppure ti sentivo ovunque, nell’aria rarefatta della tua cucina.
 
Le tue labbra erano morbide, morbidissime. Avevo una paura terribile e ricordo nitidamente che tremavo, mentre l’acqua nel lavello continuava a scorrere come sottofondo atipico di una storia già di per se abbastanza singolare.
 
<< Sei… assolutamente sicuro? >> ti chiesi ritraendomi appena << Da una cosa del genere non si torna indietro >>.
 
Mi rispondesti con la voce bassa e roca, eppure sorprendentemente sicura.
 
<< Ci ho pensato. Molto. Voglio al mio fianco una persona speciale. Mi ci vedo ad invecchiare con te. Non mi importa nient’altro >>.
 
Il bacio che seguì mi inchiodò lì, alla credenza. Sentirti respirare, la fronte appoggiata alla mia, gli occhi socchiusi: tutto questo, invece, mi inchiodò a te. A voi.
 
La vita continuò come prima, eppure tutto era un po’ più importante. Le pareti di casa tua divennero i confini del mio paradiso, e sempre più spesso quando la sera mi fermavo a cenare con voi pensavo che avevi avuto ragione, che anche io mi ci vedevo ad invecchiare con te.
 
Quando ti chiedevo cosa secondo te Melissa avrebbe visto in noi, nella mia presenza, tu mi dicevi << un nuovo modo per essere completi. Non peggiore, solo diverso >>.
 
C’era chi non l’avrebbe mai pensata così, ce ne accorgemmo presto entrambi: persone che non avevano alcun diritto di esprimere la propria opinione sulla mia vita, o sulla tua, si sentirono all’improvviso in diritto di dettare legge: occhiate lunghe e inquisitorie, sguardi duri, mani scostate per non toccarci, parole sussurrate con voce mai troppo bassa.
 
Non mi importa nient’altro.
 
Te lo leggevo scritto negli occhi ogni volta che qualche genitore, quando andavamo a prendere Fabio a scuola insieme, voltava la testa dall’altra parte per non doverci salutare.
 
Sei stato coraggioso, amore mio, dal momento che avevi molto più di me da perdere. Amici che all’improvviso sparivano, colleghi che non ti rivolgevano più la parola… perfino le maestre di Fabio, che adesso andava a scuola, si sentivano in diritto di chiederti conto di ciò che facevi succedere tra le mura domestiche. Non ti ho mai visto perdere la pazienza, tra l’altro. Riuscivi a piegare i loro pregiudizi con nient’altro che ragionamenti sensati, motivo per cui in molti alla fine iniziarono ad odiarti. Qualcuno ci è rimasto amico, però.
 
Amelia e Roberto, dopo un iniziale scetticismo, si avvicinarono a noi. Fu specialmente perché Fabio era il migliore amico di loro figlio Riccardo, ma lentamente iniziammo a legare. Dopo pochi mesi ci avevano completamente accettato, al punto di lasciare libero Riccardo di venire qualche volta a dormire in quella che ormai è diventata casa nostra.
 
Una volta che la nostra storia divenne davvero seria ci informammo debitamente di ciò che ci attendeva per il resto della vita: io non avrei potuto adottare formalmente Fabio, nonostante amassi sia lui che suo padre più della mia stessa vita, e non avrei mai potuto prelevarlo da scuola senza la tua compagnia o, al limite, la tua delega. Se lui si fosse fatto male non sarei mai stato avvisato da altri che da te, non avrei potuto firmare nessuna delle circolari scolastiche che portava a casa né parlare del suo andamento a scuola con i suoi maestri. In caso di una sua malattia non avrei ovviamente potuto chiedere il congedo parentale, in caso di una mia prematura scomparsa non sarebbe stato riconosciuto come mio erede.
 
In effetti, più passa il tempo più mi rendo conto che sono davvero tante le cose che non potrò mai fare per lui: se adesso tu morissi su questo letto d’ospedale, io non potrei portare nostro figlio a casa con me.  Non avendo parenti di sangue in vita oltre a te, si troverebbe sballottato da una casa famiglia all’altra, forse, oppure in qualche istituto.
 
In questi ultimi dieci anni l’ho visto crescere insieme a te, e tuttavia molte cose non mi sono concesse. E quello che è peggio, ancora peggio che soffrirne ogni volta che mi abbraccia quando torna da scuola, è vederne soffrire te. E veder soffrire lui, ogni volta che ci chiede << perché hanno paura di lasciarci essere una famiglia >>.
 
Vederlo deluso, ogni volta che non riusciamo a dargli una risposta.
 
Vorrei che tu aprissi gli occhi, amore mio.
 
E se non puoi farlo per me, per l’uomo che ti ama, fallo almeno per la nostra famiglia, che la legge non tutela.
 
Ti amo.
Tu non sai quanto ti amo.
Francesco
 
 
 
 
 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE:
come ho detto più in alto nella premessa, ultimamente scrivere mi riesce difficile. Impiego giorni per riempire una paginetta di parole che, a rileggerle, mi sembrano vuote. Mi dispiace, mi odio pensando che c’è chi aspetta i capitoli seguenti delle mie ff, ma purtroppo non posso promettere nulla se non che quelle storie non rimarranno incomplete –dovessi metterci tutta la vita a scriverle-.
 
 
   
 
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