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Autore: lyssa    20/01/2014    3 recensioni
Sherlock solleva le labbra in un sorriso e si avvicina a lui, fermandosi a poche decine di centimetri di distanza. Fa scivolare il braccio destro intorno alla sua vita – il movimento è così fluido e naturale che Jim non può evitare di esserne sorpreso, è evidente che non sia la prima volta che fa qualcosa del genere e la cosa lo stupisce piacevolmente – e con la mano libera afferra quella di Moriarty.
«Ti confiderò un segreto. Ho sempre amato ballare. Stavo giusto cercando un partner.» Jim ride e non sa se sia più per il mezzo sorriso che solca le labbra dell’altro o per le sue parole.
[ Sheriarty ]
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: You owe me a dance
Fandom: Sherlock BBC
Personaggi: Sherlock Holmes, Jim Moriarty
Rating: Verde
Conteggio Parole: 2036 per fdp, 2317 per word.
Riassunto: Sherlock solleva le labbra in un sorriso e si avvicina a lui, fermandosi a poche decine di centimetri di distanza. Fa scivolare il braccio destro intorno alla sua vita – il movimento è così fluido e naturale che Jim non può evitare di esserne sorpreso, è evidente che non sia la prima volta che fa qualcosa del genere e la cosa lo stupisce piacevolmente – e con la mano libera afferra quella di Moriarty.
«Ti confiderò un segreto. Ho sempre amato ballare. Stavo giusto cercando un partner.» Jim ride e non sa se sia più per il mezzo sorriso che solca le labbra dell’altro o per le sue parole.
Note: Partecipa a fiumidiparole e a 500_themes_ita con il prompt “Ballando con il diavolo”
Non ho mai scritto su questo fandom prima, ma la Sheriarty è indubbiamente una delle mie OTP, quindi volevo scriverci su. Non so se vi siano fanfiction simili nel fandom italiano – nel fandom estero è pieno – btw, volevo scriverla.
Ambientata alla fine della 03x02, neanche a dirlo.





 


Socchiude le palpebre e scioglie il collo, muovendolo al ritmo delle note che, ovattate, gli giungono all’orecchio.

Una musica soffice, talmente incantevole da invitare la notte a ballare. Jim vorrebbe unirsi alle danze, ma è ancora troppo presto; si limita dunque ad aspettare, le braccia lungo i fianchi, tamburellando il nome di Sherlock in codice Morse sui propri pantaloni.

Apre di nuovo gli occhi – ci mettono poco tempo ad abituarsi alla luce fioca della luna, Jim è abituato a fissare l’oscurità – e sulle labbra si forma un sorriso pieno di aspettative.
Sherlock gli è mancato, indubbiamente.

Se ha deciso di non togliersi la vita due anni prima è stato unicamente per merito suo. La morte ha sempre rappresentato qualcosa di incredibilmente invitante per Moriarty, un’alternativa alla monotonia e alla banalità del mondo e delle persone che lo abitano; Sherlock Holmes è tuttavia qualcosa di ancor di più affascinante.

Possiede una mente brillante, fuori dal comune, un modo di pensare che risulta estraneo alla gente che lo circonda e conosce inoltre il tedio che può provocare la noia. Sherlock è imprevedibile, una variabile incalcolabile all’interno di un’equazione fin troppo semplice ed elementare: per quanto Jim possa prevedere i loro incontri c’è sempre qualcosa – una frase, un gesto o anche solo una parola – che non ha preso in considerazione. C’è un ché di incredibilmente eccitante nel confrontarsi con una persona del genere, un qualcuno che può considerare suo pari in un mondo popolato da formiche.

Sono uguali, due re ai lati opposti della scacchiera.

Un suono leggero lo riporta alla realtà, lo sguardo si sposta su quella figura che, a passo svelto, sta attraversando il prato.

Ha un’inconfondibile giacca con il bavero alzato, sotto la quale si intravede un completo scuro, e nella sua camminata c’è una drammaticità intrinseca e non indifferente, una teatralità probabilmente in grado di infastidire tutti coloro che lo circondano, ma che Moriarty trova decisamente apprezzabile.
Sono uguali, dopotutto.

Le dita afferrano veloci il cellulare precedentemente infilato nella tasca dei pantaloni e premono lo schermo, in modo da permettere alla canzone di iniziare. La musica parte e Sherlock si immobilizza, muovendo il capo un paio di volte prima di guardare nella sua direzione. Sorride Jim, i denti bianchissimi che contrastano con l’oscurità che lo circonda, fa un passo in avanti, permettendo in questo modo alla luce della luna di illuminarlo con più chiarezza, e alza le braccia al cielo.

«Stayin’ Alive!» Esclama a pieni polmoni, rimettendo poi il brano in pausa. «Ti sono mancato, tesoro?» Chiede, con tono mellifluo.

Sherlock lo guarda con espressione stupita: ha le sopracciglia inarcate, le labbra discoste e lo fissa, facendo scorrere lo sguardo dal capo ai piedi per più volte, come per accettarsi che quello davanti ai suoi occhi sia davvero lui. «Tu…» Mormora, indicandolo con la mano destra. «Come…?»

Quelle due parole sono sufficienti per cancellare il sorriso dalle labbra di Moriarty: quella del consulente investigativo è una reazione troppo banale, troppo comune, troppo prevedibile. Può leggere i suoi pensieri (“Come ha fatto a sopravvivere? Si è sparato davanti ai miei occhi!”) , può dedurre che l’altro stia riportando alla memoria la scena di quel giorno, cercando un dettaglio in grado di rivelargli quel mistero apparentemente impossibile e la cosa gli fa salire sulle labbra un sapore amaro che assomiglia tanto alla delusione.

«No, no, no!» Il tono di voce si alza improvvisamente sull’ultimo “no” e Jim sbatte i piedi per terra, per poi riprendere il controllo come se nulla fosse. Inclina appena il collo prima di continuare il discorso. «Dio, sei così noioso, così ordinario, così… banale.» La voce si spegne in un sussurro. Si avvicina a lui, gli occhi neri, scuri, profondi come la notte che li avvolge si riflettono debolmente in quelli chiarissimi di Sherlock.

«Non è la domanda giusta! Sai benissimo che non parleremo di dettagli stupidi come questi. Sei uguale a tutti gli altri. Hai passato troppo tempo con loro…» mormora, roteando gli occhi e torcendo le labbra in una smorfia di disgusto fin troppo esagerata e teatrale.

«Non sono come loro. » Questa volta è Sherlock a non tentennare. La voce è ferma, decisa, quasi tagliente. Nulla nel suo viso tradisce più lo stupore che, invece, fino ad un attimo prima ha modellato il suo volto.

«No, è vero. Non sei come loro. » Una pausa, Jim si ferma per qualche secondo e continua ad osservare il proprio riflesso nelle iridi di Sherlock. L’empatia è qualcosa che non gli appartiene, qualcosa di cui conosce unicamente il significato teorico, qualcosa che non ha mai provato per nessuno in tutta la sua vita, eppure riesce a capire cosa provi l’altro. Sentirsi esclusi, diversi, fuori posto in una situazione tanto semplice e familiare. Ha provato la stessa cosa anche lui, i ricordi sono lontani e sembrano appartenere ad un’epoca passata, ma la sensazione provata è ancora vivida, reclusa in un piccolo angolo della sua mente. Vi è però una differenza sostanziale tra lui e Sherlock: Jim ha deciso di non curarsi di chi lo circonda fin dalla più tenera età – perché dopotutto preoccuparsi di quegli stupidi moscerini che continuano a girargli intorno? – ma l’altro sembra essere in qualche modo attaccato ad alcuni di essi.

C’è un qualcosa di adorabile nel modo in cui Sherlock si comporta con i suoi “amici”, un adorabile in grado di far comparire sul volto di Moriarty l’ennesima smorfia, un adorabile che sa di quotidianità e di noia.

«John si è sposato, adesso inizierà una vita diversa, senza di te. Non hai bisogno che te lo dica, comunque. Lo sai già.»

«Perché sei qui?»

«Oh, finalmente. Questa sì che è una domanda con un senso!» Trilla, incapace di trattenere un sorriso. «Sono qui per un motivo molto semplice, Sherlock.» Cantilena e si passa la lingua sulle labbra, inclinando il capo. «Mi devi un ballo.»

Cala il silenzio, un silenzio assoluto, frammentato solamente dalla musica che arriva dalla sala dove si sta svolgendo il ricevimento e le parole di Jim non ricevono risposta alcuna. Vi è tuttavia la mancanza di quell’imbarazzo che facilmente viene a formarsi quando due persone sono a corto di parole: tra Jim e Sherlock c’è un legame, una sorta di connessione che rende l’atto del parlare inutile.

Sherlock solleva le labbra in un sorriso e si avvicina a lui, fermandosi a poche decine di centimetri di distanza. Fa scivolare il braccio destro intorno alla sua vita – il movimento è così fluido e naturale che Jim non può evitare di esserne sorpreso, è evidente che non sia la prima volta che fa qualcosa del genere e la cosa lo stupisce piacevolmente – e con la mano libera afferra quella di Moriarty.

«Ti confiderò un segreto. Ho sempre amato ballare. Stavo giusto cercando un partner.» Jim ride e non sa se sia più per il mezzo sorriso che solca le labbra dell’altro o per le sue parole. Sherlock inizia a muoversi, i suoi passi sono morbidi e seguono l’eco della musica in lontananza e Jim li segue, assecondandolo e facendosi guidare da lui.

«In realtà non era mia intenzione fare la donna.» Un’altra risata, si sporge verso di lui. «Non importa comunque, per questa volta non mi lamento, va bene anche così.» Conclude, umettandosi nuovamente le labbra.

Ballano in silenzio per un ammontare di tempo che Jim non riesce a calcolare: nonostante la sua mente gli dica che non possono essere passati più di un paio di minuti, il tempo è dilatato, come se si trovassero in una sorta di bolla, uno strano angolo dell’universo in cui il ticchettare delle lancette non ha alcun significato. Esistono solo loro e i loro corpi che continuano a muoversi lentamente, con una fluidità e un’eleganza che sembrano appartenere a un altro mondo; tutto il resto è insignificante.

Jim sposta lo sguardo da Sherlock per un istante, posandolo sull’edificio da cui proviene la musica. «Non credo che riuscirò mai a comprendere l’utilità di un matrimonio. Perché passare l’eternità con la stessa persona? È così noioso e ripetitivo...» Mormora. Non vi è nulla di interessante tuttavia nella costruzione, per cui ben presto Sherlock ritorna ad essere oggetto di tutte le sue attenzioni. «Però… » Le labbra si aprono in un sorriso malizioso che lascia intravedere i denti. Si sporge dunque verso di lui e i loro nasi si ritrovano a pochi centimetri di distanza. Gli basterebbe poco – un piccolo movimento veloce – per rubargli un bacio, un morso o qualunque altra cosa. «Se la persona in questione fossi tu, tesoro, potrei provare a cambiare idea.»

«Mi stai forse chiedendo di sposarti?»

«Dio, no. Solo il pensiero di organizzare il matrimonio mi fa venire voglia di spararmi.» Jim si allontana appena da lui, una risata sulle labbra e Sherlock sorride.

«Andiamo, puoi fare di meglio. Spararti fa tanto due anni fa.»

«Certo, che posso fare di meglio. Ma devi ammettere che un matrimonio con tanto di omicidio annesso sarebbe sicuramente fuori dagli schemi. » Sorride nuovamente.  «Non hai ancora risposto alla mia prima domanda, comunque. Ti sono mancato?»

Sherlock rimane in silenzio: ha le labbra leggermente arricciate e sul suo volto prende forma un espressione pensierosa. È tutta una messa in scena; Jim conosce la risposta ma lo lascia fare ugualmente, senza mettergli fretta.

«Ho passato due anni a distruggere la tua rete criminale in giro per il mondo. » Si ferma.  «Comunque, direi di sì.» Gli angoli della bocca si sollevano appena, in un mezzo sorriso che Jim ha visto in altre occasioni. L’ha visto durante il loro piccolo gioco, l’ha visto durante il processo, l’ha visto ogni qual volta che si sono cercati, scontrati ed inseguiti; Sherlock ha sentito la sua mancanza in un modo che le persone comuni non potranno mai capire.

«Come può essere altrimenti. Tu sei me ed io sono te, mio caro.» La voce di Jim è suadente, musicale e possiede quasi il ritmo di una filastrocca o di una poesia.

«È per questo che hai deciso di fingere il tuo suicidio. Sapevi che io avrei fatto altrettanto.»

«Ovviamente.»

«Non era una domanda.»

Continuano a muoversi, danzando su un ritmo che solamente loro possono sentire, tutto ciò che li circonda ha oramai perso ogni significato – ha mai il mondo avuto importanza, dopotutto?

Il braccio di Sherlock si trova ancora intorno alla vita di Jim quando questo lascia la sua mano per allacciargli le braccia al collo. Se prima i gesti di Moriarty erano unilaterali e non avevano ricevuto risposta alcuna, questa volta il consulente investigativo decide di tirarlo maggiormente a se: entrambe le braccia si stringono intorno ai fianchi stretti di Jim, fasciati in una giacca rigorosamente Westwood.

Sono talmente vicini che Jim può sentire il respiro caldo di Sherlock sulla propria pelle.

Gli basta un solo sussurro da parte dell’altro per sentirsi veramente vivo: un brivido gli corre lungo la schiena, il principio di una risata gli nasce in gola, sente il sangue scorrergli nelle vene e il battito del proprio cuore non è più unicamente il simbolo della sua natura umana, diventa invece la prova inconfutabile di qualcosa di molto più grande e profondo.

Allo stesso modo, la loro vicinanza non è unicamente fisica, a Jim basta un’unica occhiata per rendersi conto che anche l’altro prova la stessa cosa. Sherlock si avvicina appena – un impercettibile movimento del capo che accorcia ulteriormente le distanze – e le loro labbra si incontrano.

È un bacio naturale e senza inizio, è incredibilmente difficile stabilire chi dei due abbia per primo toccato l’altro. La loro relazione è sempre stata così dopotutto: un incontrarsi senza inizio e probabilmente senza fine – è stato Sherlock a dare la caccia a Moriarty o quest’ultimo ad attirare la sua attenzione?

Jim ha le labbra dischiuse quando incontra le gemelle, decisamente più impacciate: non c’è bisogno di una mente brillante come la loro per capire che quello è per Sherlock un contatto conosciuto sì, ma decisamente non familiare. Sorride nel bacio e trattiene un’altra risata a cui però decide di non lasciarsi andare, limitandosi a cercare con più foga la lingua dell’altro, mordendo e succhiando ogni qual volta che ne trova la possibilità. Sono poche le persone che possono dire di avere baciato Sherlock – forse qualcuno durante l’adolescenza o un qualche individuo (uomo o donna, è indifferente) manipolato per risolvere un caso, ipotizza Jim – e la cosa lo rende in qualche modo euforico.

Socchiude dunque le palpebre – un occhio si apre per qualche secondo unicamente quando le mani di Sherlock finiscono sul suo volto – e immerge le dita tra i suoi riccioli scuri, che tira con forza. Si stacca unicamente quando i suoi polmoni richiedono aria – non gli dispiacerebbe tuttavia soffocare nelle labbra di Sherlock, sarebbe una morte tutt'altro che noiosa e banale – e gli lascia un ultimo morso, prima di sorridere e passarsi la lingua sulle labbra umide.

Si allontana come se nulla fosse e solo in quel momento si rende conto che la musica è finita.

Nessuno dei due proferisce parola: Jim infila una mano in tasca e, senza tirare fuori il cellulare, digita a memoria il numero di Sebastian.

«Tesoro, è stato un piacere, ma temo di dover andare via.»

I loro incontri sono sempre stati fugaci, occasionali e intensi, è giusto che rimangano tali. La quotidianità è un qualcosa che non appartiene a nessuno dei due, ridurre il loro rapporto a qualcosa di semplice e ordinario sarebbe qualcosa di blasfemo. Non vuole che il loro rapporto diventi ordinario: nemici, amici, fidanzati, qualunque parola è inadeguata per descrivere ciò che realmente esiste tra di loro.

«Hai distrutto il mio impero, non posso rimanere con le mani tra i tuoi bellissimi capelli, per quanto lo desideri.» Schiocca la lingua sul palato e sorride, gli angoli della bocca si sollevano verso l’alto «Non preoccuparti comunque, sentirai ancora parlare di me.»

Senza aspettare il tempo di una risposta Jim si allontana, congedandosi con un semplice cenno della mano. Sparisce nell’oscurità sorridendo e, quando sale sull'auto scura, ha ancora il sapore delle labbra di Sherlock.

 
   
 
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