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Autore: Marguerite Tyreen    21/01/2014    4 recensioni
Bologna, 1971. Sono gli anni del rock, questi, in cui per i ragazzi la musica è uno dei tanti nomi che vengono dati ai sogni e alla libertà. E sono anche gli anni in cui Vittorio conduce l’esistenza di un qualsiasi ventenne di provincia, se non fosse per il suo lavoro ad una radio locale, che gli permette di sentirsi parte di quel mondo londinese così vivo ma così lontano.
Finché, grazie ad un’intervista, non conosce Steve Lawell - affascinante, spirituale e riservato chitarrista della band inglese Midnight Inn.
La passione nasce subito, ma avranno soltanto una notte a disposizione e Vittorio dovrà scegliere se farsela bastare oppure andare fiducioso verso l’ignoto…
***
“Resta con me, stanotte. Chissà che pessima opinione ti starai facendo, ma ti giuro che è la prima volta che lo chiedo a qualcuno che conosco da così poco.”
“Nessuna cattiva opinione, perché stavo per domandarti la stessa cosa.”
Genere: Commedia, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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A “Vittorio”,
per aver contribuito a rendere perfetta
un’estate già di per sé indimenticabile.

A E, il mio amore.
So close, no matter how far.
 



 
Senza dirsi addio


 


Bologna, 7 maggio 1971. Sede di Radio Garisenda.
 
 
- E questo era Hush, un vecchio successo dei Deep Purple degli anni di Rod Evans. Ora vi lasciamo invece con una ballata, prima della rubrica di rassegna concertistica. A voi Lucky Man degli Emerson, Lake e Palmer.
- Se ci arrivano svegli, alla rassegna! – Claudio aveva riso, di quella sua risata profonda che era riuscita a stemperare lo scherno delle parole e a salvarlo dal diventare il bersaglio del lancio della copertina dell’album di esordio del trio inglese – Tanto non lo faresti, perché sono il tuo capo: non te lo puoi permettere.
- Bel capo, che sei! – Vittorio scrollò la testa, emettendo lo sbuffo bonario di quando aveva voglia di pungolare la vena dialettica dell’amico – Guarda, non te la tiro solo perché poi si ammacca, ma te lo meriteresti. Uno che ha apprezzato Salisbury dovrebbe, come minimo, abdicare e lasciare il comando a qualcuno che di musica ci capisce.
- E quindi a te, genio?
- Ovvio. È chiaro che tra i due il genio sono io. Chi ti passava i risultati di trigonometria senza che quell’allocco del professor Bonomi se ne accorgesse?
- Peccato che due volte su tre fossero sbagliati. Eppoi stai divagando, adesso.
Che stesse divagando era piuttosto lampante anche per lo stesso Vittorio, ma trovarsi a togliere un po’ di polvere dai vecchi ricordi dei tempi della scuola risultava sempre gradevole.
In fin dei conti, le cose erano andate meglio di come avevano prospettato da ragazzi, quanto meno dal lato umano. Con la sua vecchia, emiliana rassegnazione, Vittorio aveva accettato quasi da subito l’idea che con la chitarra, da autodidatta banale qual era e senza un solido gruppo alle spalle, non avrebbe mai fatto molta strada. E suo padre gliel’aveva detto francamente che, dopo il liceo, la famiglia non avrebbe avuto modo di sacrificarsi in misura ulteriore, tanto che ritrovarsi dietro il bancone di una merceria del centro non gli sembrava più una soluzione così lontana. Soluzione che, per altro, aveva adottato, almeno finché Claudio non era andato a cercarlo con la notizia che sì, alla fine c’era riuscito, ad ottenere i permessi per aprire quella stazione radio di cui farneticava da almeno tre anni buoni. E dire che l’avevano entrambi creduta una delle velleità passeggere dei sedici anni, saltata fuori per caso, in un pomeriggio estivo in cui si erano ritrovati a girare annoiati le manopole, nel tentativo di schivare le melensaggini miagolate da Orietta Berti e da Morandi, che tanto piacevano a quella generazione “sbagliata” - o forse soltanto colpevole di essere precedente - dalla quale dovevano distaccarsi ad ogni costo. E dalla quale Claudio si era davvero affrancato, nell’esatto momento in cui aveva detto: perché non apriamo noi una radio che insegni cosa sia la vera musica?
Come poi avesse trovato il coraggio di abbandonare la strada dorata di dieci anni di università e di un futuro da rispettabile medico di città, questo doveva saperlo solo lui. Più o meno come per quanto riguardava i finanziamenti, anche se Vittorio sospettava che il signor Felisatti fosse stato piuttosto moderno e generoso col figlio, tollerando la delusione di non poter fare di lui un brillante pneumologo al pari suo. Ma quello che, in compenso, Vittorio sapeva bene era che voleva fare della musica la propria vita e che voleva tenersi stretto il caro Claudio - il migliore amico che avesse mai avuto - prima che gli eventi finissero, inevitabilmente, per allontanarli.
E poco importava che, per quanto l’emittente avesse cominciato a funzionare a pieno ritmo, ad avere successo tra i ragazzi e a battere cassa con gli sponsor e la pubblicità, la paga fosse sempre bassa al punto da doverla integrare prestandosi come bagnino sulle spiagge di Comacchio nei mesi estivi. Ma, a dirla tutta, la soddisfazione di essere ormai un punto di riferimento tra gli adolescenti di Bologna era sufficiente e con quel lavoro supplementare ci guadagnava muscoli, abbronzatura e qualche lira in più per i concerti. Non era affatto male.
- Io non sto divagando, comunque, Cla. Chi divaga, piuttosto, sei tu, perché non sai più che pesci pigliare.
- Ma si può sapere che hai contro quel povero Salisbury?
- Niente, niente: contro chi l’ha creato, vorrai dire. Dai, non puoi negare che gli Uriah Heep siano i “vorrei ma non posso” del Prog.
- Razza di snob che sei, Vittorio Straforini! Quando ti staccherai dalle gonne di Emerson, mi darai ragione.
- Sì, come no! – cercò di mantenere un’espressione compassata, ma finì per farsi sfuggire uno sbuffo di risa, mentre lasciava che nell’etere si diffondesse la voce un po’ nasale di Delfina, che recensiva l’ultima performance dei New Trolls – E, la prossima volta che ti fidanzi, vedi di trovarne una un po’ più “radiogenica”.
- Certo, perché la prima cosa che io noto nelle donne è la voce, vero, Straf? Di grazia che la Delfina si presta per le registrazioni e che anche lei è per il genere, sennò toccherebbe fare tutto a noialtri. Comunque, nonostante tu sia simpatico come dell’acquaragia su una tela di Van Gogh, lo sai che il vecchio Claudio ti ama molto, vero?
- Come si potrebbe non amarmi?
- Rettifico: sei simpatico come un gatto rosso attaccato ai maroni, Straf. Ma siccome io sono, appunto, un capo magnanimo, ho da farti una proposta.
- Sconcia?
- Cretino!
- Avanti, spara.
- Indovina chi viene in Italia dopodomani?
- E che vuoi che ne sappia? Liz Taylor?
- Macché Liz Taylor! Che ce ne frega a noi delle attricette? Dai, un po’ di fantasia! Dopotutto è gente che piace a te. – gli piazzò sotto il naso la pagina strappata da una rivista – Toh, altrimenti facciamo notte.
- I Midnight Inn? Cazzo, però, Roma e Milano! Chi ci va a sentirli, questi…
- Tu ci vai. E mi recensisci il concerto. Ma devi fare una roba in grande, ché ai ragazzi piacciono ‘ste cose e ché questi qui promettono bene. Inventati qualcosa, ipotecati tre anni di Purgatorio, diventa suo schiavo e accordagli il basso per i prossimi mille anni, quello che ti pare, ma torna con un’intervista a Edward Bristol.
- Se incontro Edward Bristol, non penso di tornare indietro vivo: non reggerei il colpo.
- Sarà meglio che tu lo regga, invece. Non vorrei aver gettato il mio denaro inutilmente per il biglietto. – fece scivolare sul tavolo il foglietto, tamburellandoci sopra le dita con noncuranza, ma con un mezzo sorriso complice – Questo te lo finanzia la ditta, tu vedi di sovvenzionarti il viaggio e la permanenza. Oh, Straf, siamo pur sempre un’emittente locale.
- Ti sembra che abbia fiatato? Se potessi, ti bacerei!
- Beh, magari quello lo evitiamo, eh?
- Allora grazie, Cla.
- Poche smancerie: guarda che lo faccio nel mio interesse.
- Non sei mai stato bravo a fingere. A proposito, – gli chiese, mentre riponeva nel portafogli il biglietto, dopo avergli dato un’ultima occhiata affettuosa – per quale data è?
- Per l’ultima, l’11 a Roma: costava meno.
- Devo cercare gli orari dei treni. Soccia, Cla! Vedrò i Midnight Inn! Avrò Edward Bristol a tanto così, porco boia! E Jon Ashton e…
- E non importa che mi ripeti tutta la formazione, manco stesse giocando il Bologna. Frena il cavallo, cowboy, l’ho capito che sei contento. Ma adesso levati dalle balle e vai a casa, ché tra un po’ arriva anche la Delfina.
- Va ben, va ben. Ma se vengo a sapere che hai passato gli Uriah Heep, ti strozzo, tanto il biglietto è già in mano mia.
- Comunque, io manco avrei detto che suonassero ancora, ‘sti Midnight Inn. Sai, senza Phillips alla chitarra e con tutte le altre band progressive pronte a fare lo sgambetto …
- Ma che stai gufando? Hanno trovato uno nuovo: Lawell, mi pare, o qualcosa del genere. E si dice in giro che sia parecchio in gamba. E tu piantala di portar sfiga, va’!
 


Roma, 11 maggio.


Nel caldo soffocante dei finestrini chiusi e di una seconda classe sovraffollata, il paesaggio che gli scorreva davanti agli occhi cominciava a sembrargli una via di fuga monotona e sempre uguale.
Un’anziana signora infagottata in un golfino verde petrolio sedeva di fronte a lui, forse rassicurata da quel suo aspetto da bravo ragazzo – con la camicia celeste ben lavata e un’edizione economica di Crepuscolario tra le mani – nonostante i capelli lunghi che scendevano in onde morbide e castane ai lati di un viso spigoloso ma cordiale. Chiacchierava ininterrottamente da Firenze Rifredi, dov’era salita, di un suo nipote di Viterbo che finalmente si sposava la domenica successiva, e aveva lasciato aperta sulle ginocchia la pagina di Intimità in cui si discuteva con passione della ricetta delle crespelle al radicchio. Le sue parole frivole si mescolavano alle immagini ricamate in spagnolo, senza che Vittorio riuscisse più a seguire né le une né le altre.
Per quanto, solitamente, sui mezzi pubblici avesse l’abitudine di restarsene sul chi vive, più di una volta si ritrovò con la testa che ciondolava sul petto. Tra l’afa quasi irrespirabile e la noia delle mille fermate, le voci gli arrivavano ovattate, attraverso la cortina spessa del suo torpore. Anzi, non seppe nemmeno dire come avesse trovato la lucidità sufficiente per scendere a Roma Tiburtina senza mancare la sosta, ma, almeno, quando l’aria fresca del tardo pomeriggio gli sferzò le guance, sentì la stanchezza scivolare via, scacciata dalla necessità di districarsi tra la piantina approssimativa di cui era equipaggiato e le linee degli autobus.
In realtà non era del tutto sicuro di essere veramente sveglio: un po’ perché era accaduto tutto troppo in fretta, annullando la benedizione dell’aspettativa, un po’ per lo stordimento del viaggio. Soltanto quando si ritrovò seduto quasi sotto il palco, con i tecnici che si affaccendavano con gli strumenti e gli amplificatori e si lasciavano sfuggire qualche stridula dissonanza insieme alle note, i dubbi vennero fugati del tutto. Poi, quando l’attesa - ingannata nel tentativo ben riuscito di scivolare verso la prima fila - giunse al termine, finalmente ne prese anche coscienza.
Le luci del locale si spensero, in un’esplosione di faretti rossi e verdastri che illuminarono la figura eterea di Jon Ashton, in piedi davanti al microfono. Alla sua sinistra, alto signorile e austero, Edward Bristol pizzicava le corde del basso con un distacco contegnoso verso il mondo e verso il pubblico, smarrito negli intrecci complicati della sua musica e dei suoi pensieri, che facevano del suo sguardo un moto perpetuo e fuggevole. Sembrava intento in un dialogo incessante, o forse piuttosto in una sfida bruciante e inquieta, con il resto della sezione ritmica, ossia un batterista dall’aria angelica, che non riusciva a nascondere dietro i riccioli biondi l’ostentata voglia di riscatto che emergeva dai suoi pattern, mentre Looking for the Moon, una ballata dal loro primo album, si spandeva tra i muri e gli spettatori.

But a lonely night, somehow,
We stopped dreaming too much.
Together we reached the Moon:
And She was as cold as your touch.

 
Vittorio ne ricordava bene le parole e prese a cantarle prima che entrasse, per ingentilire il brano con i suoi arabeschi, un organista dall’espressione triste e dalle mani che si muovevano nervose sulle tastiere, come se avesse voluto fare del suo Hammond l’unico protagonista e sprofondare dietro di esso.
Ancora più timido del pianista Cross, doveva essere quel Lawell del quale si vociferava avesse salvato il tour precedente nonché le sorti future dei Midnight Inn. A vederlo, non si sarebbe detto un uomo di straordinaria abilità: al contrario, così esile, minuto, con le dita troppo scarne e troppo delicate, a Vittorio era parso piuttosto insignificante o, quanto meno, destinato ad essere messo in ombra dall’innata e fiammeggiante eleganza del bassista. Per tutto il brano di apertura e per tutta la durata di The Tale of Lady Helena Westwind, Lawell aveva sbirciato di sghimbescio Bristol, come intimidito, e aveva suonato, seppur impeccabilmente, con gli occhi bassi sul manico del suo mandolino.
 
Oh please, love me, my sweet Lady
Oh Lady Westwind, don’t be so scared

There’ll be no pain beyond our kisses
There will be Heaven for those who love
 
Non aveva guardato il pubblico nemmeno quando tutti avevano preso ad agitarsi con Don’t keep the candle too close. Poi, rimasto solo sul proscenio, con la luce fattasi più calda e dorata, sembrò acquistare confidenza: concentrato, quasi fosse immerso in una sorta di profonda meditazione, aveva lasciato correre le mani sulle corde della sua chitarra acustica, costruendo un fitto tappeto di armonie e di atmosfere tra loro talmente legate che Vittorio non riusciva a individuarne il confine. Si ritrovò a guardarlo, con le labbra socchiuse, incantato, al limite della fascinazione o della scortesia, finché lui non concluse l’assolo con un ultimo arpeggio delicato, prima di inchinarsi brevemente, stringendo a sé il proprio strumento.
Fu allora che sorrise. O forse gli sorrise. Vittorio non era sicuro di poter sperare tanto: in fin dei conti, lo spazio alle sue spalle era gremito. In ogni caso, distolse l’attenzione per l’imbarazzo, non prima di aver notato che quando il volto del chitarrista si distendeva, perdendo quell’espressione accorata e ansiosa, assumeva lineamenti deliziosi, illuminati da grandi occhi chiari, che non era certo di poter definire azzurri.


Non lo erano. Se ne accorse ritrovandoselo di fronte nel backstage, nel lungo corridoio che portava ai camerini. Erano, piuttosto, di un vago grigio tendente al blu, come il cielo quando voleva farsi sereno.
Per tutti i pezzi successivi, la mente di Vittorio si era divisa tra l’esaltazione della musica, l’indugiare sulle forme e sul talento di Lawell e l’azzardo di come avrebbe potuto tentare, alla fine, di avvicinare quegli stregoni che certamente dovevano abitare una dimensione tutt’altro che umana. Aveva preso coraggio ed eluso la – scarsa – sicurezza: dopotutto, era pur sempre una sorta di giornalista, anche se di ristretta fama locale.
- La posso aiutare? – era stato il chitarrista a rivolgergli la parola, con una voce appena più bassa di come gli era sembrata dai cori, ma con una gentile intonazione di cortesia britannica. Era un po’ accaldato e si tamponava le gote con la manica dell’impalpabile camicia a fiori, tenuta stretta ai polsi da una goffratura. Nonostante la figura esile e la bassa statura, aveva in sé qualcosa di elegante.
- Sì. Cioè, no, temo. – affastellò confusamente un po’ di inglese. Non avrebbe dovuto nemmeno risultargli così difficile, dato che lo teneva costantemente in esercizio con i turisti: - Veramente, io…
Che idiota! Si insultò mentalmente. Che idiota a bloccarsi davanti ad un ragazzo di poco più dei suoi anni, per quanto grazioso e geniale si fosse dimostrato.
- Lei?
- Mi chiamo Vittorio Straforini.
E chi se ne frega. Si aspettò.
Invece, in risposta, ottenne un quieto: – Steve Lawell. – e una stretta di mano che partì esitante per poi diventare appena più decisa – Ma mi perdoni, Mr. Sta… Staf… ho già dimenticato il suo nome! Il mio italiano è veramente terribile. Dicevo: mi perdoni, ma non ho ancora capito in cosa posso esserle utile.
- Lavoro per una radio: una piccola emittente, sa, niente di straordinario; non c’è speranza che lei l’abbia mai neppure sentita nominare. – continuava a sentirsi disperatamente stupido – E, insomma, sono qui perché dovrò mettere insieme una recensione per questo concerto e…
- E lei non è un appassionato dei Midnight Inn, quindi? – rise appena, senza scherno.
- No, no, tutt’altro. Sono un vostro grande ammiratore. Pensi che il mio capo mi ha spedito qui per una sorta di premio. – Fantastico! Ora gli stava anche raccontando tutta la sua vita – E allora capirà come mi sia stato fatto promettere di non tornare a mani vuote. Suona un po’ gretto, ma se riuscissi a rimediare almeno un’intervista…
- Oh, no, non c’è nulla di gretto. Lei fa il suo mestiere, come noi facciamo il nostro. Senta, se si spiccia, qualcosa riuscirà a concludere. Per quanto riguarda Edward, è molto probabile che si faccia negare. Ma a Jon piace parecchio parlare, soprattutto dopo una pinta di troppo: terza porta a destra. – sorrise di nuovo, strizzandogli l’occhio, prima di guadagnare il suo camerino.
- E lei, Steve?
- E io, cosa?
- A lei piacciono le interviste? Intendo: sarebbe disponibile?
- Per carità! – si schermì, stringendosi nelle spalle – Sono solo il nuovo chitarrista. Insomma, sarebbe meglio se parlasse con i membri fondatori, no? Io non ho niente di così interessante da raccontare.
- Lei ha rubato la scena, stasera.
- Ma non è vero! – arrossì vistosamente – Senta, c’è Jon di là: saprà certo molte più cose di me sulla storia del gruppo.
- Però non mi ha ancora risposto. Sarebbe disponibile se io, invece, volessi lei?
- E’ rimasto tutta la sera ad ascoltarmi, risulterebbe quanto meno scortese se io non facessi altrettanto, ora. Vuole entrare? E comunque no, non mi piacciono le interviste: sono molto timido, mi terrorizzano. Detesto parlare, ma lei mi fa simpatia. L’ho notata, sa, in prima fila.
Non era un camerino vero e proprio: sembrava piuttosto un ripostiglio riadattato, che il chitarrista si era certamente trovato a condividere con qualcun altro dei suoi colleghi, stando agli abiti lasciati sulla spalliera di una seggiola e la bottiglia di whiskey piena per tre quarti sulla mensola. Era il dolce disordine creativo degli artisti, quello: un caos che non risultava fastidioso e nel quale Vittorio si trovò presto a suo agio. Si accomodò su una delle due sedie, quella vuota, mentre Lawell si era raggomitolato sull’altra, con le ginocchia tirate al petto e lo sguardo un poco spaesato. Aveva tutta l’aria di non voler parlare di sé, perché prese subito a fargli domande sulla sua vita. Ma lo faceva in maniera talmente garbata che Straforini non se la sentì di non assecondarlo.
- E così lei lavora per una radio. – sorrise – E com’è? Voglio dire: è noioso? Eccitante? Non ho la minima idea di come vadano queste cose, ho sempre e solo suonato la chitarra.
- E’ un buon ripiego. Vede, anch’io avrei voluto creare musica, ma purtroppo questo è tutto quanto mi è concesso. Ci vivo in mezzo, a quella musica, indirettamente e ci riesco a mangiare: non devo essere ingrato.
- Cosa suonava?
- La chitarra.
- Oh! E cosa è andato storto?
Vittorio rise: - Che alcuni nascono con il talento e altri no. Lei appartiene al primo caso e io al secondo.
- Dove il talento naturale manca, si può sopperire con la tecnica. Ne conosco molti.
- Signor Lawell, lei parla così perché ha la fortuna di aver ricevuto una dote straordinaria e, forse, non sa come vanno le cose tra i comuni mortali. Ma le assicuro che non si può fingere troppo a lungo di dominare un’arte che in realtà non si possiede: le emozioni non passerebbero. O, più semplicemente, la tecnica costa, economicamente parlando, e a me ne sarebbe servita molta.
- Capisco. Ha fatto delle osservazioni argute. L’ho detto che mi era simpatico. – Steve giocherellò con i bottoni del suo gilè di velluto, visibilmente a disagio.
- L’ho messa in imbarazzo? Mi spiace.
- No, no, affatto! Mi ha solo fatto ripensare ad alcuni aspetti di cui non mi ero reso conto prima.
- Quali aspetti?
- Non importa.
- Sì che importa, è un’intervista. Beh, se non sono eccessivamente personali, naturalmente.
Steve si alzò, avvicinandosi alla finestra. Era troppo piccola e fuori era troppo buio perché potesse entrare la luce della luna o qualche immagine quieta di Roma addormentata sotto le stelle. Vittorio poté osservarlo, ora, mentre era di profilo. Aveva davvero le mani delicate, che si muovevano tranquille e mai troppo lontane dal corpo, quando parlava. Ed era sottile, aggraziato, con una lunga cascata di capelli biondi e lisci come seta. Si vergognò di starlo pensando, ma notò che aveva anche una bella bocca, morbida e piena, con le labbra che quasi non si sfioravano, pronunciando le parole.
- La gente inizia a suonare per tante ragioni. – si affrettò ad aggiungere, nella speranza che Vittorio distogliesse lo sguardo – La mia non è più nobile né più banale di tante altre: speravo che la musica mi conciliasse con le Energie del mondo. Ho sempre avuto la tendenza a sedermi, ad ascoltare la Natura e a riflettere, fin da bambino. Pensavo che la chitarra potesse aiutarmi in questo.
- E ci è riuscito?
- Ho ventiquattro anni. – sorrise con indulgenza, stropicciandosi le dita – Non crede che sarebbe un peccato di hybris dirmi arrivato?
- Hybris?
- Superbia, se preferisce. E lei, perché voleva suonare?
- Per un motivo molto stupido: mi rendeva felice.
- Cosa c’è di stupido nella felicità?
- Niente. Ma in confronto a quello che ha detto… Sì, ecco, credevo volesse un altro genere di risposta.
- Mai esigere risposte dalle persone: è sbagliato caricarle di aspettative che in realtà sono solo nostre. Non sarebbe giusto.
- Lei è un uomo affascinate, Steve. Cioè, non intendevo…
- No, no, ho capito, stia tranquillo. Grazie.
Lo era davvero, ma di quel fascino leggero, che non si imponeva con brutalità, ma che soggiogava lentamente, con qualche sussurro, qualche gesto delicato, fino a riempire tutta la stanza. O forse era soltanto l’impressione che ne traeva un ragazzo di provincia che, in fondo, non era mai stato tanto vicino allo spirito dell’Arte.
- Pare che l’intervista la stia facendo lei a me, però. Ma proprio non le piace parlare?
- Poco. È che apprezzo il silenzio, al massimo la musica. Non sono forieri di fraintendimenti, a differenza delle parole. Non trova?
- No. Il resto del mondo come lo si avvicina? Non certo con la meditazione. Sempre che il resto del mondo la attragga, è chiaro.
- Ci sono altri modi. Un La minore non è forse triste? E un Re maggiore non le dà l’idea di tanta speranza? E nel caso questo non bastasse… Mi dia la mano.
- Come?
- Non abbia paura. – gli porse il palmo, attendendo che Vittorio vi posasse sopra il proprio, esitante – Non le faccio niente. Cosa sente?
- Sta tremando. È molto teso?
- Terribilmente. Molto più di quanto non avesse notato chiacchierando, no? Alla gente non importa quello che ha da dire uno come me. E, del resto, perché dovrebbe? Non ho nessuna verità da rivelare. Alle persone piace quando si raccontano loro grandi verità, in particolar modo quando sono quelle che vogliono sentirsi dire. Bisogna pur trovare un altro modo con cui farsi comprendere: pare che la musica funzioni.
Vittorio si accorse di avere ancora le dita sulle sue, in tutta la sconvenienza di quel gesto, eppure non fece nulla per sottrarsi, limitandosi a sperare che nessuno aprisse la porta.
- Steve, non è vero che lei non abbia niente di interessante da dire. A me importa.
- Anche se siamo perfetti estranei?
- Anche.
- Le importerebbe se non fossi il famoso chitarrista dei Midnight Inn? Se mi avesse incontrato un paio di anni fa, in un bar?
- Immagino di sì.
- E’ così strano: con lei riesco a parlare e, mi creda, non mi succede spesso. Non con i giornalisti, almeno.
- Steve! - l’uscio si spalancò di colpo, lasciando entrare la figura allampanata di Bristol; era sinuoso persino nell’incedere, anche lontano dai riflettori – Noi stiamo andando.
- Anch’io me ne stavo andando. – balbettò Vittorio, con la prontezza di trasformare il loro contatto in una vigorosa stretta di mano – L’intervista è finita.
- Intervista? – Edward si era messo a raccogliere i costumi di scena, cacciandoli alla buona in una borsetta di pelle scamosciata – Non credevo ci fossero giornalisti in giro. Fortuna che me la sono scampata! Niente di personale, eh, sono solo un po’ stanco.
- Si immagini. Grazie infinite per la sua pazienza, signor Lawell.
- Temo che non possa andarsene, Mr. Starf…
- Straforini. – rise – Perché mai?
- Perché abbiamo un altro paio di cose da dirci. Edward, vi dispiace precedermi? Io vi raggiungo dopo, a piedi: ho voglia di camminare. Vittorio, è pratico di Roma?
- Per niente!
- Splendido! – concluse con apparente insensatezza - Allora sarà proprio lei ad accompagnarmi in albergo.
 
 
- E se ci perdiamo, tanto meglio, non trova? – scherzò il chitarrista, con lo sguardo perso nel velluto blu e stellato di quella notte – Questa città è magnifica.
- Lo è davvero. Beh, possiamo anche smarrirci, credo. In ogni caso, il mio treno sarebbe andato.
- Le ho fatto perdere il treno? Mi sento terribilmente in colpa, adesso.
- L’ho perso volentieri. Insomma, quello che voglio dire è che… Guardi!
Senza che se ne fossero nemmeno accorti, la superba magniloquenza della Fontana di Trevi era apparsa sulla loro strada, togliendo a entrambi il fiato per un momento con la danza dorata delle luci che guizzavano sull’acqua.
- Me l’aspettavo più grande, dai film. Non la fontana, la piazza.
- Ma lo sa che lo stavo pensando anch’io, effettivamente?
- E’ una fortuna che non sia andata distrutta. Ha fatto molti danni la guerra, qui da voi, vero?
- Parecchi, sì. Ma questa è stata risparmiata. Le piace?
Steve si mordicchiò in silenzio le belle labbra, socchiuse in un commento che non riuscì a trovare – Mi piace ogni cosa di questo posto. Forse mi piacerebbe restarci, in mezzo a tutta questa storia, con qualche libro, per raggiungere uno stato diverso, per fermarmi un po’, magari.
- Allora ci resti.
- E i Midnight Inn? – rise – Ci fosse un buon motivo per rimanere, almeno!
- La sua meditazione non lo è?
- Non faccio niente di straordinario, in fondo. Si può riflettere dovunque e chiunque può farlo. È soltanto un modo di pregare qualcosa che non so cosa sia. Potrebbe riuscirci benissimo anche lei, se volesse. O magari ci è già riuscito.
- Non ne sono mai stato molto attratto. Forse non ne ho bisogno, sono già contento così. Mi basta davvero poco.
- Sul serio non c’è nulla che potrebbe renderla più felice?
- Oh, certo che c’è, ma cerco di non pensarci.
- Mi dica cosa.
Vittorio non poté farne a meno: lasciò che gli occhi scivolassero sul viso di Steve, immerso nel chiarore dei lampioni, per posarli poi sulle labbra e, scorrendo lungo il suo profilo, sulla linea che dalla gota portava all’orecchio. Un bacio su quella pelle tenera e bianchissima forse l’avrebbe reso felice e, forse, avrebbe contemporaneamente rovinato in un istante ogni cosa.
- Vorrebbe anche lei restare qui, Vittorio?
Il suo nome suonava magnificamente, impastato nell’accento inglese dell’altro.
- No, non credo.
- E allora che cosa?
Adesso o mai più. Del resto, non l’avrebbe rivisto: il tempo di riaccompagnarlo e sarebbe già sparito, come un qualsiasi incontro fugace per le strade di quella città che non era la sua. Ma ora era vicino, talmente vicino che riusciva a sentirne il profumo dolciastro che si portava addosso, assieme al sudore lieve del dopo-concerto. Ed era bello; bello come pochi altri gli erano sembrati, circonfuso da quel suo alone di musica e spiritualità.
- Questo credo che potrebbe essere più che soddisfacente.
Si sporse e gli stampò un bacio innocente sulla guancia. O meglio, aveva mirato alla guancia, ma Steve era più basso di quanto avesse calcolato e le labbra gli finirono sulla tempia, tra i capelli che avevano lo stesso odore dell’aria di quella notte.
Sentì il chitarrista irrigidirsi e temette che tutto fosse irrimediabilmente giunto alla fine. Si preparò ad incassare o uno schiaffo o un addio. Ma nessuno dei due arrivò.
- Steve, credo che se prosegui dritto per questa stradina trovi il tuo albergo senza problemi.
- Vuoi lasciarmi adesso? – si voltò appena, quel tanto che bastava per guardarlo, ma non direttamente – Adesso che… E’ tutta la sera che ti guardo dal palco. Hai… Oddio, quanto mi sento stupido! Hai gli occhi più belli che abbia mai visto. Solo che non credevo di poterti piacere.
- Tutta la mia attenzione era rivolta a te. – gli sussurrò all’orecchio – Soltanto a te. Eri magnifico là sopra, con la tua chitarra. Ma non potevo certo sorriderti come una di quelle ragazzine. Non sai che invidia ho provato verso di loro!
- Ti è mai successo prima? Dico, che ti attraesse un ragazzo.
- Un paio di volte. Forse qualcuna in più. Ma mai così improvvisamente. È che sei così dolce, Steve.
Una mano sfiorò la sua, nel buio del vicolo in cui si erano incamminati: - Stevie.
- Come?
- Dico, puoi chiamarmi Stevie, se vuoi.
- Stevie!
- Ancora.
- Stevie…
Vittorio si ritrovò premuto contro il muro, con il piccolo chitarrista aggrappato alla sua camicia, che gli lambiva timidamente le labbra con le proprie, tremanti per il respiro pesante e trattenuto.
Steve era in punta di piedi, per sopperire alla differenza di altezza, e si muoveva timoroso nel suo abbraccio, ma gli aveva affondato le dita tra i capelli, per tenerlo stretto a sé. Vittorio gli accarezzò piano la schiena per calmarlo: il vicolo era deserto, non doveva avere paura di nessuno, tanto meno di lui.
- Va tutto bene, Stevie. Volevi essere in armonia con la Natura, no? È tutto perfetto, tutto ci sta dicendo che è giusto, se lo vogliamo. Vuoi che ti baci?
Annuì, con lo sguardo smarrito: - Sempre così, voi italiani. – cercò di scherzare – Pronti ad approfittarne al minimo segno di romanticismo.
- Vuoi un bacio, allora? Un bacio come si deve?
Annuì di nuovo: - Sì, sono troppe ore che ci penso.
- Non può succedere nulla di male, dunque. – posò ancora la bocca sulla sua.
Per un attimo credé che Steve non avesse mai baciato nessun altro, prima di allora, perché se ne restava immobile, al punto che Vittorio dovette limitarsi a stampargli qualche carezza lieve a labbra chiuse, per non forzarlo e non sembrare inopportuno. Ma, quando Steve prese a rispondere appassionatamente, suggendogli il labbro inferiore, non riuscì a non afferrargli con decisione il viso tra i palmi e a trarlo a sé per assaporare a lungo la sua bocca, mentre la lingua carezzava morbidamente la sua, finché il chitarrista non si sottrasse, cercando aria e reclinando appena la testa. La linea pallida del collo era una tentazione troppo forte per non imprimervi qualche bacio lieve che si trasformò in un contatto appena più umido e lascivo, quando Lawell affondò un’altra volta la mano tra i suoi capelli, trattenendolo sulla sua pelle e ansimando violentemente.
- Calmo, calmo, Stevie. – gli mormorò, facendolo tremare ancora di più.
- Vittorio…
- Sì? – aveva scostato le ciocche bionde e trovato il suo orecchio, così da potergli torturare il lobo – Scusami.
- No, no, va tutto benissimo. Vittorio…
- Dimmi.
- Resta con me, stanotte. Dio mio! Chissà che pessima opinione ti starai facendo, ma ti giuro che è la prima volta che lo chiedo a qualcuno che conosco da così poco.
- Nessuna cattiva opinione, – scese di nuovo sulla sua gola, sensualmente, con la bocca socchiusa – perché stavo per domandarti la stessa cosa.
- Vieni, vieni con me.
- Che diranno in albergo?
- Oh! Non sarà ancora illegale, da voi?
- No, no, ci mancherebbe. Solo… molto criticato.
Steve gli mise in mano la custodia della sua chitarra: per quanto il resto della attrezzatura fosse affidato ai roadie, la sua Gibson preferita viaggiava sempre con lui, evidentemente.
- Lascia parlare me e sii naturale: passerai per uno dei nostri tecnici.
Nessuno infatti l’aveva notato, mentre svicolavano nei corridoi, fino alla stanza di Lawell. Il tempo di chiudersi la porta alle spalle e già Vittorio vi aveva premuto contro il corpo sottile del chitarrista, prendendo a liberarlo del velluto del gilè e della stoffa leggera della camicia. Ora poteva riempirsi le mani della morbidezza della sua pelle e la bocca del sapore dei suoi baci, sempre più decisi, sempre più voluttuosi.
- Spegni le luci, Vittorio, per favore.
- No, ti prego. Lascia che ti guardi.
Voleva imprimersi nella memoria ogni momento di quella notte per poterla poi rivivere nella mente così tante volte che, alla fine, non gli sarebbe parsa nemmeno reale. E voleva ricordare ogni lineamento del suo viso contratto dal piacere, mentre si muoveva dentro di lui, lentamente, cercando di prolungare ogni istante. E ogni gesto del suo corpo, la sua schiena che si inarcava, le sue dita che graffiavano i fianchi, la sua bocca che continuava a chiamarlo con urgenza. Era bello, ancora più bello di come l’aveva visto sul palco, nel trasporto dionisiaco dell’amore, così simile a quello della musica, forse altrettanto potente.
Ma dopo - dopo che la ragione ebbe terminato di naufragare nel mare biancastro e caldo dell’orgasmo, dopo che furono svaniti anche gli ultimi lampi di colore nella sua testa - Vittorio si pentì delle abat-jour lasciate accese. Pelle contro pelle e bocca contro bocca erano più tollerabili degli occhi negli occhi, dell’anima davanti all’anima, quando rotolò al suo fianco e tra di loro rimase soltanto la consapevolezza che tutto era giunto al termine e che erano rimasti, adesso, soltanto i frammenti – quelli più aguzzi e dolorosi – del commiato.
- Grazie.
Fu Steve a infrangere il silenzio. Vittorio gliene fu grato soltanto in parte, perché ora si trovava costretto a rispondere a sua volta, anche se non trovava le parole.
- Grazie a te.
- Che si fa in questi casi? Voglio dire, posso chiederti di restare oppure è troppo intimo? Hai magari un treno? Vuoi che ti faccia portare alla stazione?
- Stevie! – gli sorrise – Calmati, posso restare. Non avrò un treno utile prima di domattina.
Quando gli sfiorò la gota, il chitarrista gli trattenne la mano nella propria: - Perdilo.
- Che cosa?
- Perdi il treno, Vittorio. Vieni via con me, in tour: posso farti assumerti come roadie, dopotutto di chitarre te ne intenderesti abbastanza. Vorrei mostrarti la mia Londra e un sacco di altri posti! Potrei darti altre notti come questa.
- Stevie, lo sai che non sarebbe possibile. Ho la radio, a Bologna. E Claudio e Delfina. Non posso piantarli in asso, dopo tutto quello che hanno fatto per me.
- Ti sostituiranno. Che ti importa della radio? Vivresti a diretto contatto della musica, come avevi sempre desiderato.
- No. – guardò lontano – Non funzionerebbe.
- Non è soltanto per via della radio, non è vero?
Inutile mentire davanti a tanta sensibilità: - No, non è solo la radio. Io vivo di piccoli sogni, Stevie. È tutto quello che mi permetterà di andare avanti. E tu vivi di grandi progetti. Se lasciassi la radio e venissi con te, cosa succederebbe, finito il tour? Come potrei riabituarmi alla mia esistenza modesta? L’avrei ancora, dopo averla tradita?
- Non dovresti tornarci, non ti lascerei andare, Vittorio. Ti terrei con me.
- Il grande Steve Lawell non può rovinarsi la carriera per lo scandalo di amare un roadie. Lo vedi anche tu in che mondo viviamo. Tu sei destinato a scrivere la storia del rock, io soltanto la mia: lasciamelo fare nel modo meno doloroso per entrambi. Lasciami andare, prima di legarmi a te.
- Dovresti correre il rischio. So che chiedertelo in nome di qualcuno che conosci appena non avrebbe senso, dunque ti dico che dovresti rischiare per te. – sussurrò pacatamente, ad occhi bassi, ma con disperata decisione.
- Per me ho già deciso. Forse starò sbagliando, forse sarò un codardo. Forse nemmeno con la radio funzionerà e io mi ritroverò davvero a fare il bagnino a tempo pieno, ma ho fatto la mia scelta.
- Vittorio?
- Sì?
- Non sei un codardo. Sei coraggioso. Io temo che non lo sopporterei.
- Perché tu hai altro, molto altro. Ecco perché devi andare. Non ti dimenticherò, Stevie.
- E’ questo l’unico modo per non dimenticarmi, vero? È assurdo come siamo capaci di amare il passato e il futuro, io e te, ma non il presente.
- Non ci permettono di amarlo, il presente. Comunque resterebbe la cosa più difficile: è più semplice ricordare un amore divinizzato che viverlo.
- Già. E allora nemmeno io ti dimenticherò, Vittorio. Domattina dovrai darmi un bacio di addio. – gli si rifugiò contro il petto, incurante dell’eccesso di confidenza che implicava quel gesto.
Vittorio sorrise teneramente: - Non ci sarà nessun addio. L’Inghilterra non è la Luna e di te si sentirà parlare per tanto, tanto tempo ancora, ci scommetto. Tornerai in Italia, prima o poi, e io ti cercherò. Ci rivedremo, in qualche modo.
- Lo spero. Promettimi che mi cercherai davvero, che questo sarà soltanto un arrivederci.
- Lo prometto.
 
 
“Amo el amor que se reparte / en besos, lecho y pan. / Amor que puede ser eterno / y puede ser fugaz. / Amor que quiere libertarse / para volver a amar. / Amor divinizado que se acerca / Amor divinizado que se va.”
L’indomani, mentre Steve dormiva, aveva ricopiato su un foglio – assieme a qualche riga di traduzione in inglese – questi versi dal suo libro, per poi abbandonarli sulla custodia della chitarra.
Si era chiuso la porta alle spalle, senza voltarsi, senza svegliarlo. Come aveva promesso, non c’era stata nessuna parola di addio. Gli addii erano per chi contava di non vedersi più, per chi aveva perso ormai persino la speranza: e la vita aveva fatto sempre giri troppo strani per permettere a Vittorio di smarrirla così presto.
Soltanto quando fu seduto nel vagone di seconda classe, rileggendo la poesia, si accorse del titolo che campeggiava in alto nella pagina, come un pessimo presagio. Farewell. Addio.
Ma ormai il treno correva veloce verso Bologna, allontanandolo dalla Città Eterna e da lui, mentre le necessità di casa già gridavano tanto forte da coprire la voce flebile delle lacrime che gli premevano agli angoli degli occhi. Eppure qualcosa restava, tra le pagine dell’intervista, le parole di Steve e i ricordi. Quel poco di magia non riusciva a schiacciarla nemmeno lo sferragliare delle rotaie, non riuscivano a portarla via nemmeno i chilometri: era sua, soltanto sua. Quella notte gli apparteneva e forse, nonostante tutto, sarebbe dovuta bastare.
 

Fine

 
***
 

N.d.A.
 
Non ho molto da dire su questa storia, a parte che è dedicata ad una delle persone più adorabili e lungimiranti che ho conosciuto quest’estate, durante una vacanza al mare. Ci sono molte ragioni che mi legano a quello che scrivo, molte ragioni che mi legano alla gente che incontro, ma questa volta il "filo rosso" è particolarmente stretto. "Vittorio" aveva previsto un cambiamento straordinario nel mio futuro e non so dire quanto sia felice che le sue intuizioni fossero corrette. Pertanto, ho voluto omaggiarlo così: grazie, "Vittorio".
E grazie a voi per essere passati e se mai vorrete lasciare due parole.
Un abbraccio a tutti! <3
Marg.


Credits:

La poesia che compare alla fine è Farewell di Pablo Neruda, tratta dalla raccolta Crepuscolario (1923).
I brani/album citati all’inizio sono Hush dei Deep Purple, Lucky Man degli Emerson Lake & Palmer e Salisbury degli Uriah Heep (a proposito, niente contro gli Uriah Heep, anzi!, sono tra i miei gruppi preferiti. È solo l’opinione di Vittorio, non la mia :D ).
I titoli e i testi delle canzoni dei Midnight Inn, invece, appartengono a me, così come la fotografia in copertina.

 
   
 
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