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Autore: Albezack    22/01/2014    5 recensioni
Spesso ci chiediamo se quello che ci accade sia reale oppure no. Non sempre esiste la risposta.
Genere: Dark, Horror, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Odio questo lavoro, pensavo posando la cornetta del telefono al suo posto, accanto al letto.
La sveglia di Topolino, che mi aveva regalato mia figlia il Natale precedente, segnava le tre del mattino.
Era domenica.
“Mmm…chi era?” chiese assonnata mia moglie, mettendosi a sedere. “Nick, ancora lavoro” sospirai affranto, afferrando ad occhi ancora chiusi i pantaloni a bordo letto.
“Di domenica? A quest’ora?” domandò.
“Pensi che io sia contento?” replicai in tono piatto. “Se Nick chiama a quest’ora comunque ci dev’essere un motivo, se la sarebbe sbrigata da solo, altrimenti” continuai infilandomi la camicia.
Guardandomi interrogativa, sollevò il sopracciglio sinistro nel modo in cui solo lei sapeva fare e si rituffò sul cuscino biascicando qualcosa sul fatto che non si sarebbe alzata per prepararmi la colazione.
Nemmeno il tempo di mollarle un bacio sulla guancia che era già tornata nel mondo dei sogni.
Quanto ti invidio… riflettei scendendo le scale due gradini alla volta.
Giacca, chiavi della macchina, chiavi di casa, cassetta degli attrezzi. C’era tutto, potevo partire.
Ormai ero abituato ai capricci della mia vecchia Ford, ma quella mattina aveva deciso di farmi diventare matto. La batteria non poteva essere il problema in quanto l’avevo sostituita da poco, doveva essere sicuramente il freddo. Quell’anno le temperature erano scese di parecchi gradi sotto lo zero, ed anche solo uscire per quindici minuti senza le dovute precauzioni poteva portare inesorabilmente all’assideramento.
Il Minnesota ha inverni duri, diceva sempre mia madre quando decisi di trasferirmici dalla Florida. E questo era davvero duro, con dei picchi a meno venti fino a meno trenta durante la notte. Ti si ghiacciava il culo anche sotto tre strati di pantaloni.
Il motore si accese al terzo pugno assestato sul volante.
Imprecai, stupito. Ormai stavo per perderci le speranze ed iniziavo a pensare di avvisare Nick. Avrei rinunciato al lavoro per causa di forza maggiore.
Mi sarei inventato qualcosa, dal gatto con la diarrea ad un mal di testa improvviso. Ma ormai non serviva più, il destino aveva deciso che quel lavoro lo dovevo fare.
“Vaffanculo,” dissi a denti stretti mentre uscivo in retromarcia dal vialetto di ingresso di casa mia, “facciamo questa cazzo di cosa in fretta e torniamo a letto.”
Il posto era relativamente vicino, nella periferia di Buffalo, a non più di mezz’ora di viaggio. Nick era stato categorico.
Devi andarci per forza, è un pezzo grosso, nipote di non so quale presidente di non so quale cazzo di paese, ma uno con la grana. Si è appena trasferito, dice. Fagli un lavoretto a regola d’arte e ti becchi una bella mancia, oltre al resto. Gli escono i soldi dalle chiappe, a questi figli di papà. Lo farei io stesso se potessi, ma sono fuori città al momento e ci impiegherei troppo a tornare.
Non che me ne fregasse molto della mancia, la paga era già ottima. Fare l’idraulico era un lavoro relativamente comodo, l’unica pecca è che spesso ricevevi chiamate negli orari più improbabili, di notte, di domenica, un anno addirittura a Natale.
Questo tizio a quanto pare aveva intasato lo scarico del cesso e gli si era allagato mezzo appartamento. Un problema comune.
La parte peggiore del mio mestiere era sentire le inverosimili scuse dei clienti sulle possibili cause dei guasti agli impianti.
Non riesco proprio a capire, ha sempre funzionato perfettamente, il wc, ed ora si è rotto.
Certo, fino a che tu non ci butti calzini, fogli stropicciati e gli avanzi della cena, forse può anche continuare a funzionare. Una volta ho trovato dentro addirittura un cellulare e, quando l’ho estratto, il proprietario ha fatto pure finta di non saperne nulla.
È un po’ come quei pervertiti che si presentano di notte al pronto soccorso con una carota incastrata nel culo e dicono di esserci casualmente caduti sopra.
Ma comunque non mi lamento, è anche grazie a questi deficienti se pago le tasse e mi faccio le vacanze con la famiglia ogni anno.
*
Il palazzo del signor Havier (si chiamava così il riccone, probabilmente un europeo) non dava immediatamente sulla strada. Bisognava prima percorrere un breve tratto sterrato che conduceva ad un enorme giardino piastrellato adibito a parcheggio.
Non ci misi molto a trovare dove posteggiare. Oltre alla mia macchina, ce ne saranno state al massimo una decina, tutte piuttosto di classe: SUV neri con finestrini oscurati, Mercedes sportive, decapottabili della Porsche. Lasciai il mio scassone tra una Audi ed una Aston Martin. Della serie, trovate l’intruso.
L’ingresso principale era poco distante, segnalato da due colonne in perfetto stile ionico ai lati del portone.
Questi cazzo di ricchi, non sanno proprio come buttare i soldi…
Passai davanti alla portineria, dove un elegante signore vestito di nero mi rivolse la parola.
“Lei è il signor Near, giusto?” mi chiese con un affabile accento inglese.
“Si, sono qui per…” non feci in tempo a replicare.
“So già tutto, gli ascensori sono in fondo al corridoio. Quinto piano, seconda porta sulla destra.”
Rimanendo leggermente sorpreso per l’organizzazione di quello stabile, così efficiente addirittura nel mezzo della notte, mi avviai nella direzione indicata dal portinaio. Passandogli davanti mi parve di sentire un odore strano, rancido. Come se sotto quel bancone in legno pregiato ci fosse della carne in decomposizione, o qualcosa di altrettanto disgustoso. Decisi di non darci troppo peso. D’altra parte, fino a poco tempo prima stavo dormendo, e quello poteva essere uno strascico olfattivo di qualche sogno. A volte capitano.
“Ah, un’ultima cosa,” aggiunse prima che non potessi più sentirlo, “tenga gli occhi chiusi fino a che non raggiunge il suo piano, è un consiglio.”
“Ehmm…okay” fu tutto quello che riuscii a dire dopo una richiesta tanto stramba. Ero stanco e non avevo voglia di mettermi a discutere, assecondare mi sembrava la tattica migliore per tornare a dormire il prima possibile.
I ricchi sono strani…
Nonostante l’orario trovai ad attendere l’ascensore altre due persone, un ragazzotto di non più di venticinque anni, ed una signora distinta, sulla cinquantina, avvolta in una pelliccia che probabilmente era l’equivalente di tre o quattro mesi di lavoro.
“Salve” disse sbadigliando il giovane.
“ ‘Sera” risposi un po’ impacciato, chiedendomi se fosse il tipo di saluto più adatto in una situazione del genere.
Cazzo, Near, ha almeno dieci anni meno di te, come fai a sentirti in soggezione?
C’era qualcosa di sbagliato nel volto del giovane, in particolare nei suoi occhi. Erano occhi che parevano trasmettere solo stanchezza. Erano occhi di chi porta un fardello grande quanto un macigno. Erano occhi di chi ha sofferto e continua a soffrire. Erano occhi di chi non può più essere felice.
La donna mi squadrò dall’alto in basso come si fa solitamente con i barboni che chiedono l’elemosina sul marciapiede.
Stavo per dirle qualcosa di poco elegante, quando distolse improvvisamente lo sguardo e lo rivolse verso la porta dell’ascensore, rossa.
Rossa come l’inferno.
So che è stupido fare certi pensieri, soprattutto quando si ha una certa età e si è deciso di lasciarsi alle spalle le stupide suggestioni che ci perseguitavano da bambini, ma questa è la prima cose che pensai, vedendola.
La prima e l’unica. Mi aspettavo che, una volta aperti, quei battenti metallici mostrassero una voragine fiammeggiante colma di urla e sangue.
Dlin.
Le porte si aprirono a rivelare un normalissimo ascensore, con una capienza di non più di cinque o sei persone. Lussuoso, ma comunque normale. Invitai a salire la due persone che attendevano assieme a me ed entrai, facendo attenzione a non urtare nulla con la mia cassetta degli attrezzi piena di chiavi inglesi e cacciaviti.
Senza chiedere nulla il ragazzo premette il bottone dell’ottavo piano e la donna quello del decimo, l’ultimo. Io schiacciai quello del quinto.
Vidi che il ragazzo chiudeva gli occhi, come intimato anche a me dal portinaio. Ringraziandolo mentalmente per avermelo ricordato, chiusi le palpebre e mi apprestai ad attendere. Sarei stato il primo a giungere a destinazione.
Non appena iniziammo a salire, avvertii nuovamente l’odore sgradevole di prima. Odore di marcio, di putrefazione. Gli altri non dicevano nulla, come se a sentirlo fossi solamente io.
Strano, magari questa vecchia ora pensa pure che sono io a puzzare così…non me ne stupirei.
Sentendomi abbastanza cretino per tenere gli occhi chiusi, iniziai a chiedermi quanto mancasse ormai per giungere al quinto piano. Erano già passati trenta, forse anche quaranta secondi, ma l’ascensore non accennava né a rallentare né tantomeno a fermarsi.
“Mi sento male,” disse all’improvviso la donna, “l’aria qua dentro è irrespirabile…mi sento svenire.”
Feci l’errore. Aprii gli occhi.
Quello che mi si parò davanti non aveva nulla di razionale. Mi trovavo ancora nel mio letto e stavo sognando. Era l’unica spiegazione possibile. La donna che era entrata con noi non esisteva più. Al suo posto, un cadavere putrescente con gli occhi rossi che mi fissava, ridendo.
“Uh, uh, uh, erroraccio, mio caro Near…” sibilò con una voce inumana, mentre zaffate di marciume mi giungevano alle narici, portandomi sul punto di svenire.
“Ahi, ahi, ahi, non eravamo stati avvertiti di non aprire gli occhi, giovanotto mio?” mi investì, mutando ulteriormente e rivelandosi per un essere immondo, una creatura uscita direttamente dall’inferno, un demone.
La mia bocca era spalancata, i miei occhi sbarrati. Volevo urlare, ma i miei polmoni erano talmente strizzati da produrre solo qualche ridicolo gemito, inudibile da chiunque.
Il ragazzo continuava a tenere gli occhi chiusi. Teneva inoltre i palmi delle mani energicamente premuti sulle orecchie, canticchiando, per non sentire la discussione che stava avendo luogo. Lo afferrai per le spalle, chiedendo aiuto, ma lui semplicemente continuò ad ignorare quello che stava succedendo.
“Lascialo stare, Near, lui è un ragazzo ubbidiente” disse l’entità, indicandolo.
Lo schermo al mio fianco intanto mostrava il numero sei. Avevamo oltrepassato la mia destinazione.
Panico. Non sapevo che fare. Ero in due metri quadrati con il diavolo in persona, non avevo via di fuga. Ero totalmente in suo potere, tutto quello che potevo fare era rimanere a guardare la scena inebetito ed incapace di proferire parola. Quando lo schermo segnò che eravamo giunti al settimo piano, l’ascensore fermò la sua corsa. Le porte si aprirono, rivelando un antro buio.
Anzi, buio non è esattamente la parola corretta, oltre quella porta c’era solo nero, nemmeno la luce dell’ascensore riusciva a filtrarci. Era un buio denso, impenetrabile.
L’essere demoniaco mi afferrò un braccio, cercando di tirarmi all’interno di quel baratro. Mi aggrappai al giovane che però si divincolò facendomi barcollare pericolosamente. Il mio braccio era già entrato nel nero, non lo vedevo più. Era come se si interrompesse oltre la soglia dell’ascensore. Eppure lo sentivo, era lì, al solito posto. Sentivo freddo, qualunque cosa ci fosse stata all’interno dell’oscurità era gelida. La presa del demone, invece, era calda, ustionante, sentivo la pelle bruciare sotto le sue dita.
Lentamente riuscì a trarmi a sé, le mie unghie che si rompevano nella frenetica ricerca di un appiglio, mentre scivolavo sempre di più in quel nero freddo e vuoto. Con un ultimo strattone fui completamente risucchiato all’interno. Non era una stanza, non vi era pavimento.
Così caddi.
Caddi per un tempo che mi parve infinito. Un minuto, due minuti, un’ora. Non saprei dire per quanto tempo mi ritrovai a volare in quell’oscurità gelida. Anche le mie urla erano inghiottite dal buio, mi sentivo la trachea in fiamme senza riuscire a produrre alcun suono dalla bocca.
Iniziai a sentire piano piano la mia voce, come provenire dall’esterno, fuori dal mio corpo, sempre più potente, fino a che esplose in un boato dai miei polmoni.
Ero seduto sul mio letto, sudato. Aria gelida intorno a me, nella mia camera. Mia moglie dormiva ancora, non mi aveva sentito urlare, per quanto impossibile mi sembrasse. Era un urlo straziante, forte. Non poteva non averlo sentito, a meno che anche quello facesse parte del sogno.
Le afferrai un braccio per svegliarla. Lei si girò e mi guardò. Solo che a guardarmi non erano gli occhi di mia moglie, ma quelli di quell’orrenda creatura, della donna trasformata in demone. Iniziò a ridere, ridere così forte da sovrastare completamente le urla che mi sgorgavano nuovamente dalla bocca, mentre con un braccio mi afferrava e stringeva, forte, fino a farmi male. Ed io urlavo, come se avessi voluto sfondare le pareti con solo la mia voce. E urlavo…
“Amore…amore!” disse mia moglie. Il suo viso era a dieci centimetri dal mio…sentivo il suo respiro, il suo profumo. Il profumo di tutti i giorni.
Frastornato mi guardai attorno. Mi trovavo in macchina, le chiavi ancora inserite nella fessura. Dovevo aver urlato talmente forte da svegliarla e farla correre giù.
Ecco spiegato il freddo…dissi tra me e me.
 Mentre mi portavo le mani al volto, sentii una fitta all’avambraccio. Sollevai il maglione e vidi la pelle ustionata, esattamente dove mi aveva toccato il demone nel sogno. Sempre che fosse un sogno.
 E allora capii. Capii di essere fortunato, ad essere ancora vivo e poter raccontare questa mia esperienza.
Quel giorno non andai all’indirizzo che mi aveva dato Nick. Non avrei riparato quella perdita. E nemmeno lui ci sarebbe andato, me lo sarei fatto promettere sulla sua stessa vita. Non doveva mettere piede in quel dannato palazzo.
  
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