Rose went away
So The Doctor was blue
Ask Donna where’s The Doctor
She’ll reply “doctor who?”
Sarah Jane and Martha
And now both the Ponds
Had their fun with The Doctor
And now they are all gone
So ask me again
Why the Tardis is blue
There’s a sad man inside
With both his hearts torn in two
(Trovata sul web. Ora ditemi voi se non è la
cosa più adorabile,
strizza-cuore che si sia mai sentita)
La storia senza età
- Non ti credo. Sul fatto che non mi ami - esordì
John all’improvviso.
Quando si voltò ad osservarla, venne colpito in
pieno dalla torcia elettrica che lei gli aveva puntato contro, così Rose poté
vederlo in faccia invece che indovinarne l’espressione.
Aveva i capelli sporchi a ricadergli sulla fronte,
gli occhi incavati di chi non riposa decentemente da giorni, ma la tensione
della schiena e il viso vigile, malgrado le tracce evidenti di stanchezza,
dicevano altro; rivelavano energia, efficienza, prontezza. Una vitalità che lei
gli aveva invidiato sempre, da sempre e che le trasmetteva a pelle il desiderio
di proseguire, anche quando la fatica la colpiva come un martello gigante.
A conti fatti, Rose sapeva di non essere messa
meglio di lui.
Giorni e giorni d’indagini e ricerche affannose, di
inseguimenti spasmodici e corse e nessuna pausa nel mezzo. Si sentiva tanto
John Watson. Uguale ammirazione, senso di lealtà e un amore così radicato nei
confronti dell’uomo straordinario al suo
fianco da far apparire il resto, al di fuori della realtà presente e condivisa,
di un grigio compatto e smorto, nebuloso.
In quel momento particolare, però, immersa fino
alle caviglie nella melma e con una tubatura di scarico che le gocciolava acqua
putrida su una spalla, Rose non provava nessuna di quelle cose. Si sentiva solo
stanca e sgomenta per l’intempestività di lui. Davvero? Voleva parlare di quello?
Lì? Ora?
Si strinse nella giacca che aveva visto tempi migliori,
fece per dire qualcosa.
Una seconda occhiata a John, imperturbabile, la
fece desistere.
Conosceva quell’uomo, conosceva quello sguardo
pronto a dar battaglia se necessario e – bontà divina! – sapeva che ogni
tentativo di rimandare la discussione a data da destinarsi, specie quando lui
appariva determinato ad affrontarla, si sarebbe rivelato una inutile, controproducente
perdita di tempo.
Il rumore lontano e disgustoso della creatura che
si spostava, come se qualcuno stesse trascinando qualcosa di enorme e gommoso nell’acquitrino
ristagnante, continuava.
Rose allungò il collo, attenta a non perderne l’eco
e imprecò, stizzita.
Lanciò uno sguardo di fuoco a John, ma rimase ferma
dov’era, in quell’angolo puzzolente di fognatura, anche se il rumore della cosa
viscida che braccavano da giorni si allontanava progressivamente, anche se
aveva la spalla zuppa e i topi che passavano sui condotti sopra le loro teste
con una frequenza inquietante la disgustavano.
John non sembrò notarlo. Non appariva minimamente
turbato o scosso o quantomeno nauseato. Per lui tutto era normale.
Il suo sguardo scivolava su particolari come il
cattivo odore, l’impraticabilità del cunicolo in cui si erano ficcati, la
sostanza viscosa sui mattoni delle pareti tondeggianti; non gli interessavano.
E tuttavia, quando si posò sul suo viso aggrottato,
Rose ne sentì l’ascendente e la forza. Non le importò più di avere i capelli
come stoppa e neanche uno straccio di mascara, non le importò più di essere
arrabbiata con lui per le sue stranezze e non le importò poi così tanto che avrebbe dovuto essere quantomeno
offesa perché aveva scelto di parlare di quella
cosa nel momento peggiore dell’Intera Storia Dell’Universo.
Ci sorvolò e scrollò le spalle, arrendendosi come
di fronte a qualcosa di inevitabile, con un’espressione a metà tra il risoluto
e l’esasperato.
Notandola, John le rivolse un sorriso sgargiante,
tutto denti, più che mai simile al ghigno dello Stregatto.
- Avanti. Coraggio. Dì quello che vuoi dire e poi
andiamo - concesse Rose generosamente e mosse una mano per indicare nella
direzione presa dalla creatura barra ibrido barra alieno.
John si cacciò i pugni in tasca, sotto al
soprabito. Le diede le spalle e mosse qualche passo in avanti, per nulla
intralciato nei movimenti dal pantano.
Adesso che lei gli aveva dato il permesso, sembrava
frenato dalla paura di dire qualcosa di sbagliato a cui non avrebbe saputo come
rimediare.
Quando si girò per guardarla, allegria e ogni
traccia di sorriso erano svaniti.
Rose sapeva a cosa stava pensando, glielo leggeva
nello sguardo impotente e nel modo in cui aveva irrigidito la schiena.
Le parole brucianti che gli aveva rivolto appena
una settimana prima, ma su cui nessuno dei due aveva smesso di rimuginare un
istante, pur avendo cura di dare l’impressione opposta, sostavano tra loro come
un muro.
Un muro che era stata lei questa volta a creare e
che nessun pugno, ora come allora, sarebbe servito a far crollare.
L’ingiustizia del pensiero, del ricordo, le punse
il petto come un ago, affilandole il respiro.
Perché tutto quello aveva qualcosa di così ingiusto,
profondamente e immoralmente ingiusto… Le sembrava di essere una ladra, come
quando a otto anni aveva convinto la figlia dei Millers del 32B a regalarle la
nuova Barbie che i genitori le avevano comprato. Rose ci aveva giocato un
intero pomeriggio, svogliatamente, prima di decidersi a restituirgliela. A
sera, infatti, le era sembrato che il sorriso di plastica della bambola avesse
qualcosa di cattivo e infido e spogliarla e vestirla in modo elegante,
pettinarle i capelli morbidi e complimentarsi per quant’era carina, aveva perso
ogni attrattiva.
La sensazione era la stessa e miliardi di volte
peggiore. Il senso di colpa neppure quantificabile. Ogni sorriso di John era un
morso al cuore, ogni volta che la guardava in quel modo particolare, inclinando
la testa e chiedendole se andasse tutto bene, lei provava una tenerezza
straziante, una vagonata di sensi di colpa e l’impressione di sentirsi in
difetto con qualcuno. Solitamente gli rispondeva di sì, che andava tutto bene e
di non preoccuparsi.
Le loro giornate erano una girandola di cose
impossibili da fare ed era facile spegnere i pensieri, concentrarsi su altro.
Fino a quando nel suo giorno libero, rassettando
casa, mentre svuotava nel water provette e alambicchi con rimanenze di sostanze
maleodoranti, raccattava calzini grigi appallottolati sotto il letto,
ammucchiava cataste di riviste scientifiche, giornali e quotidiani con
cerchiate a matita le notizie più interessanti, raccoglieva confezioni di cibo
take-away usate per costruire una muraglia cinese in miniatura, l’occhio di
Rose era caduto su qualcosa nascosto sotto al comodino. Una scatolina di
velluto rosso, per la precisione.
Ed era scattato il panico.
Non aveva ventisette anni e il pensiero di qualcosa
di più complesso e gigantesco quando già quello che avevano insieme le appariva
fin troppo complesso e gigantesco anche solo per trovargli definizione, l’aveva
mandata nel panico.
Ansia da prestazione, l’avrebbe definita sua madre.
Ansia da assestamento, per suo padre. In entrambi i casi, ansia per qualcosa
che da indefinito si trasformava in catastrofica risoluzione d’intenti e
posizioni.
La calma pratica e contemporaneamente animata di
John, paglia pronta a prender fuoco in un minuto, le era familiare quanto
l’atto stesso del respirare.
- Mi stai evitando – cominciò John in tono di
accusa e col rimprovero a fargli ardere gli occhi come fiamme. - È una
settimana che non mi parli se non per lo stretto necessario e sì, Rose, aprire
uno scambio di vedute sul migliore Fish and Chips degli hinterland rientra nello stretto necessario. -
Rose fece per ribattere, ma scoprì di non avere
molto da dire. E poi da surreale e pseudo-sentimentale la situazione si
trasformò semplicemente in surreale.
John si accigliò ancora di più – tutto rughe e
concentrazione - e con uno scatto fulmineo le fu accanto. Saggiò l’aria con
occhi spiritati e si portò l’indice davanti alle labbra, zittendola anche se
non aveva aperto bocca.
– Non sento più alcun rumore e tu? –
Solo in quel momento Rose registrò il silenzio –
troppo, troppo silenzio. Perfino i topi avevano smesso i loro squittii nervosi.
Scosse la testa e si sistemò l’auricolare con il ricetrasmettitore, ma non
servì a nulla. Il silenzio permaneva, lugubre e marcente, oltre i battiti del
proprio cuore in fermento.
– Niente – stabilì.
John annuì senza avere l’aria sorpresa, quasi se lo
aspettasse; inghiottì e sfregò le mani tra loro. – Bene. Cioè, no male. Abbiamo
ufficialmente un problema. –
- Da quando in qua ufficializzi i problemi? –
- Da adesso. Ora ubbidisci. Spegni la luce, dammi
la mano e preparati a correre. –
- Correre? – ripeté Rose, stralunata. Pensava al
volume dell’acqua che nel frattempo era aumentato in modo esponenziale.
John prese nota di tutto con uno sguardo circolare.
Nel mentre sentirono un verso, né umano né animale,
semplicemente di predatore. Il silenzio venne inghiottito da quell’urlo che le
pareti amplificarono, rimandandoglielo vicinissimo, quasi provenisse da dietro
l’angolo.
Rose deglutì. Spense la torcia e nel buio cercò a
tentoni la mano di John che gliela strinse con ruvida gentilezza, in una presa
che voleva infondere tranquillità.
Lo vide accendersi di entusiasmo come un fiammifero
nella notte. L’attimo dopo si ritrovò a sorridere con lui, mentre si gettavano
in una fuga precipitosa nei canali di scarico.
Lo sentiva ridere e fremere accanto a lei, esaltato
come un bambino la mattina di Natale; raccontarle di una volta che aveva corso
così, al buio, con il diavolo alle calcagna o di un’altra ancora in cui si era
nascosto nelle fogne di una città medievale perché una folla inferocita l’aveva
inseguito, brandendo torce e picconi, credendolo un mostro stregato e poi di
nuovo fermarsi a metà storia, correggersi e dirle che no, accidenti, quello era
Frankenstein e aveva mescolato le cose.
Rose avvertiva la presenza della creatura: si
muoveva, trascinandosi e appendendosi alle pareti per far leva in avanti con la
massa troppo pesante che era il suo corpo vermiforme.
Emetteva un suono acuto, prolungato, simile a un
risucchio da maelstrom o al rumore di un tritarifiuti rotto, intervallato a un
altro stridente, di unghie o artigli a rigare le pareti di pietra.
John scoppiò in una risata ululante. La creatura
dietro di loro protestò con un verso di rabbia agghiacciante.
- Potresti dirmi cosa ci trovi di divertente? –
inveì Rose.
- Rose, guardati intorno! – rispose lui, concitato.
- Siamo intrappolati nelle fogne e un Hirudinea* ci insegue per trasformare i
nostri corpi in contenitori per i suoi piccoli. Non mi era mai successo prima!
–
- Er… ripeti la parte dei contenitori! - gridò di
rimando. – Quella cosa vuole mangiarci? –
- Solo per svuotarci di tutta questa carne. I
piccoli hanno bisogno di spazio e gli organi sono inutili ingombri. – Lo spiegò
spigliatamente, come se essere scarnificato fosse un’eventualità del tutto
ragionevole.
- Io voglio tenermi i miei inutili ingombri! Ne ho
ancora bisogno! –
John rise. – Bene allora, Allons-y! – La prese per
il gomito e la spinse in una galleria laterale, più stretta di quanto Rose
avrebbe voluto.
Continuò a borbottare che era una pessima, pessima
idea quella di infilarsi in un buco del genere finché non si fermarono per
riprendere fiato, dopo aver controllato che la creatura li avesse superati.
Rose sentiva male al petto e fitte, non proprio
lancinanti ma quasi, su per il fianco destro.
John si gettò indietro i capelli bagnati da Dio
solo sapeva cosa. – Hai con te la capsula di contenimento? –
- Non chiamarla in quel modo. Sai che Veda lo odia.
– Rose fece una smorfia e tirò fuori dalla tasca del giaccone una delle ultime
scoperte del Torchwood.
Grande quanto un palmare, sottile e di un argento
traslucido, il S.I.R.E. si illuminò quando lei premette il pulsante di
accensione, inserì il codice operativo d’identificazione e poi altri tre numeri
sulla tastiera che comparve in risposta.
- Modalità 147. Da utilizzare in caso di fuga ed
estrema necessità. –
La voce severa
di Veda e l’ologramma del suo volto scontroso e pallido riempì lo spazio
minuscolo. - Lo sa la Regina che il mio culo non si muoverà dalla Base prima di
sei mesi, sempre che un branco di idioti a caso non finisca la riserva di
energia prima di allora e sì, John Smith, parlo di te. – I suoi occhi li
trapassarono, rendendo verosimile l’impressione sbagliata che potesse vederli,
cosa impossibile, trattandosi appunto di una registrazione standard. - La
modalità 147 – proseguì, quindi, professionale e strascicando le parole, -
permette di usufruire di un collegamento interspazio che –
Rose non le lasciò completare la spiegazione
tecnica. Premette un’altra sequenza di numeri.
- Modalità 63 - annunciò annoiato l’ologramma-Veda.
- Contenitore biotermico. Il S.I.R.E. si avvale di un sistema di localizzazione
a lungo raggio. Una volta imprigionata, la creatura si ritrova sospesa in uno
stato di criogene o morte apparente, schermata da intercettazioni esterne o
eventuali. -
Rose si morse il labbro con aria dubbiosa. – Quanto
sarà grande? Otto o nove metri? Credi che il sistema di imprigionamento
resisterà? –
John le prese il S.I.R.E. dalle mani, senza
risponderle. Lo tenne sul palmo della destra mentre con la sinistra tirava
fuori qualcosa dalla tasca interna del soprabito.
Quando brandì un cacciavite che non era sonico,
Rose serrò le mani dietro la schiena con forza, senza farsi vedere. – Cosa hai intenzione di fare? –
- Potenziarlo è fuori discussione. Ricordi Bombay?
– L’attimo dopo, con un sorriso da furfante e le sopracciglia corrugate, lui
aveva già aperto il pannello di
rivestimento sul retro e stava facendo qualcosa al groviglio di cavi al
di sotto.
- Ma se faccio questo – un forte odore di bruciato
si levò dall’apparecchio – e apportando qualche modifica senza andare a
intaccare i circuiti di supporto – scintille blu dai fili rosso e verderame –
suppongo che dovrebbe tenere. –
- Veda ti ucciderà. –
John arricciò il naso e accigliò la fronte,
riflettendoci su, poi ciondolò la testa da un lato all’altro, distendendo i
muscoli del viso mentre veniva a patti con l’indiscussa verità contenuta in
quanto lei aveva detto.
– Sì, è probabile – concordò. Appariva fin troppo
allegro per essere qualcuno che sapeva che c’era una donna infuriata pronta a
mandarlo al patibolo. Le ripassò il S.I.R.E. – Fossi in te non lo rimetterei
dove lo tenevi. Sai com’è… - si strinse nelle spalle e ricacciò le mani in
tasca - per sicurezza. –
- Dunque… - Rose si massaggiò le tempie e cercò di
riordinare le idee. - Prima occupiamoci del mostro e poi del portale. –
- Non è un mostro! – John roteò gli occhi, con
cipiglio risentito. - È un Hirudinea! Se ti sembra così irritata, prova tu a
partorire un milione di Hirudineani e poi a doverli sfamare. –
- Quel mostro sta tentando di trasformarci in
culle! –
- E’ quello che ogni buona madre farebbe. Chiedilo
a Jackie. –
Rose gli lanciò un’occhiataccia. – Perché ogni
volta che parliamo di psicopatiche madri aliene, tu tiri in ballo mia madre? –
- Io non tiro in ballo Jackie, ma devi ammettere
che, se anche lo facessi, non mi discosterei dall’argomento in discussione.
Jackie è una psicotica madre aliena.
–
- È della mia psicopatica madre aliena che stai
parlando. – Rose gli puntò l’indice contro lo sparato della giacca. - Un po’ di
rispetto. –
Lui si curvò in avanti, portando gli occhi ad un
soffio dai suoi. Scintillavano come quelli di un gatto, di malizia e
qualcos’altro. - Proprio per questo ha tutto il mio rispetto, Rose. – Per un
attimo parve che volesse aggiungere altro, ma ci ripensò. Mentre si raddrizzava
le rivolse un sorriso sbilenco.
- Tuttavia quanto ha contribuito a creare non muta
la persona che è il resto del tempo. –
La loro ideale via di fuga si era rivelata un
vicolo cieco e attenendosi alle fosche prospettive di Rose, si sarebbe presto
trasformato nel potenziale luogo che avrebbe visto la loro potenziale morte per
annegamento.
Impossibilitati nel tornare indietro, l’unica
soluzione era stata quella di procedere, le pareti sempre più incombenti, il
passaggio che si rimpiccioliva come il corridoio di una casa hobbit.
Ora erano fermi, bloccati da una ventola di
areazione protetta da cinque sbarre arrugginite che John si stava divertendo a
tentare di fondere, senza troppo successo al momento. Avevano i minuti contati.
Secondo il calcolo approssimativo di John un quarto d’ora prima che l’acqua
inondasse il tunnel e li sommergesse.
Clandestina
interdimensionale Rose Tyler muore annegata in una fogna.
Schiena contro il muro e torcia alla mano per
fargli luce, Rose non riuscì a stare a lungo a bocca chiusa.
- Tutto questo fa molto Harry Potter e la Camera dei Segreti. –
John sollevò le sopracciglia, sorpreso tanto dal
rimando quanto dal fatto che gli avesse rivolto la parola.
Rose rise. Era piacevole per una volta essere lei a
sorprenderlo e non il contrario. – Quante cose non sai di me! -
Il sorriso sfumò mentre John la guardava in un modo
che le chiuse lo stomaco.
– Sono tante – ammise. Con il cacciavite continuava
a fondere l’acciaio delle sbarre. Ne staccò una finalmente e cominciò a
lavorare sulla successiva. – Ad esempio non so con certezza come mi avresti
risposto prima. Non lo so, ma posso immaginarlo. Non so quasi mai cosa pensi,
ma quasi sempre cosa provi. Lo leggo qui. - Allungò una mano e le sfiorò le
palpebre con la punta dei polpastrelli, con dolcezza. - Occhi che hanno visto
l’intero arco del tempo, in ogni sua curvatura e decorso. –
Mentre le percorreva il contorno degli occhi e
della guancia, le sue dita avevano una delicatezza che sapeva d’incertezza e di
una vaga, dolente malinconia. Quando le lasciò il viso, Rose si sentì
incompleta, come una di quelle statue greche senza naso o braccia, con pezzi di
se stessa dispersi nel tempo e nello spazio.
La scintilla di calore negli occhi di John era
vivida quanto le stelle che tempo addietro un altro le aveva regalato. Sapevano
leggerle dentro quegli occhi, ci erano sempre riusciti. Lo ribadì la facilità
con cui sciolse il groviglio turbato che lei avvertiva all’altezza del petto,
per renderglielo meno opprimente e greve.
– Tu pensi che non è giusto e non lo è. Non è
affatto giusto. – L’ammissione aveva per entrambi il sapore dell’amarezza e
della contrarietà. Lo vide stringere a vuoto la mano, serrarla con violenza
attorno al cacciavite. - Io sono lui. Sento ciò che lui sentiva, ricordo ogni
cosa che ha fatto, ogni persona che ha incontrato, ogni giorno di quelli che
abbiamo trascorso insieme, tu ed io. Nella mente ho il conto di tutte le volte
in cui avrei voluto prenderti per mano e non l’ho fatto e di quelle in cui sono
riuscito a spuntarla contro il vecchio codardo che sono. Rimango lui, ma anche
se non lo fossi, se fossi un uomo diverso, un uomo che non è mai stato in parte
Signore del Tempo, un uomo qualsiasi che ti è capitato di incontrare per
strada, che è rimasto incantato dal tuo sorriso e che ti ha raccontato un
mucchio di sciocchezze con l’unico scopo di sentirti ridere di nuovo… Se anche fossi quell’uomo, Rose, ti amerei lo
stesso come ti amo. Non esistono limiti di tempo o spazio che potrebbero
impedirmelo e non occorre certo essere lui
per innamorarsi di te. Rose Tyler -
prese un respiro profondo, vibrante - se esiste qualcosa di giusto in tutto
questo, se c’è, è ciò che provo per te. –
Spalancò le braccia come se volesse circoscrivere
l’intero spazio del mondo tra le sue. Rose sapeva che avrebbero potuto
contenerlo davvero. Tutto il tempo e tutto lo spazio, tutti i mondi possibili e
immaginabili, quelli conosciuti e quelli che ancora andavano scoperti.
Per un secondo le sovvenne il ricordo di altri
abbracci, quando un viaggio era un viaggio, un amore un amore, la vita facile e
felice, senza pensieri complicati. Tuffarsi a testa bassa tra quelle braccia
spalancate e fiduciose, che attendevano solo lei e che sapevano così poco di
gabbia e così tanto di casa, di libertà, era stato talmente semplice. Sarebbe
potuto tornare ad esserlo di nuovo.
Non
era facile. Amare due persone non era facile per niente, non c’erano scorciatoie
o strade comode da imboccare. Erano scelte da prendere ogni giorno, tutti i
giorni. Decidere ogni volta di sorvolare, trascurare piccoli particolari,
sottigliezze minuscole. Guarire daccapo le ferite aperte al mattino e
leccarsele la sera di nascosto, al riparo dagli occhi di lui, troppo impegnati
a scrutare con aria tormentata e trasognata le stelle distanti e perdute. Per
colpa sua, di lei che vi era stata preferita.
John continuava a guardarla e quell’espressione,
come se avessero avuto tutto il tempo dell’Universo a loro disposizione, come
se non ci fosse nulla di più importante di lei, nulla che gli interessasse,
Rose la conosceva bene per averla vista su un volto identico al suo, tempo
addietro.
Una storia diversa, una ragazza diversa.
Quella era proprietà del Dottore eppure era anche
di John, ogni giorno apparteneva un po’ meno al primo e un po’ di più al
secondo.
John Smith, sempre più umano, alieno in aspetti che
niente avrebbe mai mutato, non aveva un cacciavite sonico e i suoi capelli non
avevano superpoteri di fissaggio spaziale.
John era umano dalla testa ai piedi. Quando aveva
freddo si infilava l’orribile maglione che Jackie gli aveva regalato per
Natale, solo perché sapeva di essere ridicolo e che lei avrebbe riso. John
amava correre al mattino presto, nella sua tuta da ginnastica, lungo il Tamigi
prima che albeggiasse. Amava portarle la colazione a letto e riempire le
lenzuola di briciole. Amava le
scampagnate, la musica da camera, i pranzi al sacco, i calzettoni di lana da
vecchietto, le caramelle gommose, le Harvey, i biscotti della fortuna inzuppati
nel tè nero, lo smoking e i concerti all’aperto. Amava lei.
E lei, lei come avrebbe potuto non amarlo?
Si è
felici fin quando non ci si rende conto di esserlo,
pensò con angoscia. Stava commettendo lo stesso errore? Chiuse gli occhi e si
sforzò di contare fino a dieci per non piangere, le lacrime che pungevano
contro le ciglia, pronte a fuoriuscire. Al tre gli era già volata addosso.
Schiacciò il viso contro la sua giacca e le braccia di John la avvolsero con
forza, la sua bocca le sfiorò la tempia, mormorandole parole confortanti.
Dopo un po’, Rose emise un verso a metà tra un
singhiozzo e uno sbuffo. – Signor Intempestivo… dovrei chiamarti così. Non
avresti potuto scegliere un momento peggiore. Potremmo venire sommersi da un
momento all’altro. –
- Sì, potremmo - convenne lui, le baciò gli occhi
chiusi e il naso e lei sollevò il viso per agevolarlo. – Credimi se ti dico che
non me ne importerebbe un Waqf*. -
- Un cosa? –
- È un modo per dire che non me ne importa molto. –
- E come si dice “Muovi il culo a salvarci la
pelle”? –
Con una risata, John si scostò a malincuore e tornò
al lavoro, intanto che Rose ridacchiava, non facendo più caso a tante cose che
prima le erano state disperatamente insopportabili.
Alla fine scapparono per un soffio, riuscirono a
trovare l’Hirudinea, o meglio l’Hirudinea riuscì a trovare loro e per sbaglio
inghiottì il S.I.R.E. impostato in modalità imprigionamento che, a causa delle
modifiche apportate da John, saltò in aria nel momento sbagliato addosso al
corpo giusto, creando un’enorme onda d’urto che rovesciò su di loro quanto riempiva
il canale, facendo rimpiangere a Rose di avere mangiato tutte quelle patatine a
pranzo.
Ricoperta di melma, con resti flaccidi di viscere
ed epidermide violacea tra i capelli, lei e John attraversarono il portale che
li avrebbe riportati a casa con l’ormai andato S.I.R.E., miracolato per il
tempo necessario al trasferimento. Mossero un passo in avanti per il Salto, per
ricomparire l’istante successivo nel laboratorio del Torchwood di Londra.
Dietro il paravento della cabina che li conteneva,
Rose strizzò gli occhi per la nausea e lo stordimento provocati dalla
dislocazione.
Aldilà del vetro, la luce a neon dell’enorme sala
di ricerca era accecante, il bianco delle pareti, il grigio dei macchinari e
l’arcobaleno degli schermi dei computer risultavano troppo intensi, ferivano
gli occhi. Una volta accertato che non fossero radioattivi e dopo essere stati
scannerizzati per verificare che non avessero addosso tracce di agenti
inquinanti, secondo la procedura di rientro, a lei e John fu permesso di uscire
dal quadrante di anticontaminazione.
Nel gruppo di agenti in divisa e tecnici in camice
da laboratorio, dietro il bancone di comando e controllo che monitorava la
situazione globale al centro dell’enorme sala sotterranea, una in particolare
calamitava l’attenzione. Smilza e non troppo alta, con scuri capelli ricci e
uno sguardo insondabile capace di ghiacciare sul posto, che emanava autorità e
senso pratico.
- Agenti Smith e Tyler a rapporto - emise
lugubremente Rose quando le furono di fronte.
La donna, occhi neri come quelli di un avvoltoio,
gonna ampia e un paio di Dr Martens, rivolse loro un sorriso di fiele non
appena John le consegnò il più che provato S.I.R.E..
– Eccolo come nuovo - ebbe la faccia tosta di dirle
e lo lasciò cadere nel raccoglitore che lei gli aveva messo sotto al naso.
- Come nuovo. –
Veda, dopo una breve occhiata al fondo, verso i
resti irriconoscibili del Sistema Indicativo e Rapporto Estemporaneo creato per
gli agenti in missione di livello A-C, strizzò pericolosamente gli occhi. Aveva
un tic alla bocca, macinava i denti.
Rose sospirò. - Posso spiegare. –
- Non vedo come. Dieci S.I.R.E. e undici missioni,
dieci S.I.R.E. ridotti a rottame. - La voce dell’altra la freddò, subdolamente
affabile. - I numeri parlano per voi. –
- Dimentichi che nella missione a Bombay venimmo
riforniti sul posto di un secondo apparecchio perché il precedente modello non
aveva resistito al potenziamento che avevo installato – fece notare John
mitemente, spolverando il davanti del soprabito con le nocche.
Le narici di Veda fremettero e il colorito che
assunse fece supporre gravi risucchi gastrici di natura nervosa. - Tutto ciò
che fai, Agente Smith, è mettere alla prova ogni briciolo della mia pazienza.
Fin quando si tratta di incompatibilità elettive, passi, ma quando entra in
gioco un’aberrante e indecorosa mancanza di rispetto per il lavoro altrui, la
mia avversione diventa totale e incondizionata. – Sputò ogni parola con
irritazione, gli occhi che parevano puntaspilli. - Il fatto che tu sia un genio
non ti autorizza a fare quel che fai. Questo è il mio ultimo avvertimento. Un
altro S.I.R.E. e sarai tu stesso a recarti a Bangkok per i rifornimenti. Hai
afferrato il concetto? –
Rose non dovette costringersi in una posa contrita.
Quella scena si ripeteva con tale frequenza che sapeva cosa si sarebbero detti
ancora prima che l’uno o l’altra lo pensassero. Il discorso che i S.I.R.E. non
crescevano sugli alberi non le era nuovo, così come la conclusione di tutta la
manfrina. Quasi le avesse letto nel pensiero Veda spostò l’attenzione da John a
lei. Il fastidio meno carico, ma sempre intenso e collerico.
- E tu, Tyler – riprese, piena di biasimo, - si
suppone che tu funga da freno al tuo partner. Dio onnipotente, non vorrei dover
ripetere quello che è successo a Napoli! Come se quella città non avesse
abbastanza problemi di pubblicità negativa senza aggiungerci anche una
metropolitana allagata. –
- Si è trattato di un incidente - tentò di spiegare
in sua difesa. - Il Vargast minacciava di far esplodere il –
- Gli incidenti di percorso vanno evitati - la
interruppe Veda, senza darsi pena di ascoltare i “ma” e i “perché”. - È dovere
di ogni agente, ma sembra che nel vostro caso una missione in cui non capiti
qualcosa di oltremodo spiacevole si trasformi in una speranza irrealizzabile. –
- Mi dispiace – ribatté Rose, realmente mortificata
e diede una gomitata a John perché facesse lo stesso.
John, che nel frattempo aveva rubato da uno dei
ragazzi addetti alle scartoffie un plico e lo stava leggendo con aria
concentrata, senza alzare lo sguardo dai fogli borbottò soprappensiero: - Sì,
certo, dispiace molto anche a me. –
Veda si massaggiò le tempie, ingoiando una risposta
mordace. – Continueremo questa discussione – avvertì e fece un cenno
sbrigativo, ad intendere che per il momento erano liberi di andare. – Mi
aspetto una relazione dettagliata sul come abbiate distrutto l’ennesimo
S.I.R.E.. Entro martedì mattina. –
Rose guardò sconsolata dietro di lei, verso il
grosso mappamondo in 3D con le zone rosse, gialle e verdi, a seconda della
potenzialità del pericolo e della presenza aliena. Di fianco, un orologio
digitale con i fusi orario.
Le 11, 45. Era il 10 settembre, un venerdì e lei
non si faceva una doccia da tre giorni.
Sentendo di botto tutta la stanchezza piombarle
sulle spalle, salutò Veda e afferrò John per una manica. Lo tirò via e gli
strappò di mano i fogli per restituirli al ragazzo che attendeva vicino alle
porte di accesso con un’espressione divertita. Indossava una maglietta di
Spiderman sotto il camice aperto e aveva i capelli tinti di rosso e blu.
- Rose. John – li salutò e posò il fascicolo che
lei gli porgeva nel carrello, insieme agli altri. - È sempre un piacere
vedervi, ragazzi. Anche quando siete ricoperti di gelatina viola e fango. -
- Al – replicò Rose, senza rimarcare che la
gelatina in questione erano intestini e che il fango... be’, meglio lasciar
stare.
– Alan! – John gli rivolse un sorriso smagliante. –
Come procede quell’esperimento sui ragni radioattivi? –
- Non bene quanto avevo sperato. Credo che non
riuscirò mai a diventare Spiderman. -
- Non desistere. – John gli diede una pacca
amichevole. – Vedrai che il sessantesimo tentativo è quello giusto. –
Il sorriso di Alan si incrinò agli angoli, la voce
prese una nota afflitta. – Per la verità è solo il quarantanovesimo, ma grazie,
John. Un giorno avrò anch’io i superpoteri, puoi giurarci. –
Senza dilungarsi oltre, Rose strisciò la carta
magnetica e imboccò l’uscita. L’unica cosa che desiderava era una doccia e un
letto.
Il mio
regno per un getto d’acqua bollente.
Per i corridoi lei e John incrociarono agenti e
supervisori, delegati e ambasciatori, addetti alla manutenzione e tecnici. I
più si tennero alla larga, intimoriti da qualcosa che Rose doveva avere in
faccia. Forse l’Eau de Hirudinea.
Con le mani ficcate in tasca, la camminata da piede
spaiato e l’espressione di chi ha la testa brulicante di pensieri, John,
qualche passo indietro a lei, rivolgeva sorrisi e cenni distratti a chiunque.
– Così… tu serviresti a farmi da freno? – domandò
d’un tratto. – Davo per scontato che fosse perché insieme facciamo un figurone.
–
Rose non rallentò né si voltò a guardarlo.
– Stiamo insieme perché l’ho chiesto io. –
- Tu? –
- Chi altri credi che riderebbe alle tue battute
scappando da un mostro alieno che cerca di ucciderti? –
- Lindsay alla mensa trova le mie battute
adorabili. –
- Lindsay trova adorabile occhieggiarti il sedere
dopo che ti ha servito la solita coppa di gelato al ribes. –
- Adoro quando diventi gelosa. –
- Io non sono gelosa di Lindsay. –
- Ovvio che no! – esclamò lui, come se la sola idea
lo scandalizzasse. Si strinse nelle spalle con un sorriso furbo. – Parlavo del
gelato al ribes. –
Rose scoppiò a ridere, non poté evitarlo. Il viso
di John si rischiarò come davanti alla pioggia di stelle cadenti nella Notte
delle Lacrime.
Un agente che stava passando loro accanto si fermò
e li seguì con lo sguardo fin quando non svoltarono verso gli ascensori, quasi
la coppia fosse un magnete che lo attraesse inspiegabilmente.
Rimase fermo anche dopo che furono scomparsi oltre
il corridoio, dopo che l’eco delle loro voci sfumò nel silenzio.
Sapeva chi erano, la donna bionda dalla risata
gentile e l’uomo alto con il sorriso da volpe, ma a conti fatti chi alla Base
non conosceva i loro trascorsi e le vicende che ce li avevano portati? Rose
Tyler e John Smith. La ragazza di un altro mondo e L’uomo dalle dieci vite. Li
stimava, perché tutti lì dentro volevano essere eroi, ma loro erano tra i pochi
che non lo cercavano e neppure lo desideravano. Erano eroi, ma non se ne
riconoscevano il merito.
Hector pensò che tra tante altre cose - il
prestigio, la gloria, il coraggio - non era quello
che invidiava loro. Erano i sorrisi che si erano scambiati, la luce di
complicità e intesa, la serena integrità, ma sopra tutto quello che lasciavano
trapelare, quanto c’era lì fuori, sopra e attorno a loro, nel mondo. L’umanità
più vera, reale, autentica: sentimenti antichi come la maestosità inspirata da
certi monumenti vecchi millenni, radicati e saldi come la gratitudine dei
sopravissuti, sconfinati come i cieli pullulanti di vita sopra i grattacieli
della City.
I loro occhi raccontavano una storia senza tempo,
passato e presente e futuro a mescolarsi in una danza frenetica e febbrile,
vecchia come l’inizio di tutto e persino di più, più vecchia degli oceani e
della crosta terrestre, delle montagne e delle nuvole, della stessa creazione;
nuova come la risata dei bambini, una musica appena concepita, un fiore che
sboccia per la prima volta. Una storia di guerra sì, ma anche di speranza.
Invidiava loro tutto quello, li invidiava davvero.
N/a:
Sinceramente non so cosa dire, tranne che temo
risulti di un OOC stomachevole e illeggibile T__T E la fine fa molto Stargate :D
Per quanto riguarda il resto, stava lì a macerare,
povero cuore, da mesi, credo da quest’estate, se la stanchezza non mi confonde.
L’ho ripescato dalla cartella delle
Incomplete/Difficiles nugae (cretinate difficili, Marziale docet) e mi sono
detta: O la va o la spacca. Quindi siate pure critici, esponete le vostre
perplessità e non fatevi scrupoli a sottolineare quanto tutto ciò sia tremendo
e senza reale senso. Ci rimarrò male perché anche se predico razzolo male xD,
ma dopo mi farò una risata insieme a voi ;)
Un abbraccio cosmico a tutti i companion nel cuore.
* Hirudinea: nome scientifico della sanguisuga