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Autore: Macaron    23/01/2014    9 recensioni
“Sherlock, chi è Redbeard?”
“Ti ho sentito, John. Ti avevo sentito anche la prima volta che me l’avevi chiesto, non sono diventato sordo quello in realtà sta succedendo a te invecchiando, ho solo scelto di non risponderti.” E così dicendo fa per alzarsi e andare a concentrarsi su un qualche esperimento in cucina.
Lo so che hai scelto di non rispondermi, vorrebbe dirgli John, quello che non so è come fare a farti parlare di nuovo con me come prima. Quello che non so è come passare da questa domanda a noi due che ridiamo sul divano. Eravamo capaci di farlo prima, era la cosa che ci veniva meglio prima e adesso non so come fare a smettere di camminare sulle uova. Come fare a chiederti scusa. Come renderlo di nuovo facile.

Di racconti sui pirati e gli investigatori, cani che sono i tuoi assistenti e quando non sai come riuscire a dire a qualcuno che è la tua casa. E che vorresti solo tornare a casa.
Post His last vow.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note dell’autrice: ambientata dopo la fine della terza stagione perché le persone normali reagiscono a quel finale con l’angst e trattando malissimo John mentre io reagisco con le coccoline e il fluff. Penso sia una tara da cui non posso scappare.

 

A Monica perché mi ha regalato porn in cambio di coccoline e il suo porn era dannatamente buono quindi spero che le mie coccoline siano all’altezza.

 

 

 

 

 

 

 

Centoquarantadue giorni dopo la prima notte in cui Olivia1 non bagna il letto John Watson impacchetta e le sue cose ed abbandona il tetto coniugale. Non è un gesto impulsivo, non c’è niente di drammatico in quell’azione si escludono le cose più ovvie come la fine di un progetto, la distruzione di un sogno d’amore. Tutto è pensato e razionale in quell’azione. Non ci sono urla, non ci sono lacrime, non ci sono mogli che gettano vestiti dalla finestra come in una pessima telenovela messicana, è semplicemente la conseguenza di un processo iniziato più di cinque anni prima in un ufficio su un grattacielo con una pistola e il suo migliore amico al suolo sanguinante. Da certe azioni non si torna indietro, da certe rotture non si può scappare e non importano tutte le chiavette che lancerai nel fuoco, nulla potrà mai riaggiustare una mancanza del genere, nulla potrà mai curare un rapporto dove non sai nemmeno il nome di tua moglie e l’unica cosa che vedi quando la guardi è il sangue di Sherlock sotto le tue dita.

No non è vero, nei cinque anni di matrimonio ogni volta che ha guardato sua moglie John ha visto moltissime cose, alcune delle quali l’hanno innervosito, altre che gli hanno fatto dire a se stesso “Ancora sei mesi, diamoci ancora sei mesi”, alcune che l’hanno fatto sentire ancora innamorato ma il sangue di Sherlock, quello l’ha visto ogni giorno. E certe ferite non si possono curare.

Se dovesse essere sincero non rinnegherebbe totalmente quei cinque anni. Non sono stati anni completamente buttati, per niente. Se dovesse mettersi seduto alla sua poltrona, chissà se c’è ancora da qualche parte, con un simbolico album di fotografie e di ricordi da sfogliare tanti sarebbero gradevoli. Non potrebbe essere altrimenti quando sposi una donna che ti piace e di cui sei innamorato ma questo non è mai sufficiente. Nelle prime settimane dopo la riappacificazione si è convinto di aver scelto di rimanere con Mary per proteggere sua figlia, perché il fatto di aver rinunciato a sapere qualcosa del passato di sua moglie non lo rende meno responsabile del futuro della bambina che lei porta in grembo. Perché in quella chiavetta che ha buttato nel caminetto ci possono essere tante cose e non è sicuro che Mary sia stata capace di lasciarsele tutte alle spalle per fare la madre e lui deve essere in grado di garantirlo. La verità è che non ha mai davvero avuto paura che Mary potesse fare qualcosa a sua figlia, anche se qualche dubbio sulle precedenti conoscenze della moglie gli ha attraversato la mente, ma è stato più facile crogiolarsi in questo pensiero che ammettere di essere troppo stanco per prendere una decisione, per sentirsi ancora in colpa, per sentirsi quello cattivo che lascia la sua famiglia. Solo che a un certo punto smetti di sentirti in colpa, smetti di vederti come il cattivo, smetti di farti andare bene dei momenti piacevoli costruiti su un castello di menzogne (non sa nemmeno il suo nome, ha scelto di rimanere sposato con una donna di cui non sa nemmeno il nome) e allora quello che hai non ti sembra più valere tutto quello a cui rinunciato. Allora ogni volta che guardi tua moglie non riesci più a vedere qualcosa di più del tuo migliore amico che quasi muore tra le tue braccia e non hai alternative a impacchettare le tue cose e provare a ricominciare da capo. Non ci sono urla, non ci sono pianti, non ci sono frasi ad effetto; Mary non si getta tra le sue braccia implorandolo di ripensarci, è troppo intelligente per farlo, è sempre stata un passo avanti a lui, è sempre stata in grado di leggerlo benissimo. Non è mai stata in grado di amarlo nel modo giusto ma questo è un altro discorso ed è lo stesso che li porta in ingresso con degli scatoloni e una lista di numeri a cui rintracciarlo, di giorni in cui vedere la figlia e poco altro.

Centoquarantadue giorni dopo la prima notte in cui Olivia non fa la pipì a letto John Watson impacchetta le sue cose e anche se sa dove vorrebbe andare non sa se può andarci.

 

 

 

 

 

 

Non è che le cose con Sherlock siano peggiorate in questi cinque anni, non è che il loro rapporto sia finito, che la loro amicizia si sia davvero incrinata perché certi rapporti semplicemente sopravvivono ad ogni cosa. Non è quello, è che le cose sono cambiate. Ha passato settimane a ripetere a chiunque che no non sarebbe cambiato proprio niente, che si stava solo sposando e come diavolo poteva questo influenzare un’amicizia?, e poi tutto è cambiato. Sherlock ha fatto quel voto, ha fatto quel giuramento davanti a tutti gli invitati il giorno del suo matrimonio (e John ogni tanto si chiede se non sia stato quello l’unico voto nuziale sincero di quella giornata, se lo chiede e poi scaccia l’unica risposta che gli viene alla mente), poi ha ucciso un uomo per salvare la sua felicità, John ha avuto una bambina con gli stessi occhi di Mary, e che non riesce a non ricordargli le colpe della madre, e le cose sono diventate più complicate. Non è che si siano davvero allontanati. Non ha più fatto passare un mese senza sentirlo. È stato sveglio quaranta ore filate nel periodo in cui Olivia ha messo i dentini e poi ha comunque trovato il tempo per andare a Baker Street a portargli del cibo cinese perché è fin troppo consapevole di non poter fare a meno della presenza di Sherlock nella sua vita e di non avere davvero alternative. Ha continuato ad andare con lui sui casi, quelli più tranquilli ed ogni tanto si è chiesto se Sherlock non si sia trovato ad accettare anche casi da cinque solo per portarlo con lui senza farlo sentire un padre degenere che rischia la vita solo per divertimento. Ci sono state una serie di sgradevoli cene tutti insieme in cui Mary e Sherlock sono andati d’accordo, vanno straordinariamente d’accordo considerando che i loro trascorsi implicano sangue, pistole e tentati omicidi, e qualche occasionale abbraccio di sua figlia verso il suo migliore amico a cui ovviamente piace perché Olivia è una Watson e sembra che tutti i Watson siano progettati per innamorarsi perdutamente di Sherlock Holmes. Ci sono state tutte queste cose che generalmente indicano che un’amicizia va benissimo ma è come se tutto il non detto del loro rapporto sia anche diventato gigantesco. C’è sempre stato in realtà, il loro rapporto è sempre stato poco parlato, molto sussurrato e molto basato su sguardi, su stupide battute che nascondono un mondo di sentimenti ma sembra che dopo il matrimonio, il voto e l’omicidio questo non detto sia diventato qualcosa di schiacciante. È come se tutte le cose che non hanno mai avuto il coraggio di dirsi, come se tutte le conversazioni che non hanno mai fatto si siano insinuate nel loro rapporto e li portino a camminare sulle uova. Non è che le cose siano peggiorate, è solo che sono più difficili. È solo che quando esce dall’appartamento con le sue cose impacchettate c’è un solo posto dove John vorrebbe andare ma non sa se può farlo, non sa se è ancora all’altezza di quella casa, non sa se ha ancora il diritto di sedersi su quella poltrona. È solo che quando esce dall’appartamento con le sue cose impacchettate John vorrebbe solo poter suonare un certo campanello ma non sa se si può fare, non sa se esistono parole per dire a una persona che è la tua casa e che l’unica cosa che hai aspettato in questi cinque anni è di poter dire “Sono tornato”. Non possono esistere parole che raccontino un sentimento del genere, che raccontino il loro sentimento, la loro storia. Non le hanno mai inventate e anche se ci fossero lui non sarebbe all’altezza di dirle, non senza impappinarsi, non senza scappare e rivolgere tutto allo scherzo, così prende le sue cose non dice niente e porta tutto in una pensione perché è la strada più facile e perché l’altra strada non sa se può ancora percorrerla.

È arrivato alla pensione da meno di due ore e non ha nemmeno fatto in tempo a sistemare i suoi vestiti e mettersi a guardare qualche sito di annunci immobiliari, perché non è un genio ma sicuramente non ha intenzione di rimanere a vivere lì per più del necessario (ha già scontato anche troppo le sue colpe) che il cellulare vibra.

Torna a casa John. SH

Abbiamo (abbiamo, noi. Noi. Noi. Di nuovo. Lo merito? Merito un noi?) finito l’acquaragia. SH

La tua poltrona è tornata al suo posto. SH

 

 

 

 

 

Vorrebbe poter dire che le cose vanno naturalmente a posto dopo quel messaggio, che tutto diventa improvvisamente facile ma non è così. Del resto non ci aveva mai nemmeno razionalmente sperato. Le cose s’inseriscono in un certo binario, rientrano in una quotidianità che è però così distante a quella dei primi tempi a Baker Street. A quanto pare il fatto di essere fondamentali l’uno per la vita dell’altro non implica sempre che la rendano migliore. Non cancellano le cose. Non puoi cancellare due anni in cui il tuo migliore amico si è finto morto, come non puoi cancellare il momento in cui tua moglie ti spara (e lui ti dice di perdonarla e tu rimani con lei, abbandonandolo come lui ha fatto prima con te) solo perché non riesci a fare a meno d’averlo nella tua vita. Il fatto di essere indispensabili l’uno per l’altro non è sempre divertente, non è sempre facile. È solo imprescindibile. John sa benissimo di non poter vivere senza Sherlock e sa (ci ha messo mesi per rendersene conto, dopo essersi sentito inutile e insignificante) che per Sherlock è lo stesso. Sa che non possono scappare da questo legame ma questo non vuol dire che sia facile conviverci.

Stabiliscono una routine, una quotidianità che non ha nulla a che fare con quella che avevano prima, quella che odorava di famiglia, di colazioni lasciate freddare perché sei troppo concentrato ad ascoltare la persona più importante della tua vita che ti racconta la proliferazione di dei particolari batteri all’interno della tasca della tua giacca, di pessimi programmi televisivi, olio per pistola, corse a perdifiato e casa. La nuova routine è fatta di casi, come prima, di corse in giro per Londra, come prima, e take away lasciati a raffreddare ai piedi del divano, come prima. Solo che è anche fatta di silenzi, non più rassicuranti ma imbarazzati, di cellulari che squillano ed è tua moglie che ti chiede di andare a prendere la bambina all’asilo perché c’è qualche problema al lavoro e lei non può muoversi, di migliori amici che non ti mandano un sms per chiederti di raggiungerli su un particolare appostamento. Non è che abbiano smesso di stare bene insieme, è che hanno dimenticato come farlo liberamente. Così ci sono giornate in cui John si vede costretto ad accettare un turno extra al lavoro perché non vuole tornare a casa e sentirsi non gradito ma poi si ritrova a pensare a una scusa stupida per andare a prendere il take away thailandese per entrambi (un tempo non ci sarebbe stato bisogno di scuse, un tempo avresti potuto farlo semplicemente dicendogli che mangia troppo poco e deve nutrirsi ma ti senti come se avessi perso quel diritto, come se non ti fosse più concesso e non riesce a smettere di pensarci). Scrive ancora dei loro casi insieme e si ritrova a controllare più spesso se ci sono commenti, quasi come se fosse una sedicenne alla prima cotta, come se fosse innamorato. Non è che non lo sia, ovviamente. Ci ha messo anni a fare pace con i suoi sentimenti verso Sherlock. Ci ha litigato nei due anni di lutto, ci ha litigato quando ha conosciuto Mary e per la prima volta ha pensato “Sto andando avanti” come se una nuova fidanzata fosse qualcosa di collegabile alla morte di un migliore amico e non invece di un fidanzato. Ci è sceso a patti nei mesi successivi al matrimonio, nei mesi a Baker Street prima di tornare a vivere con la moglie e poi in tutti quei cinque anni quando ha visto sgretolarsi davanti ai suoi occhi uno dei rapporti fondamentali della sua vita e non ha sentito niente, niente oltre al desiderio di tornare finalmente a casa. Quindi non è questione di essere una ragazzina innamorata, è innamorato, è sempre stato innamorato di Sherlock e contro questo sentimento non ha mai avuto una possibilità che fosse una, ma è davvero qualcosa di più. È che Sherlock è la sua casa, la sua famiglia, è quello che l’ha salvato e che non è riuscito a salvare. È qualcosa che prescinde e non riuscire a far funzionare quel rapporto lo destabilizza più della fine del suo matrimonio.

La sera quando rimane nel suo vecchio appartamento perché Mary è uscita con un’amica (non porta mai la bambina a Baker Street, non ci riesce) per far addormentare sua figlia le racconta le storie di un grande pirata e del suo sciocco mozzo, oppure di un grande investigatore e del suo fido assistente. Olivia nel dormiveglia ripete “Ancora un’altra papà” e lui non rifiuta mai perché ha bisogno di raccontare quelle storie, perché ha bisogno di raccontare una realtà in cui le cose tra lui e Sherlock sono facili e funzionano, in cui può ancora salvarlo da un pirata come lui l’ha salvato da se stesso.

 

 

 

 

 

“Sherlock, chi è Redbeard?”

La prima volta che glielo chiede sono in ospedale, durante il terzo giorno di degenza di Sherlock, in uno dei rari momenti di veglia.

“Mh?”
“Chi è Redbeard? Se si esclude il nome di mia moglie, di cui parleremo prima o poi, è stato uno dei primi nomi che hai fatto. Ancora prima di arrivare in ospedale, quando eri sul pavimento dell’ufficio di Magnussen mi è sembrato di sentirtelo sussurrare. Quindi chi è Redbeard?”

“Un imperatore? Un pirata?”

“Un imperatore? Ma per quale motivo avresti dovuto pronunciare il nome di un imperatore?”

“Se il tuo cervellino così sottosviluppato non ci arriva non posso certo sprecare tutte le mie forze, che sto faticosamente riconquistando ingurgitando un quantitativo folle di cibo ospedaliero, per spiegartelo” e dicendo questo allontana tutte le altre noiose domande con la mano e John è troppo felice di sentire che può ancora parlargli, che è ancora capace di comportarsi da stronzo supponente per obiettare in qualche modo.

Glielo chiede di nuovo durante i mesi a Baker Street, quando Sherlock gli comunica che passerà la giornata di Natale a casa della sua famiglia con lui (non glielo chiede, sia chiaro, gli comunica che ci sarà e non riesce a non fargli piacere).

“Chi è Redbeard, Sherlock? Un tuo parente?”

“Un mio parente, John? Pensi che ci sia un mio zio con questo nome? Seriamente? Redbeard Holmes? Inizio a temere che ti si sia definitivamente bruciato l’ultimo neurone.”

“Tuo fratello si chiama Mycroft, il tuo nome è Sherlock, nella tua famiglia siete avvezzi ai nomi particolari. È una domanda legittima!”

Sherlock scoppia a ridere.

“E’ una domanda legittima! Poteva starci!”

Ok forse questo non è il suo momento migliore ma è bello anche quello, anche solo essere preso in giro da Sherlock Holmes e poter dimenticare fuori di casa il resto della tua vita. È bello anche essere un idiota se puoi essere un idiota accanto a Sherlock Holmes.

Sherlock si mette ad elencare tutti i serial killer dai nomi improbabili al fine di dimostrare quanto John sia un idiota e poi finiscono a cercare su internet gli alberi genealogici di tutto lo Yard. Sherlock ripete a memoria il nome di ogni parente di Lestrade ma arrivato a lui lo chiama Gordon. John ride così tanto da rovesciarsi del pollo al curry sul maglione e Sherlock si propone di bruciarlo invece di lavarlo (John si chiede cosa proverebbe a farsi spogliare da Sherlock e scaccia via quel pensiero). La domanda originale viene completamente dimenticata.

La terza volta che chiede qualcosa a Sherlock riguardo a Redbeard sono ancora al 221B di Baker street quasi sei mesi dopo il suo ritorno a casa dopo il divorzio.

Sherlock è sdraiato sul divano con una vestaglia che John non ricorda, che è arrivata nel periodo in cui lui non c’era e che odia perché lo fa sentire distante da un pezzo della sua vita, e lui è impegnato a scribacchiare qualcosa sul blog quando il pensiero gli attraversa la mente.

“Sherlock, chi è Redbeard?”

Il suo migliore amico si stiracchia leggermente sul divano e sceglie d’ignorarlo.

“Sherlock, chi è Redbeard?”

“Ti ho sentito, John. Ti avevo sentito anche la prima volta che me l’avevi chiesto, non sono diventato sordo quello in realtà sta succedendo a te invecchiando, ho solo scelto di non risponderti.” E così dicendo fa per alzarsi e andare a concentrarsi su un qualche esperimento in cucina.

Lo so che hai scelto di non rispondermi, vorrebbe dirgli John, quello che non so è come fare a farti parlare di nuovo con me come prima. Quello che non so è come passare da questa domanda a noi due che ridiamo sul divano. Eravamo capaci di farlo prima, era la cosa che ci veniva meglio prima e adesso non so come fare a smettere di camminare sulle uova. Come fare a chiederti scusa. Come renderlo di nuovo facile.

Sherlock si ritira in cucina con un suo esperimento e John si sdraia sul divano. Non sa nemmeno perché lo stia facendo, è che gli sembra la cosa più vicina a un contatto con lui in quel momento.

È in una sorta di dormiveglia, fatto di ricordi di casi che si sovrappongono a immagini al momento irrealizzabili, quando sente il divano piegarsi sotto un peso e la voce di Sherlock che irrompe nei suoi pensieri.

“Un cane.”

“Cosa?”

“Redbeard, John. Me l’hai chiesto tu.”

John sbadiglia. “Te l’ho chiesto più di tre ore fa.”

“Me l’hai chiesto più di cinque anni fa, se è per questo. Adesso mi vuoi lasciar parlare?”

È talmente bello ascoltarlo che John rimarrebbe in silenzio tipo per sempre. Il contatto della schiena di Sherlock sul suo ginocchio è quasi inebriante, è così forte da fargli credere di essere passato dalla fase di dormiveglia al sogno vero e proprio.

“Redbeard era il mio cane. Il cane mio e di Mycroft in realtà, i miei genitori l’avevano preso perché insistevamo a non voler socializzare con gli altri bambini, ma è sempre stato il mio cane nella pratica. Dovevano aspettarselo che un animale fosse un impegno troppo fisico per Mycroft, con tutte quelle passeggiate e cose simili.”

John sorride immaginandosi Mycroft da ragazzino a fissare il cane sperando che si porti fuori da solo mentre lui è impegnato a governare il mondo.

“Gli eri molto affezionato?”

Non la sua domanda migliore, sicuro.

“E’ stato il mio unico altro amico.”

“Prima della scuola?”

“Prima di te, John. Tieni il passo.”

Oh.

“L’ho chiamato Redbeard come il pirata quindi non ti ho mentito quel giorno in ospedale” glielo dice come se John avesse bisogno dell’ennesima conferma di non essere più preso in giro dalla persona più importante della sua vita “mi seguiva in tutti gli esperimenti, in tutte le esplorazioni in giardino. Era il mio assistente. Molto più intelligente della maggior parte di quelli dello Yard. L’abbiamo dovuto sopprimere perché era malato. A Mycroft piace citarmelo ogni tanto, giusto per ricordarmi quello che mi succede quando mi lego a qualcuno.”

Era il mio assistente prima di te e anche lui se n’è andato. Questo è quello che mi succede quando mi lego a qualcuno, quando m’importa di qualcuno. Sherlock non dice questo ma è tutto quello che legge nelle sue parole. Un bambino, lo stesso bambino, che gira per Londra alla ricerca di esperimenti, di cose da esplorare con un assistente che lo abbandona appena lui si è permesso di volergli bene, di attaccarsi a lui. Non sa se troverà mai le parole per scusarsi con quel bambino, per ringraziarlo per averlo portato con lui in questi anni, per avergli concesso di essere al suo fianco anche se nel tenere a qualcuno non ci sono vantaggi.

Si sposta un po’ sul divano, schiacciandosi contro lo schienale per fargli spazio. Vorrebbe dirgli mille cose che iniziano tutte con uno scusa e che finiscono tutte con un grazie e con un ti amo e non me ne andrò mai non me ne sono mai andato in realtà perché tu sei la mia casa e non potrei mai davvero abbandonarti ma non è capace di farlo così fa più spazio sul divano e lascia che Sherlock si rilassi contro le sue gambe senza dire niente e spera che sia abbastanza. Si sente bene, si sente sereno. In silenzio con Sherlock vicino a lui non si sente più come se stesse camminando sulle uova, si sente a casa. Si sente felice.

 

 

 

 

 

È un’idiozia. Hanno appena ricominciato a funzionare, o meglio hanno appena scoperto che sono ancora capaci di funzionare insieme perché loro sono sempre stati bene era solo che dovevano riscoprirlo. In ogni caso. È un’idiozia. Hanno appena ricominciato ad andare d’accordo, gli sono appena ricominciati ad arrivare i messaggi nel cuore della notte quando fa un turno al pronto soccorso e Sherlock non si è reso conto che è uscito e ha bisogno di qualcuno che gli faccia il tè e sicuramente non sono pronti per questo. Sherlock magari nemmeno vuole questo. È un’idiozia. Non sapranno dove metterlo e con i casi sarà un macello. Non importa che Mrs. Hudson si sia già offerta di occuparsene lei mostrando l’entusiasmo di una madre davanti al primo nipotino, questa è sicuramente una pessima scelta eppure mentre suona il campanello del 221B non riesce a pensare a un’alternativa.

“Hai le chiavi, John!” la voce di Sherlock arriva da oltre la porta. Suona di nuovo il campanello. Nessun movimento dall’appartamento. Può scommettere quello che vuole che in questo momento il suo migliore amico è sdraiato sul divano ma è troppo pigro per alzarsi. Suona di nuovo il campanello. Rumori di coinquilini nervosi che si alzano.

“Te l’ho detto che stai invecchiando, dove hai perso le chiavi?” Sherlock sbuffa mentre gli apre la porta e quasi non lo guarda. Per essere un uomo famoso per la sua capacità d’osservazione riesce ad essere particolarmente stupido certe volte.

“Sherlock.”

Nessuna risposta mentre lui rimane sulla porta.

“Sherlock…”

“Non devi rimanere lì impalato a scusarti, John. Questa è anche casa tua, entra pure.”

Dio quanto è irritante a volte.

“Sherlock!”

Finalmente si gira e gli occhi dell’unico consulente investigativo al mondo lo squadrano. Si soffermano sui suoi capelli ormai quasi completamente grigi tutti bagnati, ha iniziato a piovere che era in clinica e non aveva l’ombrello maledizione, sulla giacca nera che gli sta un po’ stretta ormai, per passare alla spalla che gli deve far male con questo tempaccio e indugiare alla fine sulla cosa tra le sue braccia.

Oh. Sì era questo su cui John voleva evidentemente richiamare la sua attenzione.

Su una cosa rossiccia tra le sue braccia, fradicia, spelacchiata e definitivamente viva e lo sta fissando come se fosse la cosa più bella del mondo. Nello stesso modo in cui lo fissa John.

Oh.

“Ok prima di far andare in crash il tuo sistema ascoltami. Non è stato intenzionale. O meglio sì ma non lui in questione. Ci stavo pensando da un po’, tipo di portarti al canile con una qualche scusa e poi Greg mi ha chiamato per lui. A quanto pare la prima proprietaria voleva farlo diventare un cane poliziotto o qualcosa di simile ma loro non accettano che particolari razze quindi non se n’è fatto niente.”

“E questo cosa”

“Aspetta. Non ho finito. La precedente proprietaria non era proprio una bella persona e non ha reagito benissimo all’idea che il suo cane non potesse diventare tipo il nuovo Rex o Lassie o qualcosa di simile e così l’ha abbandonato legato a un palo vicino a Scotland Yard. Generalmente nessuno contatta la polizia per un cane, si va direttamente alle associazioni ma Greg l’ha riconosciuto quando l’ha visto e l’ha portato dal veterinario e poi ha chiamato me perché una sera devo aver sproloquiato a riguardo mentre guardavamo l’arsenal e insomma questa storia si conclude con me in salotto con un cane. È intelligente sai? L’ha detto anche il veterinario. Non tanto intelligente da essere un cane poliziotto ma è sveglio. E non ha paura delle persone anche se non gli piacciono molto. Ed è rotto, ha una zampa che gli è stata curata ma gli rimarrà per sempre una certa forma di zoppia. Se viene lasciato troppo tempo da solo o se si sente abbandonato questa zoppia aumenta leggermente, il veterinario ha detto che potrebbe essere necessario un educatore magari ma io non credo.”

“Non credi?”

Sherlock si avvicina a John e gli prende il cane dalle mani. Il cucciolo non trema al contatto ma si rilassa subito tra le sue braccia appoggiandogli il muso alla spalla. Lo guarda nello stesso modo in cui lo guarda John, come se da un momento all’altro potesse fare la cosa più incredibile del mondo. Come se fosse speciale. Come se ne valesse la pena.

“E’ com’ero io. Non troppo intelligente, non di razza, non all’altezza di salvare il mondo e irrimediabilmente rotto. Potrebbe andare per secoli da un educatore come io sono andato dalla psicologa e non cambierebbe nulla. Non funziona così lui, non funzioniamo così noi. Abbiamo solo bisogno di trovare il nostro Sherlock Holmes personale per guarire.”

“Non avrei aspettato nessun altro.”

“Non sarebbe potuto essere nessun altro.”

 

 

 

 

 

Note:

1Il nome della bambina è un omaggio alla storia di Earlgrey68 che è carinissima tra l'altro.

Il titolo invece viene da una canzone di George Michael che con il fluff e le storiellina sceme ci sta sempre bene.

 

 

 

 

 

 

  
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