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Autore: M4RT1    24/01/2014    4 recensioni
Un tramonto a New York, due coppie di amici.
Jace e Alec, quasi Parabatai ma ancora diffidenti. Simon e Clary, amici per la pelle.
Due litigi, un bastone e un pallone da calcio.
Due storie destinate a incrociarsi.
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Storia partecipante a "Il Contest dei numeri" indetto da bakakitsune.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alec Lightwood, Clarissa, Jace Lightwood, Simon Lewis
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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N.d.A.: è la mia prima storia in questo Fandom, spero di non scrivere cavolate >_<
Il Contest prevedeva l'uso di tre prompt: bastone, tramonto e pallone. 
Spero vi piaccia!

 
IN THE SUNSET


― Il sole sta calando, Jace. Dobbiamo rientrare.

― Ancora cinque minuti, Alec!

― Ma Hodge ha detto…

― E da quando ascolti Hodge, tu?

Alec Lightwood sbuffò, piantando il suo sguardo arrabbiato sulla nuca del compagno.

― Sei qui solo da un mese e pretendi già di fare quello che vuoi! ― si spazientì, pulendosi le mani sudate sui jeans sporchi.

Jace Wayland aveva dieci anni quando, con una nave, era arrivato direttamente da Idris. Capelli biondi, occhi dorati, passo baldanzoso; Alec e Isabelle erano stati invitati a trattarlo con gentilezza – aveva da poco perso suo padre – ma non sembrava ce ne fosse un gran bisogno.

― Non pretendo di fare quello che voglio, Alec ― lo rimbeccò. Stringeva in mano un bastone di legno scheggiato, troppo grande per la sua corporatura minuta, eppure lo maneggiava con grande abilità. In uno dei suoi giri, Alec fu costretto ad abbassare la testa per evitare di essere colpito.

― E allora perché non vuoi darmi ascolto? ― chiese, rialzandosi. Una ciocca di capelli neri gli coprì la visuale, ma fu subito spostata dalla piccola mano rosea. Aveva solo undici anni, ma sembrava più responsabile di gran parte degli adolescenti newyorkesi.

― Perché voglio allenarmi con questo ― spiegò Jace, alzando di nuovo il bastone. Alec avrebbe sbuffato ancora, se non fosse stato troppo impegnato a evitare un estremità del pezzo di legno. ―Tua madre mi ha detto che sarò un grande Cacciatore, tra dieci anni ―  spiegò poi il bambino, continuando a muoversi qua e là, come impazzito. ―  Ma io voglio impiegarne cinque, o forse tre.

―  Nessuno diventa Cacciatore a tredici anni, Jace ―  ribatté l’altro. ―  Io ne ho già undici, ma papà ancora non vuole insegnarmi a usare le spade!

Gli sembrava una cosa tanto assurda da giustificare il suo tono sbalordito. Suo padre, Robert Lightwood, gli permetteva solo di tirare con l’arco, e solo sotto la sua supervisione: era bravo, certo, ma sui libri di storia non aveva mai letto di un Cacciatore che uccidesse Demoni con delle frecce.

 ― Ma io sono più bravo di te ― esclamò Jace, fermandosi. Non aveva il fiatone, ma un rivolo di sudore gli colava sul collo, facendogli il solletico. ― Quando saremo Parabatai, allora io combatterò e tu mi guarderai le spalle.

Improvvisamente, l’idea di stringere quel legame tanto importante con Jace turbò Alec: non voleva passare la vita dietro le quinte, senza poter attaccare i Demoni e ucciderli come sognava.

― Io non ti guarderò le spalle! ― sbottò allora, avanzo verso l’altro. Con una manata, lasciò che il bastone cadesse lontano. Lo sguardo di Jace, immobile e stupefatto, fu una buona ricompensa. ― Io combatterò, chiaro?

Jace annuì, colpito.

― Magari potremmo fare a turno, che ne pensi? ― propose, gli occhi ancora puntati sul bastone che rotolava verso una delle mura del giardino. L’Istituto, alle loro spalle, era una massa scura e incombente.

― Rientriamo, Jace. Si fa buio ― sussurrò Alec in risposta, voltandogli le spalle. ― O preferisci rimanere qui, da solo?

Jace si riprese, distogliendo lo sguardo dal bastone, e fissò torvo la sagoma scura dell’amico.

― Io non ho paura del buio! ― gridò, ma si affrettò a raggiungere il compagno.

 
 
Clary correva, veloce.

La strada di casa sua, le villette a schiera, il marciapiedi ombreggiato dagli alberi a intervalli regolari, tutto sembrava sfrecciare davanti ai suoi occhi a una velocità spaventosa.

Le sembrava di correre troppo veloce, in effetti, e dai passi strascicati e lontani capì che anche Simon la pensava allo stesso modo. Quando si fermò, ansimando, l’amico era ancora diversi isolati più indietro.

― Sei una lumaca, Simon! ― strillò la bambina, andandogli in contro. I pantaloncini verde militare le sbattevano contro le gambe esili e nude, e le scarpe da ginnastica cominciavano a farle male, ma non se ne curò.

― L’abbiamo perso, Clary ― sussurrò l’altro, ancora affannando. ― Ormai è inutile correre.

La bambina imbastì un’espressione imbronciata, incrociando le braccia sottili.
― Solo perché sei una lumaca, Simon! ― sbottò, rabbiosa. I capelli rossi le sfuggivano dalla coda di cavallo, cadendo sulle sue guance in ciocche scomposte.

― Non sono una lumaca! ― rispose l’altro, cercando di darsi un contegno. Indossava pantaloni lunghi e una tshirt a mezze maniche madida di sudore. ― Sei tu che sei ― ma si bloccò, indeciso se farle quel velato complimento.

― Troppo veloce? ― completò l’altra, un sorriso trionfante in volto. ― L’avevo detto che voi maschi siete delle schiappe ― aggiunse.

― Solo perché tu sei più leggera!

Era vero, naturalmente: Clary pesava la metà dell’amico ed era mingherlina e agile, mentre lui, avviandosi precocemente verso la pubertà, cominciava ad essere più alto e dinoccolato, le braccia leggermente più spesse dell’estate precedente.

― Allora, ti arrendi?

― Si fa buio, Clary. Mamma ha detto che non ci permetterà di uscire, se torniamo troppo tardi ― le ricordò il bambino, facendo dietrofront. Il viale cominciava a scurirsi, ma la luce arancione del tramonto rischiarava ancora il centro dell’asfalto.

― Ma era l’unico pallone che avevamo! ― si lamentò la bambina, chinandosi sotto un’auto parcheggiata. ― Come facciamo, adesso?
Simon fece una smorfia. Il suo pallone – quello nuovo, di cuoio vero e duro, colorato di bianco e nero – era rotolato fuori dal loro giardino pochi minuti prima, eppure era già scomparso.

― Forse qualche macchina l’ha schiacciato ― ammise a malincuore. ― Non possiamo passare tutto il tempo a cercarlo.

― Sei proprio un rompiscatole, lo sai? ― commentò la bambina, continuando a cercare. Avanzò ancora di qualche passo, poi svoltò in un vicolo. Le mura che la stringevano nella loro morsa erano piene di graffiti, ma c’era qualcosa che non andava in quei disegni: non erano normali scarabocchi, come quelli che si divertiva a fare sulle tele che sua madre le regalava. Erano simboli, caratteri simili a quelli cinesi, e sembravano brillare alla luce color indaco del tramonto.

― Clary! ― esclamò Simon, avvicinandosi. La sua voce fece sobbalzare la bambina, ma lui tremava molto più vistosamente. ― Che fai, guardi questi cosi? ― si sorprese. ― Credevo che…

― Guarda bene, Simon ― lo interruppe la bambina, indicando uno di quei simboli.

― Cosa dovrei guardare, scusa? È solo una stupida…

― Non vedi? Guarda, questo è una specie di simbolo.

Simon alzò gli occhi al cielo: aveva già assistito a scene simili, perché la sua amica vedeva disegni e ghirigori ovunque. Le piaceva dipingere, d’accordo, ma era quasi imbarazzante quando cominciava a fissare un muro a bocca aperta, anche per un ragazzino di nove anni.

― Non c’è niente, andiamo.

― Ma…

Clary si lasciò tirare via, lo sguardo fisso su quello strano ghirigoro. Quella sera provò a riprodurlo su di un foglio del padre di Simon, ma sembrava che le sfuggisse qualcosa. Alla fine, si arrese a cercare ancora il pallone di Simon – questa volta in giardino.
 
  
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