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Autore: aturiel    26/01/2014    3 recensioni
Carl rincontra un vecchio amico d'infanzia con cui condivideva la passione per il basket.
Sarà forse un nuovo amore per il protagonista o solo una fonte di delusione?
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Genere: Fluff, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'Un mondo'
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Un mondo - Silenzio


 Divenire - Einaudi
 

Erano ancora bambini quando si incontrarono per la prima volta.
Carl si era inginocchiato per raccogliere un fiore e una palla gli era precipitata sulla testa, facendolo piangere.
Subito un ragazzino dal visino allegro e sfrontato gli si era parato davanti. Aveva chiesto scusa e aveva tentato di farlo finire di piangere, ma poi, non riuscendoci, gli aveva dato del piagnone. Carl allora aveva smesso e avevano cominciato a litigare, finendo per prendersi per i capelli.
Li avevano dovuti separare i rispettivi genitori, scusandosi reciprocamente per la maleducazione dei propri figli. Alla fine li avevano spronati a far pace e loro, da bravi bambini, si erano messi a giocare insieme a basket.
All’inizio nessuno di loro riusciva a fare nemmeno un canestro, ma appena Carl ne ebbe centrato uno, il ragazzino ne fece un altro per non sembrare inferiore a lui. E quanti canestri fecero quel giorno! Con uno che rincorreva l’altro non appena passava in vantaggio.
Dovettero smettere di giocare perché ormai si era fatto troppo buio e, prima di salutarsi, Carl chiese al suo compagno di giochi:
«Come ti chiami?»
«Hansel»
«Come il bambino sperduto della favola?»
«Proprio lui.»
Si rincontrarono più o meno ogni giorno da quel momento, trascorsero insieme l’infanzia, tra partite di basket e litigate per falli dubbi.
Poi Carl, a undici anni, poco prima di cominciare le medie, si dovette trasferire in una nuova città.
 
 
 
 
 «Carl!»
Il ragazzo si voltò velocemente, facendo ruotare le lunghe e scattanti gambe su loro stesse. Prese al volo la palla che il compagno gli aveva appena passato, mirò al canestro e tirò.
Fece punto, come sempre.
Suonò la sirena che segnava la fine della partita e, subito, un mare di corpi accaldati lo sommersero. Lui sorrise e si lasciò strattonare dai compagni, con il cuore tanto caldo da sembrare sul punto di esplodere dalla gioia e l’adrenalina che gli infuocava le vene.
Fu un lampo.
Mentre per puro caso Carl alzò lo sguardo verso gli spettatori, ne incrociò uno grigio come la nebbia d’autunno.
Quello sguardo.
Lo conosceva, se lo ricordava bene.
Erano passati anni, quasi un decennio a dir la verità. Il suo viso era diventato più maturo, più serio. I suoi capelli si erano scuriti un poco ed erano più lunghi. Il corpo si era irrobustito pur rimanendo magro e flessuoso e si era alzato, com’era normale che fosse. Ma lo sguardo vispo era sempre quello, era sempre lacerante come il vento freddo invernale, profondo come l’oceano ma luminoso come la luna.
«Hansel…»
«Cosa hai detto, Carl?»
«No, niente, lascia stare Manu.»
«Come vuoi.»
«Va beh… oggi dove mangiate?»
«Ci dovrebbe essere un bar qui di fronte, noi ci fermiamo lì.»
«Mi aggrego anch’io, allora.»
«Va bene!»
Dopo soli cinque minuti di cammino si ritrovarono di fronte al bar e presero posto in uno dei tavoli più grossi. Erano ancora tutti eccitati per la bellissima partita e nessuno si accorse che un ragazzo si era seduto proprio nel tavolo vicino.
Una pacca amichevole sulla spalla distolse l’attenzione di Carl dal panino che stava per addentare. Si girò e si ritrovò faccia a faccia con Hansel.
«Ehi, Carl! Quanto tempo!»
«Hansel! Cavolo, hai ragione! Come te la passi?»
«Bah, normale. Te invece?»
«Sopravvivo.»
«Ti ho visto giocare oggi. Non ti sei proprio stancato del basket, eh?»
«Così pare. E te? Giochi ancora?»
«No, adesso suono. Ma mi piace ancora andare a vedere qualche bella partita.»
«Suoni? E che suoni?»
«Pianoforte.»
«Oddio, non ti ci vedo davanti a un piano a suonare, proprio no.»
«Perché no?»
«Beh, tu sei… eri un tipo più impulsivo e attivo, non eri il tipo da stare fermo a suonare.»
«E tu invece eri quello che raccoglieva i fiorellini azzurri nel parco invece di chiedere a qualcuno di giocare.»
«Ok, mi hai fregato.»
Hansel rise, mostrando il suo sorriso perfetto. Poi gli disse:
«Boh, vabbè, ci si vede.»
Carl si bloccò un attimo. Non voleva abbandonare Hansel, dopo tanto tempo aveva voglia di rivederlo e, magari, giocare una partita come ai vecchi tempi.
«No! Non ci provare. Dammi il tuo numero.»
I suoi compagni di squadra colsero al volo il momento per prendere in giro il loro capitano, facendo una serie di fischi e battutine.
Stupidi.
Hansel disse allora con un ampio sorriso:
«Ok, se proprio ci tieni… ma non sarò io a chiederti di uscire per primo. La devi fare tu la prima mossa.»
I ragazzi fischiarono ancora più forte di prima.
Stupido pure lui.
Arrossito, Carl riuscì a malapena mormorare un “ok” soffocato e a prendere il pezzo di carta che Hansel gli porgeva, nascondendolo nella tasca della tuta. Poi si salutarono e il ragazzo se ne andò.
Seguì con lo sguardo la figura dell’amico, finché non scomparve dietro l’angolo.
Aveva ancora la forma delle sue mani stampata come a fuoco sulle spalle. Quelle mani una volta erano leggermente più piccole delle sue, mentre adesso avevano le dita lunghe, fin troppo, erano delicate e all’apparenza fragili, ma solo a prima vista, proprio come quelle di un pianista. Era davvero cresciuto.
Sì, anche Carl era cresciuto. Anche lui era diventato più alto, superando quasi tutti i suoi compagni di classe alle medie. Era diventato forte e agile, anche le sue mani si erano allungate, un po’ come quelle di Hansel ma, allo stesso tempo, in un modo diverso. Le sue erano fatte per aderire alla palla da basket, non per pigiare i tasti di un piano.
Ma si sentiva strano, come se tutta la felicità e la sorpresa di aver rivisto il suo vecchio compagno di giochi fosse scomparsa. Si sentiva… come spiegare?
Tradito.
Ecco come, tradito. Perché lui aveva abbandonato il basket, perché adesso invece che sudare per rincorrere una palla e farla entrare in un canestro stava seduto davanti a un piano a suonare.
Decise di non pensarci, almeno per un po’.
La giornata passò veloce e si ritrovò davanti alla porta di casa con un mazzo di chiavi in mano e il pezzo di carta stropicciato che gli aveva dato Hansel quando il sole stava già scomparendo tra le montagne.
Aprì la porta e iniziò a fissare quella sequenza di cifre scribacchiate alla veloce e senza pensarci troppo, poi, senza prestare particolare attenzione a quello che stava per fare, compose il numero.
«Pronto?»
La sua voce al telefono era diversa, un po’ più profonda e roca.
«Ciao, sono Carl.»
«Ehi. Allora ti sei deciso a fare tu la prima mossa?»
Se lo immaginava sorridere alla cornetta, in quel suo modo un po’ beffardo che era solo suo, piegando leggermente la testa.
«Già. Senti, volevo chiederti una cosa.»
«Un appuntamento?»
Il suo sorriso certamente si stava allargando.
«Anche… cioè sì, ma dopo. Volevo chiederti perché hai smesso di giocare a basket.»
Qualche secondo di silenzio.
«Perché me lo chiedi?»
«Perché tu amavi il basket, Hansel.»
«Non si possono cambiare gusti, passati gli undici anni?»
Cercava di fare l’infastidito, ma Carl sapeva che non lo era per niente, o meglio, non solo quello, non soprattutto quello.
Aspettò qualche secondo. Sapeva che non avrebbe avuto bisogno di parlare. E infatti:
«Ho avuto qualche problemino a una gamba. Niente di serio, per carità, ma comunque adesso, ogni volta che provo a fare un salto, mi fa male. Non riesco a saltare, non c’è niente da fare.»
Ecco. Fregato. E adesso che avrebbe detto? Qualsiasi cosa gli sembrava superflua e scontata, altro che tradimento.
Stette qualche secondo in silenzio, poi disse:
«Ti va di uscire, domani?»
Ancora silenzio.
«Cosa?!»
«Ho detto, ti va di…»
«Sì, sì, ho capito. Solo mi hai preso alla sprovvista.»
«Ah… allora?»
«Beh, sì, ok. A che ora?»
«Quando ti pare.»
«Dobbiamo uscire proprio domani?»
«Se hai impegni non importa, cioè, era una cosa così, una cavolata…»
«No, intendevo se sei libero anche sta sera.»
Adesso era lui stupito.
«Ehm, sì, certo. Quando vuoi, io sono qui.»
«Qui dove?»
Carl gli disse l’indirizzo e, con il cuore in gola lo salutò.
 
Mezz’ora dopo e il campanello già suonava insistentemente. Andò ad aprire e si ritrovò davanti Hansel, bagnato fradicio.
«L’ombrello no, eh?»
Lui si limitò a ridere, imbarazzato.
Imbarazzato.
Non l’aveva mai visto così, con le guance un po’ rosse, gli occhi bassi e le spalle leggermente curve in avanti.
Sembrava addirittura dolce.
Non era cambiato solo fisicamente, allora.
Lo fece sedere in una poltrona di fronte al termosifone, non osando offrirgli dei suoi vestiti per permettergli di cambiarsi. Lui invece si accoccolò sul pouf proprio di fronte al suo ospite.
Si guardarono per qualche minuto, nessuno dei due che trovava il coraggio di parlare. Come sempre dovette prendere Hansel l’iniziativa:
«Volevo vederti.»
«Anche io.»
«Mi sei mancato.»
«Anche a me.»
Silenzio.
La mente di Carl sembrava bloccata, o meglio, lavorava fin troppo velocemente perché lui potesse afferrare uno dei pensieri che vorticavano come in tempesta dentro la sua testa.
«Perché volevi vedermi?»
Era di nuovo lui che prendeva l’iniziativa, che nervi. Doveva darsi una svegliata o il suo amico si sarebbe annoiato.
«Perché mi sei mancato, te l’ho detto. Volevo giocare ancora con te.»
Silenzio.
«Scusami.»
Si sarebbe preso a cazzotti da solo! Che insensibile che era stato. Adesso Hansel si era intristito, lo vedeva bene, sotto quella lastra di ghiaccio che erano i suoi occhi.
«No… cioè, intendevo…»
«Non preoccuparti, almeno sei stato sincero.»
«Ma io voglio stare con te! Non solo per la pallacanestro. Voglio ridere di nuovo con te, come facevamo da bambini, voglio vederti sorridere in quel modo strano, tutto tuo, voglio vederti con il viso concentrato, come facevi quando eri piccolo quando miravi al canestro, voglio parlare con te di cose stupide e infantili, voglio ritornare un gagnetto senza troppe preoccupazioni, ma voglio esserlo con te, solo con te!»
Chissà come gli erano uscite tutte quelle parole. Non sapeva bene se il suo più grande desiderio era di affondare nel suo pouf o se alzare gli occhi per incrociare i suoi per vedere cosa avrebbero risposto.
Scelse la seconda opzione.
Non fu mai contento di una scelta come in quel momento, forse escludendo i giorno in cui aveva pagato con tutti i suoi risparmi il corso base di basket, trascinando a forza sua madre per una firma rassegnata.
Hansel adesso sembrava tornato davvero un bambino, con il suo sorriso infinitamente dolce e senza preoccupazioni, sereno come non mai. Eppure con il suo sguardo serio sembrava più adulto che mai. A Carl parve quasi un sogno quando sentì la sua voce mormorare:
«Quando ti ho visto giocare mi sei sembrato diverso, più maturo, più forte, più… immenso. Ma forse non sei tanto diverso dal bimbo piagnone che ho conosciuto.»
E concluse con il suo sorriso.
Carl allora si ritrovò a ridere. Non sapeva né come né perché, ma stava ridendo.
Quando anche Hansel, che si era subito messo a ridere a sua volta, ebbe finito di sghignazzare senza un apparente motivo, Carl si alzò e disse:
«Voglio sentirti suonare.»
«Perché?»
«Voglio vedere quanto sei buffo, mi pare ovvio.»
«Vedremo se sarò buffo o bellissimo mentre suono. Hai un piano, per caso?»
«Veramente no, ma ho una pianola.»
Hansel scoppiò a ridere.
«E io dovrei sembrare bellissimo mentre suono una pianola?! Ma non farmi ridere! Parti avvantaggiato.»
«Ma tu non ti sei mai arreso.»
«Questo è vero e, di fatti, non ho intenzione di farlo. Portami ‘sta benedetta pianola.»
«Agli ordini, capo!»
Carl scomparve un attimo dalla stanza e riapparve, dopo qualche minuto pieno di rumori di cose cadute a terra e di mobili spostati, con una pianola mezza impolverata in mano.
La porse dunque al suo amico e gli disse con aria strafottente:
«Prego maestro, a lei l’onore.»
Hansel si alzò dalla poltrona e si sedette per terra, portandosi lo strumento sulle ginocchia. Si scrocchiò le dita e il collo con fare teatrale e incominciò a suonare.
Le sue mani scivolavano leggere sui tasti troppo piccoli che gli impedivano di suonare al meglio, ma si vedeva che era bravo: Carl, in tutta la sua ignoranza in materia, se ne accorse benissimo. Lo sentì suonare per molto tempo canzoni che sembravano filastrocche, ridendo quando sbagliava, ma mai interrompendo il flusso di note che scaturiva dai suoi veloci e morbidi movimenti.
Ad un tratto Hansel si bloccò e disse:
«Adesso ti faccio sentire una cosa.»
Prese fiato e ricominciò a suonare. Ma non canzoncine banali, questo era un brano vero, uno di quelli che si sentono suonare dalle orchestre. Era però diverso dalla solita musica classica che Carl conosceva, sembrava come una danza vorticosa, di cui non si sentiva né l’inizio né la fine. Le note si rincorrevano, diventando prima più basse e profonde, poi più acute. Era come se un ammasso di suoni tra i più disparati si fossero messi d’accordo per fare una melodia continua e intensa che, per quanto particolare e strana, aveva il suo filo conduttore che la rendeva qualcosa di unico e magico.
Hansel suonò per qualche minuto, poi smise, con stampata sul viso, quell’aria concentrata che Carl amava tanto vedere.
Gli chiese, con gli occhi bassi e più serio del solito, come se per lui contasse davvero una sua opinione da analfabeta musicale qual era:
«Allora… che ne pensi?»
«Sinceramente?»
«Certo.»
«A me non piace particolarmente la musica classica, dovresti immaginarlo.»
«Quindi è un no?»
«Stai scherzando?! Questa non è musica classica, questa è una figata!»
Un sorriso si aprì sul suo viso, prima preoccupato.
«Adesso capisco perché hai iniziato a suonare! Sei un genio, Hansel! Questa canzone mi ricorda te: un ragazzo che non sta mai fermo, con gli occhi che brillano e il sorriso strafottente! Questa cosa è bellissima, dico sul serio, io…»
Non fece in tempo a finire la frase che Hansel lo baciò.
Che labbra morbide aveva! Come erano calde.
Carl gli afferrò la nuca e affondò le dita tra i suoi ricci capelli scuri, spingendolo ad andare più a fondo, con quel suo bacio. In poco tempo si ritrovarono stesi per terra, abbracciati stretti a baciarsi, come due ragazzini al primo amore: timidi ma allo stesso tempo curiosi di sapere com’era toccare e farsi toccare dalle dita della persona amata.
Si fermarono, però. Non andarono oltre ai baci, nemmeno loro sapevano perché. Si desideravano, questo era ovvio, ma affrettare le cose poteva voler dire perderle tutte in un soffio di vento. Come nella musica è tutto fatto di note, pause e tempi, come nel basket bisogna aspettare il momento giusto per saltare, loro si abbracciarono, ancora sdraiati a terra, ancora con gli occhi che si cercavano, senza fare nulla di più.
Erano tornati a casa.



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