Ciao a tutti!
Sono tornata e questa volta con una long! La mia prima long Sherlolly. Sono piuttosto emozionata, ma anche nervosa perché non sono certa del risultato. Personalmente ne sono soddisfatta, ma ci sono dei punti che mi fanno un po’ storcere il naso. A voi il dovere di giudicare, dunque! :D
Tutto ciò che succederà in questi capitoli è ambientato successivamente al terzo ed ultimo episodio della terza serie, quindi tiene conto di tutto e in alcuni casi può darsi che io abbia dato la mia personale interpretazione a ciò che è successo.
Come anticipavo a chi ha seguito le mie one-shot precedenti, questa volta ho cercato di modificare la mia visione di Molly tenendo conto della terza stagione e spero vivamente di esserci riuscita, come spero di non essere andata OOC con Sherlock e tutti gli altri.
Al solito, i personaggi appartengono ai loro creatori e questo scritto non è a scopo di lucro.
Credo di aver detto tutto, non mi resta che augurarvi una buona lettura!
Un
bacio,
_Pulse_
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In
my place
1.
Night
#1
«Molly?».
L’anatomo
patologa aprì gli occhi e, al contrario di ciò
che pensava, la voce di Sherlock
non era solo l’ultimo ricordo di un sogno: lui era lì,
in piedi accanto
al suo letto, che la fissava con le mani unite dietro la schiena.
«Sherlock»,
biascicò, tirandosi su lentamente a sedere e coprendosi fino
alle ascelle con
il piumone.
«Se
non ti dispiace, sono piuttosto stanco», disse a bassa voce
il detective,
togliendosi la giacca e lanciandola distrattamente sullo schienale
della sedia
sotto la scrivania.
Aveva
appena iniziato a sbottonarsi la camicia bianca, quando le rivolse
un’occhiata
insospettita. «Non indossi i pantaloni, per caso?».
Molly
si scostò bruscamente le coperte di dosso e scese dal letto,
trovando
particolarmente sgradevole il dover appoggiare i piedi nudi sul
pavimento
freddo ben prima del suono della sveglia.
Sherlock
notò che li indossava, i pantaloni, quindi apparve ancora
più confuso. «Che
c’è?».
«Come
hai fatto ad entrare? Ho fatto mettere il chiavistello alla
porta».
«Avevo
dato per scontato che fosse per la tua sicurezza personale, ora che
Moriarty
sembra essere tornato sul campo di battaglia. Sono lusingato».
I
suoi occhi di ghiaccio brillarono come diamanti nella camera da letto
buia,
rischiarata soltanto da un fascio di luce lunare, e Molly strinse i
pugni lungo
i fianchi, cercando di mantenere la calma.
«Sono
entrato dalla finestra», spiegò, nonostante fosse
l'unica soluzione possibile,
a quel punto, e Molly avrebbe potuto – e dovuto –
arrivarci da sola.
«Perché
sei qui?», gli chiese dopo vari secondi di silenzio,
fissandosi direttamente i
piedi piuttosto che lasciarsi cogliere in flagrante mentre si
sorprendeva del
candore della sua pelle, dei muscoli definiti e dei piccoli nei che
formavano
una specie di costellazione sulla sua schiena longilinea.
«Perché
tu invece ti ostini a rimanere qui, a farmi domande di cui conosci
già la
risposta?».
«Non
te l'ho mai chiesto prima».
«Non
vuol dire che tu non conosca già la risposta».
I
suoi occhi erano taglienti e duri proprio come diamanti e Molly avrebbe
preferito mille volte uscire dalla propria camera da letto in silenzio,
come
aveva fatto molte e molte volte prima d'allora, ma le cose erano
cambiate negli
ultimi mesi, lei era cambiata, e
per
il suo stesso bene c'erano dei momenti in cui doveva soffrire,
mostrando a
Sherlock che se voleva qualcosa, doveva dare qualcosa in cambio. Non
sempre,
questo no: si trattava pur sempre di Sherlock! Ogni tanto le sarebbe
bastato.
Ma sapeva che senza una piccola spinta da parte sua – o di
John, o di chiunque
altro gli stesse vicino nel quotidiano –
quell'“ogni tanto” avrebbe preso il
significato di “raramente” nel particolarissimo
dizionario di Sherlock.
Il
consulente investigativo trasse un lungo respiro e con gli occhi
semichiusi
disse pazientemente: «O qui, oppure in quel posto
in culo al mondo, citando John, con i miei
amici
drogati. Ho pensato che se ci fossi andato, ti saresti sentita
autorizzata a schiaffeggiarmi
di nuovo, quindi...».
Molly
scosse il capo, sconfitta, e dato che erano le tre di notte e quella
mattina
era di turno al Bart's decise che anche per quella volta avrebbe
lasciato
correre.
«Il
gatto, Molly».
La
ragazza, già alla porta, tornò indietro per
prendere Toby tra le braccia,
comodamente raggomitolato tra le coperte del suo letto e non molto
contento
dello sfratto improvviso. Come se lei ne fosse felice. Come se Molly
Hooper non
vedesse l'ora di essere buttata fuori dal proprio letto per lasciarlo a
Sherlock Holmes, un detective che col tempo si era guadagnato una
reputazione
internazionale e che da quando il suo miglior amico e coinquilino si
era
sposato non faceva altro che vagabondare di qua e di là,
distrutto dalla
solitudine. Molly ne riconosceva troppo bene i sintomi e lui lo sapeva,
sapeva
che lei riusciva a vedere come stava realmente, e quando aveva la luna
storta –
come quella sera – gli era pressoché
insopportabile.
Molly
si chiuse nella camera degli ospiti e dopo essere salita a quattro
zampe sul
letto si infilò sotto le coperte, stringendo i denti per il
freddo. Non era mai
stata ricoperta di neve dal collo in giù, ma fu quella la
prima immagine che le
venne alla mente quando si ritrovò a fissare il soffitto.
Non
provò nemmeno a chiudere gli occhi: prima di cambiare di
nuovo idea, scese dal
letto e tornò in camera sua. Fu più forte di lei
e bussò, ma non aspettò la
risposta di Sherlock prima di entrare. Lo trovò seduto sul
letto, in mutande,
che le dava le spalle. Per un attimo volle voltarsi e correre via, ma
fu solo
un attimo.
«E
adesso che c'è?», domandò stancamente
Sherlock, senza nemmeno degnarla di uno
sguardo.
«Penso
che dovresti dormire tu nella camera degli ospiti, visto che tu
sei
l'ospite».
«Non
era questo il patto».
«Lo
so».
«Pensavo
fossi una donna di parola».
«Non
ti sto cacciando di casa, Sherlock. Vorrei solo poter dormire nella mia
camera
da letto».
Il
detective si voltò e la scrutò a fondo, come se
volesse trovare la risposta a
tutte le sue domande solo guardandola. Di solito ci riusciva,
praticamente
sempre, e con chiunque avesse davanti agli occhi, ma quella volta no.
«Mi
hai fatto dormire nel tuo letto anche quando eri fidanzata con
Tom».
«Una
volta sola. Ed è stato un errore imperdonabile»,
rispose velocemente.
Ricordava
fin troppo bene la vergogna e il senso di colpa che aveva provato nei
confronti
di Tom quando era tornato dal turno di notte, stanco e desideroso di
una bella
dormita. L'aveva trovata intenta a cambiare le lenzuola del letto
– solo cinque
minuti prima era riuscita miracolosamente a cacciare Sherlock
– e Molly, per
giustificarsi, gli aveva detto che aveva intenzione di portarle in
lavanderia
prima di andare al lavoro. Tom se l'era bevuta, naturalmente non
avrebbe mai
sospettato nulla, ma lei non si era sentita a posto con se stessa per
tutto il
giorno, tanto che per far pace con la propria coscienza quella sera gli
aveva
fatto trovare una cena coi fiocchi, con tutti i suoi piatti preferiti.
Molly
scrollò il capo, sperando che quel ricordo smettesse di
gravarle sul cuore, e
tornò a fissare Sherlock incrociando le braccia al petto e
stringendosi il
collo tra le spalle.
«Mi
chiedo che differenza faccia per te: di certo la mia stanza non
può farti
sentire meno solo».
Sherlock
aprì la bocca per ribattere, con gli occhi leggermente
sgranati, ma passarono
diversi secondi prima che la voce gli tornasse.
«Dovrai
trascinare via il mio corpo morto, se vuoi davvero dormire
qui», sibilò con
tono acido, poi afferrò le coperte e coprendosi fin sopra la
testa si
rannicchiò sul fianco.
Molly
lo guardò incredula. Non riusciva proprio a capire il motivo
per cui Sherlock
si ostinasse così tanto: che cos’aveva di speciale
il suo letto? Era più caldo
di quello nella camera degli ospiti, sicuramente. Ma era una teoria
troppo
assurda perché ci credesse anche solo per un istante. Si
sforzò di pensare ad
altre motivazioni plausibili, ma il sonno l’ebbe vinta troppo
presto.
Molly
sapeva perfettamente che se avesse ceduto quella volta, dopo tutta la
forza che
le ci era voluta per tornare indietro ad affrontarlo, in futuro non
avrebbe
avuto la benché minima speranza di ottenere qualcosa da lui.
Doveva andare fino
in fondo, dimostrare a Sherlock che non poteva comportarsi in quel modo
– non
più.
Respirò
profondamente per farsi coraggio e disse: «Non voglio finire
in prigione per
colpa della tua testardaggine».
Sherlock
si tolse la coperta dalla testa e allibito seguì con gli
occhi ogni suo singolo
movimento.
Molly
salì sul letto, diede un paio di colpi al cuscino, poi si
infilò sotto alle
coperte, al suo fianco.
Passò
un’eternità prima che smettesse di fissarle la
schiena e i capelli castani
sparsi sul cuscino, prima che finalmente tornasse a darle le spalle
come se ciò
che aveva appena fatto non l’avesse minimamente toccato.
***
Non
avrebbe mai immaginato che Sherlock potesse reagire in quel modo: non
reagendo.
Aveva
sempre lottato per la sua privacy, per avere i suoi spazi –
per quello avevano
concordato che avrebbe dormito nella sua camera! – e ora che
lei aveva deciso
di cambiare i punti fondamentali del loro patto, lui non diceva o
faceva
niente. All'improvviso la condivisione di quel letto non era
più un problema.
Sconveniente sì, perché Molly era certa che non
sarebbe riuscita a chiudere
occhio sapendo di essere sdraiata a pochi centimetri da uno Sherlock
semi-nudo,
ma non un problema.
C’erano
dei limiti a tutto e Molly sapeva con certezza che uno dei suoi era il
fatto
che non l’avrebbe mai capito fino infondo, non da sola. Ma
Sherlock non
l'avrebbe mai aiutata in questo, mai si sarebbe esposto di sua
iniziativa.
La
ragazza lesse di nuovo l'ora sulla sveglia digitale e smise di farsi
domande a
cui non avrebbe ottenuto risposte. Era stanca e voleva davvero tornare
a
dormire, Sherlock o meno nel letto. Chiuse gli occhi e
respirò profondamente,
cercando un pensiero o un ricordo tranquillizzante.
Tutti
i suoi sforzi però furono vani, purtroppo: era stato
riportato a galla il nome
di Tom e ora non riusciva a pensare ad altro. Era passato poco tempo
dalla loro
rottura, pochissimo rispetto all'anno in cui erano stati insieme, e se
col
tempo avrebbe dimenticato le piccole cose, i sorrisi, le risate e i
baci, non
avrebbe mai, mai potuto fare la stessa cosa con il momento in cui aveva
avuto
la piena consapevolezza di non amarlo davvero.
«Mary e John, in qualsiasi modo, qualunque cosa
succeda, da oggi in poi
giuro che ci sarò sempre. Sempre. Per tutti e tre. Ehm,
scusate. Volevo… volevo
dire due. Tutti e due. Entrambi, infatti. Ho solo contato male. Ad ogni
modo, è
tempo di danzare. Fate ripartire la musica, prego. Grazie. Okay, tutti
voi,
ballate. Non siate timidi!».
La
musica partì e Sherlock scese giù dal palco. In
smoking e con le luci colorate
che gli danzavano addosso era ancora più bello del solito e
Molly non poteva
negarlo. Prese però la mano di Tom e lo portò in
pista, decisa a divertirsi. O
almeno una parte di lei lo era, mentre l'altra non riusciva ad evitare
di
gettare occhiate al detective, ora fermo in mezzo alla folla danzante,
di
fronte ai due novelli sposi.
Sembravano
nel bel mezzo di una discussione, quando ad un certo punto Sherlock
disse
qualcosa in grado di farli rilassare improvvisamente. Il volto del
consulente
investigativo si era illuminato grazie ad un sorriso straordinario, uno
di
quelli più unici che rari, e anche a Molly venne voglia di
sorridere. Si
accorse però che lo stava già facendo, mentre Tom
le alzava un braccio e le
faceva fare una giravolta.
Quando
John e Mary iniziarono a ballare e si allontanarono, Sherlock si
guardò intorno
spaesato fino a quando non scorse la damigella d'onore, Janine. Molly
si sentì
morire accorgendosi del sorriso che lui le aveva rivolto e fu ancora
peggio
quando esso scomparve all'improvviso: Janine aveva trovato un altro
cavaliere e
Sherlock era solo, in mezzo alla pista da ballo.
Molly
avrebbe tanto voluto raggiungerlo e ballare con lui, anche solo per
cinque
minuti, per dimostrargli che quella non era l’esatta
previsione di ciò lo
attendeva da quel giorno in poi, ma ci ripensò: non poteva
abbandonare Tom e
Sherlock avrebbe insultato la propria intelligenza, se avesse davvero
creduto
che il matrimonio di John avrebbe stravolto la loro amicizia.
Qualche
giravolta dopo, Sherlock attraversava di nuovo la pista da ballo con
espressione cupa. Quella volta però era diretto verso
l'uscita e nessuno
sarebbe stato in grado di fermarlo, perché nessuno lo aveva
notato. Nessuno
eccetto Molly.
Il
tempo parve fermarsi e così anche lei, il suo nome sulle
labbra, pronte ad
urlarlo a squarciagola.
Era
stato quello il momento in cui aveva avuto la piena consapevolezza di
non amare
Tom, di non averlo mai amato. Perché nonostante non avesse
gridato il suo nome,
nonostante non lo avesse rincorso, il suo cuore lo aveva fatto. Come
sempre e
contro ogni sua volontà, il suo cuore aveva scelto di stare
accanto a Sherlock.
Molly
si girò e rimase a fissare la schiena del detective.
«Sherlock?»,
bisbigliò. «Dormi?».
Lui
non rispose e l'anatomo patologa, prestando più attenzione
al suo respiro, si
accorse che era regolare e pesante. Con un sospiro tirò
fuori un braccio e con
delicatezza gli coprì la spalla nuda con il piumone.
«Che
ho fatto di male per innamorarmi di te?», mormorò
ancora, poi chiuse gli occhi
e seguendo il ritmo del respiro di Sherlock si addormentò.