-Annie, c'è un nuovo cliente!- le urlò Jenna, dall'atrio. A quanto pare era arrivato l'ennesimo rompi palle all'ostello. Lo sapevo benissimo: lavoravo in quella specie di motel sgangherato da tre anni ma ci avevo sempre vissuto, o perlomeno dalla morte dei miei genitori.
-Arrivo!- le urlai di rimando. In quei momenti, il mio unico pensiero era “fa che sia un diciottenne carino, fa che sia un diciottenne carino!” ma, come da copione, era un vecchio grasso e basso, che sapeva di birra e sudore. Ma d'altronde, per Jenna era importante che pagasse.
-Hei Annie, quando hai finito con questo cliente puoi pure andare.- evviva, due ore di libertà!!!!
Lo accompagnai per l'enorme casa, che ormai conoscevo a menadito. Quando avevo tre anni, i miei genitori morirono in un brutto incidente d'auto: io ero nell'auto ma, non si sa come, riuscii a sopravvivere. Jenna decise di prendermi con lei, perché era una mia cugina di settimo grado o giù di lì.
Appena finito col nuovo grassone, scesi le scale e acchiappai il cappotto al volo.
Mi precipitai alla spiaggia, che distava circa cinque metri dall'ostello.
Anche se era il mio compleanno, non avevo giorno di ferie o una catasta di regali ad aspettarmi in camera. Ero solo un solito, monotono e triste giorno.
Ad un certo punto, stanca di camminare, mi sedetti sulla sabbia e cominciai a canticchiare fra me e me -Tanti auguri a me, tanti auguri a me, tanti auguri a me!-. Ormai era diventata un'abitudine, quella di farmi gli auguri da sola. D'altronde, nemmeno Jenna si era mai presa la briga di farmeli.
Tutto era tranquillo, fino a quando una figura scura emerse dall'acqua.
Era un ragazzo, aveva i capelli scuri e indossava una maglietta arancione e dei jeans logori, tutti i vestiti erano strappati e appiccicati al corpo. Sembrava esausto ed infatti, appena uscito dal mare, crollò a terra, come se il peso del cielo fosse crollato su di lui.
Accorsi per aiutarlo: era svenuto e pieno di tagli, ma continuava a mormorare la parola Annabeth.
Cercai di calmarlo, ma continuava a tremare e sussurrare quel nome. Ad un certo punto, girò la testa e aprì gli occhi di scatto, per poi dire: -Annabeth... l'ho uccisa io Annabeth.-.
Aveva dormito per tutta la notte, ma la mattina dopo si svegliò presto, proprio mentre gli stavo controllando la febbre. Appena posai la mano, sussultò di colpo e mi prese la mano. Aprì gli enormi occhi verdi e mi fissò: -Chi sei?- riuscì a mormorare.
-Io sono Annie. Annie Olson. Tu, piuttosto, chi sei?!- gli risposi.
Lui sorrise a fatica e disse: -Io sono Percy Jackson.-.
-Hei, dove sono i miei vestiti?- chiese, ormai ripreso.
-Li ho lavati! Ecco, tieni.- glieli porsi. Lui li afferrò e cominciò a frugare nelle tasche dei pantaloni.
-Do... dov'è la mia penna?- chiese immediatamnte, come se da quell'aggeggio dipendesse la sua vita.
-L'ho tolta per lavare i vestiti.- chiesi, spaventata dalla sua ansia. Andai in atrio e presi la fantomatica penna.
-Aspetta un attimo, però, che la uso per scrivere una cosa!- gli dissi, con un foglio in mano.
Azionai la penna, con le urla di Percy che mi sibilavano nelle orecchie.
Di colpo la vidi diventare una spada e le mie dita si riempirsi di sangue.