Il barbone svoltò l’angolo con passi lenti e strascicati.
Stava tornando a casa, a quella che per lui rappresentava una casa. Nel vicolo
stretto e lurido che aveva appena imboccato tra palazzi alti e anonimi c’era
una rientranza nel muro, una specie di nicchia che lui utilizzava ogni notte per
dormire, al riparo dal freddo o dalla pioggia di New York.
In tanti anni, non gli era mai capitato di avere compagnia, nascosto
com’era dietro i cassonetti dell’immondizia, ma quella sera una figura occupava
il suo solito spazio.
«Ehi, amico, quel posto è mio.»
Nessuna risposta, nessun movimento.
«Ehi, mi ascolti quando parlo?»
Il barbone si avvicinò ancora di qualche passo. La figura
distesa gli dava le spalle. La toccò con un piede.
«Oh no! Accidenti!...», mormorò.
C’era una ragazza nella sua nicchia. Ed era morta.
***
I lampeggianti della polizia illuminavano il vicolo di lampi
rossi e blu. La zona era stata transennata dai nastri e nessuno che non fosse
della squadra investigativa aveva il permesso di entrare.
«Cos’abbiamo qui, Lanie?»
La dottoressa Parish, l’anatomopatologa del Dodicesimo
distretto della Polizia di New York, stava esaminando il cadavere, ancora immobile
nella posizione in cui era stato trovato. Si alzò in piedi e si trovò davanti
il detective Beckett.
«Ciao, Kate. È una donna bianca, tra i diciotto e i
venticinque anni. Non sappiamo ancora il nome, non ha documenti.»
«Causa della morte?»
«Sconosciuta, per ora. Non ci sono ferite né segni di
violenza.»
«Ora del decesso?»
«Poco meno di un giorno, direi venti ore fa.»
«Non mi aiuti, Lanie. In pratica non abbiamo nessun elemento.
Niente documenti, niente ferite.»
«Hai ragione, Kate, ma sarò più precisa dopo le analisi di
laboratorio.»
«Ehi, ragazze, mi sono perso qualcosa?»
Il consulente della polizia Richard Castle, il famoso
scrittore, era appena arrivato di corsa.
«Ciao, Castle. No, niente di che. Saranno necessari degli
esami clinici più approfonditi» rispose la dottoressa Parish.
Lo scrittore si chinò sul cadavere.
«Povera ragazza. Era così carina.»
«Castle! Perché non ti rendi utile e vai a interrogare il
barbone che ha trovato il cadavere? Non credo che tu sappia analizzare il corpo
meglio di Lanie.»
«Non ha già provveduto Esposito all’interrogatorio?»
«Vuol dire che tu ne farai un altro. Non dici sempre di
avere un sesto senso per queste cose?»
«Ok, vado.»
Lo scrittore si allontanò. Beckett non voleva che inquinasse
le prove sulla scena del delitto. Lui era pur sempre un consulente civile, lei la
detective incaricata delle indagini.
«Ehi, Beckett.» Stavolta era un altro componente della
squadra, Kevin Ryan, ad avvicinarsi.
«Trovato qualcosa?»
«Non molto, ma laggiù ci sono tracce di pneumatici ben
riconoscibili.»
«Fotografa tutto.»
«Un’altra cosa. Su quel cassonetto, dove il vicolo si
stringe tra le case, ci sono tracce di vernice.»
Era facile immaginare la scena. L’assassino era fuggito in
macchina e nell’allontanarsi di fretta aveva urtato il cassonetto. Poteva
essere una prova.
«Preleva tutti i campioni.»
«Già fatto.» Stavolta era Javier Esposito a comparire con in
mano una bustina di plastica che conteneva dei reperti.
Kate Beckett sorrise. Aveva una squadra efficiente, che
agiva secondo i suoi ordini ancor prima che potesse impartirli. E poi c’era
quel Castle, lo scrittore, che seguiva le sue indagini per avere spunti per i
suoi romanzi. Bell’uomo, fascinoso, intelligente e molto spesso utile nella
risoluzione dei casi. Ed erano diventati amici. A volte purtroppo, a volte per
fortuna, come nei più tipici casi di amore-odio. Castle era un professionista
delle complicazioni sentimentali, tuttavia Beckett preferiva le storie
semplici, e in ogni caso era meglio per tutti restare concentrati sul lavoro.
«Continuiamo con le ricerche, ragazzi», ordinò.