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Autore: Warm me up and breathe me    01/02/2014    2 recensioni
Talvolta l'impedimento od ostacolamento di una azione o intenzione, non ha altro effetto se non quello di far si che l'ostacolato desideri compiere queste ultime ad ogni costo.
Genere: Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ben, Harmon, Tate, Langdon, Violet, Harmon, Violet, Harmon
Note: Movieverse | Avvertimenti: Violenza
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Ben Harmon era diverso.
Era stato scontroso da quando ero entrato nel suo studio, quella mattina. Non mi aveva fatto trovare la consueta tazzina di caffé sull'elegante tavolino che si frapponeva a noi due, e non mi aveva granché ascoltato per tutta la durata delle mie confidenze.
Se n'era stato lì, più lontano del solito da me - o così mi suggeriva una voce proveniente da un'angolo recondito della mia testa -  e con una gamba accavallata sull'altra, a leggere LA MIA cartella clinica.
Credeva che non me ne fossi accorto, o almeno così sperava. Ma una volta si era alzato, dopo i primi 20 minuti che io mi confidavo inutilmente con lui  ed era andato verso la porta a vetri, si era appoggiato di schiena e aveva finto di fare si con quella sua testa di cazzo.
Ed io allora ne avevo approfittato per dare un'occhiata. Si sa, quando c'è il sole i raggi ti fanno strizzare gli occhi e prudere il naso, ma quando quell'odiosa palla accecante è coperta da qualche nuvola grigia, allora è tutta un'altra storia, e tu puoi leggere ciò che c'è, riflesso, nella vetrata dello studio improvvisato di un tuo psicanalista che inizia ad avere più problemi di te.
E la cartella clinica che leggeva, come già detto, era la mia.
Voleva rifilarmi un calcio su per il culo e sbattermi fuori dalla sua vita.
Arrestai il mio meccanico soliloquio e mi alzai di scatto. Lui, neppure se ne accorse.
Gli arrivai a grandi passi addosso e allora mi guardò, ma era già troppo tardi perché gli strappai i fogli di mano e lo spinsi contro la vetrata.
Barcollò e quasi cadde mentre una piccola crepa si aprì nel vetro trasparente.
- Tate, che cosa stai facendo? - riuscì a dire, rimettendosi in piedi e avvicinandosi a me.
- Vuoi liberarti di me. E' questo che vuoi, no? COSA SONO QUESTI? - urlai, sventolando i fogli per aria mentre lo spingenvo un'altra volta due passi indietro.
- Non è così, lascia che io ti spieghi Tate. E' colpa mia, perché non ti ho ascol...
- Non mi hai ascoltato perché pensavi a come sbarazzarti di me - dissi. Quindi lessi sul primo foglio ed ebbi la conferma che quanto avevo pensato fosse vero.
"Diagnosi definitiva: schizofrenia. Il soggetto si dimostra essere un pericolo REALE per l'incolumità di chi gli sta attorno, nei confronti peraltro del sottoscritto e della famiglia di quest'ultimo. Evidenzia,  ed alterna,  momenti di irrefrenabili spinte sessuali deviate a deliri di irrazionale violenza. "
Così diceva il foglio. Non ebbi più voglia di leggere il seguito, ma sapevo cosa fosse quel documento.
Ben Harmon me lo strappò di mano, come sempre reprimendo la furia imperversante in lui e tranquillizzandosi da sé.
- E' una richiesta di trasferimento. Vuoi trasferirmi in qualche altro posto, magari come paziente di un qualche manicomio così da DORMIRE TRANQUILLO DI NOTTE - urlai ancora, e lo presi per il colletto della camicia, mentre afferravo il tagliacarte dal tavolino e glielo mettevo a pochi centimetri dall'occhio sinistro.
- No Tate...Tate stavo analizzando la cartella clinica del tuo precedente psichiatra e constatando i miglioramenti che hai fatto da allora, con me...
Lo lasciai andare. Aveva gli occhi sbarrati ed era terribilmente shockato e ferito.
Mi sentì un peso sul cuore.
Lo ripresi per il colletto, meno convinto, e il tagliacarte era più distante dal suo occhio adesso - BUGIARDO! Sei un fottuto bugiardo, tu...- i pensieri frullavano nella mia testa e li figuravo come lame, lame che tranciavano qualsiasi cosa al loro passaggio.
Aveva ragione. In effetti avevo frequentato per un paio di settimane un altro psichiatra, prima di lui, e questi mi aveva allontanato con le stesse insinuazioni: si sentiva minacciato da me e voleva tenermi lontano dalla sua famiglia.
Non gliene avevo mai fatto una colpa per questo, in fondo, per uno psichiatra, l'unico modo per allontanare un paziente dalla sua vita e tornarsene tranquillo senza passare come un inetto o un coniglio, era dire che il paziente in questione rappresentava una minaccia per lui e la sua sfera di affetti.
Avevo lasciato passare un po' di tempo, e poi, vedendolo tornare a dormire più rilassato e disteso la notte, lo avevo sgozzato con il rosario di sua moglie ed avevo lasciato che il capro espiatorio di tutto, con la polizia,  fosse lei.
- Tate...lasciami adesso. Non c'è motivo per cui tu debba agire in questo modo con me - disse, sicuro sul fatto che le sue parole sarebbero andate a segno.
Lo lasciai andare e lui, sistemandosi l'indumento, si sedette sulla sua poltrona, sospirando.
- Tate, Tate... - disse, mentre si passava le mani sul viso - non dovresti comportarti così. Lo sai che ti voglio bene.
Lui mi voleva bene? Dopo ciò che gli avevo appena fatto, lui mi voleva bene?
Si alzò ed andò a prendere una bottiglia di scotch e due bicchieri lavorati in vetro soffiato.
- Voglio che brindiamo ai tuoi miglioramenti, piuttosto - disse, stappando la bottiglia con sonoro rumore.
Mi versò lo scotch e me lo porse. Poi fece lo stesso col suo bicchiere, e si alzò.
Andò a berlo davanti alla porta a vetri che dava all'esterno, osservando il paesaggio.
Io deglutì.
- Non volevo aggredirti, prima - gli dissi.
- Aaah, non importa! - fece Ben Harmon.
- Sta tornando da scuola - continuò, sorridente e orgoglioso.
- Chi? - dissi io, fingendo di non capire, trattenendo una certa emozione.
- Violet. E' così bella, la mia bambina...- disse Ben.
Mi alzai ed andai alla porta a vetri, accanto a lui.
Guardando fuori la vidi, in tutta la sua bellezza estasiante, crudele e senza scrupoli.
Ecco a chi assomigliava la sua bellezza. Assomigliava a me.
- Anche lei ti ama, sai? - disse Ben Harmon, sollevando lentamente il braccio sinistro mentre con l'altro reggeva il bicchiere, e portandolo dietro la mia testa, per spettinarmi i capelli come farebbe un padre.
A quella frase, il mio cuore smise di battere, emozionato.
Fu allora che Ben Harmon strinse nel pugno alcune ciocche dei miei capelli e mi sbatté la testa contro la vetrata, così forte da crearci sopra delle crepe bianche e ramificate come un albero spoglio.
Le orecchie presero a fischiarmi e dal naso rotto zampillarono dei rivoli di sangue caldo, che subito mi si depositò sul labbro e sul mento, gocciolando. Caddi all'indietro e Ben mi lasciò cadere. Sbattei la testa mentre la vista mi si offuscava.
Vidi solo un'altra cosa: Ben che beveva un altro sorso del suo scotch.
E Violet. Violet  intenta a cercare le chiavi di casa sua, che non aveva visto nulla di tutto ciò.
Poi, persi i sensi.

Al mio risveglio ero legato ad una sedia, giù in cantina.
Ben Harmon mi fissava pazientemente e la testa mi dava delle fitte tremende, come se la ruota di un autobus stesse passandoci sopra in quel momento.
- Le ho spedite - inaugurò, trionfante, Ben - e la mia richiesta sarà accolta entro poco. Danno priorità a certe richieste - disse lo psichiatra. Che idiota ero stato a credere che quella cartella clinica appartenesse al precedente strizzacervelli.
- Te ne andrai da qui, e non tornerai mai più. Starai lontano dalla mia famiglia. Aspettando che accolgano la mia richiesta di integrarti in qualche istituto, ho assoldato delle persone a sorvegliare l'integrità dell...
- TACI, FOTTUTO INFEDELE - lo interruppi io - Abbandona il tuo modo complicato di parlare con me!
Ben Harmon estrasse un coltello dalla tasca, ed andò alle mie spalle.
- Ti sorvegliano, Tate. Tu non rivedrai mai più mia figlia. Né qui, né a scuola - disse, mentre mi faceva passare lentamente la lama del coltello sulla guancia, sul mento ricoperto di sangue rappreso e sul collo.
Deglutì, tremante di paura, non per il coltello ma per via di Violet.
Tagliò le corde che mi tenevano i polsi e poi quelle che mi fermavano le gambe.
Mi prese per le spalle e mi spinse di sopra, fino alla porta.
- A mai più, Tate - furono le sue ultime parole, prima di aprire la porta e spingermi con una spallata fuori da casa sua.
Chiuse la porta alle sue spalle e restò lì, con una pistola spuntata dal nulla nella mano destra.
Mi sollevai, infilando il cancello e uscendo dalla sua proprietà, mentre guardavo in alto - verso la finestra di Violet - e la vedevo chiusa. Immaginabile: lei , come me, non amava la troppa luce.
- VIOLET! - chiamò suo padre, con la pistola in mano e lo sguardo fisso su di me che mi allontanavo - IL PRANZO E' PRONTO!
  
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