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Autore: Raven_Phoenix    02/02/2014    3 recensioni
Mello non sa cosa sia il significato di "vivere". Nel campo Rom in cui ha sempre vissuto nessuno si cura di cosa pensi o cosa faccia, l'importante é che porti un profitto alla comunità rimanendo sempre in fondo alla lista come un bravo cagnolino. Gli é sempre andata bene così pur di restare vivo, e non pensa nemmeno che possa esistere qualcosa o qualcuno che possa aiutarlo.
///
"Perché una persona come lui guardava proprio me?
Eravamo due opposti, lui trasmetteva emozioni da tutti i pori, io non trasmettevo proprio niente se non pena. Cosa l’aveva spinto a perdere una manciata di secondi della sua vita per guardarmi?
(...)
Poi sorrise.
Un sorriso abbagliante, pieno di tutta la carica e la positività che potesse avere in corpo… bellissimo.
La voce di un uomo ruppe quel momento, aveva chiamato un nome da lontano che non ero riuscito a capire, troppo distratto da ogni minimo particolare di quel ragazzino. Lui si rialzò senza smettere di sorridere, e mi regalò un’unica, cortissima frase.
-Contro i pensieri cattivi.- e dopo di questa si voltò scappando via."
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: L, Light/Raito, Matt, Mello, Near, Ryuuk, Un po' tutti | Coppie: L/Light, Matt/Mello
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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ATTENZIONE: ci tengo a precisare che per qualche oscuro motivo dovevo aver sbagliato qualcosa e questa ff risultava essere una oneshot completa. NON LO É! É solo l'autrice ubriaca che fa casini con le impostazioni u___u'



OMG non posso credere che lo sto facendo davvero ** sto pubblicando una nuova ff!
Ormai sono irrecuperabile, sono totalmente persa in questo fandom stupendo e non intendo smettere u_u' 
Che dire... questa é una ff mooolto diversa dall'altra che sto mandando avanti (per chi non sapesse, si tratta di "The city of the sweet flavours" che altro non é che il seguito di "Chocolate and smoke on the school", se vi interessa buttateci un occhio ^^) 
Ho un piccolo avvertimento che mi sembra giusto fare, voglio essere onesta: volevo aspettare a pubblicare quella fic, perché sinceramente ora come ora sono presissima e realizzata oltre ogni modo per come mi sta uscendo, ma conoscendomi, e sapendo che ho in porto altri progetti di maggiore importanza, non posso garantire al 100% che non arrivino improvvisi blocchi dello scrittore come mi era già successo anni fa, e quindi lunghe pause di pubblicazione. Però voglio provarci lo stesso! Non sia mai che mi diate voi la forza di continuare, quindi datevi da fare anche voi eh u.u ho una autostima bassissima! è_é 
Detto questo non voglio stressarvi oltre con i miei monologhi e vi lascio alla lettura ^^



Capitolo 1:
 
 
Era strano… la gente diceva sempre le stesse cose tutti i giorni. I soliti saluti, le solite domande di circostanza, le frasi d’effetto per incoraggiarsi ad affrontare una nuova giornata con il sorriso. Di tutte le cose che sentivo dire alla gente a tutte le ore, instancabilmente c’era una frase che veniva usata più delle altre, magari detta ogni volta con parole diverse, ma significava sempre la stessa cosa: “la vita è un dono, trattala con rispetto e non pensare mai che la tua valga meno delle altre.”
Brave persone, quelle che facevano dono ad altre di questo prezioso consiglio.
Perché era una frase profonda… e la più grande stronzata del mondo.
 
-Mihael! Mihael!-
Non avevo nemmeno aperto gli occhi che già qualcuno ce l’aveva con me, sai che novità. Pregavo soltanto che il mal di testa della sera prima se ne fosse andato.
-MIHAEL!-
Con uno sbuffo scalciai via la coperta rattoppata che odorava di vecchia signora con venti gatti in giro per casa, che caldo di certo non teneva, era giusto per avere quella sensazione di essere coperto da qualcos’altro oltre ai vestiti.
Riconoscevo l’accento marcato di Anita, e già di per sé non era una buona cosa che fosse lei a cercarmi, perciò decisi di alzarmi alla svelta, andando a tentoni per trovare le mie scarpe sperando che nessuno me le avesse fregate durante la notte. Riconobbi il buco nella suola sinistra; ok, erano le mie. Percorsi il mezzo metro che separava il mio letto dalla porta, e un cielo plumbeo mi accolse da dietro le tendine di plastica colorate, insieme all’olezzo generale che caratterizzava le mie giornate. Il campo Rom si estendeva davanti a me in tutto il suo squallido splendore, costellato di roulottes malandate uguali a quella da dove ero appena uscito.
-La vita è un dono… tsk.- borbottai prima di stiracchiarmi; ormai era diventato come un rituale anche per me dire quelle parole, più come una presa per il culo vista la mia situazione.
-Mihael! Vuoi farmi spezzare le corde vocali, deficiente?- sentii alle mie spalle la voce ansimante di Anita, nemmeno avesse percorso chilometri, o forse per lei lo sembravano con quel grosso culo flaccido che si trascinava dietro da tutta la vita.
-Sì?- dissi cercando di ignorare quanto fosse roca la mia voce.
Anita era la tipica donna di mezz’età più larga che lunga, tanto che le gonne che metteva sempre sembravano dei tendoni da circo, per non parlare del terribile profumo che usava a litri ogni giorno per nascondere l’olezzo. Non sapevo se fossi più disgustato o impaurito da lei, ma avevo imparato negli anni a non contraddirla mai. Forse potevo farlo con altri li dentro, ma non di certo con lei se volevo arrivare ancora con tutte le ossa a posto a fine giornata, o se ero fortunato con pochi lividi qua e là.
-Disgraziato, hai dormito fino adesso.- appena mi vide mi arpionò la spalla con le sue tozze mani munite dei suoi artigli laccati di rosso vivo che mi davano sempre la nausea.
-Fransiska non mi ha svegliato quando è uscita.- risposi rimanendo impassibile come una lastra di marmo.
Nemmeno quella era una risposta intelligente da darle.
-Vorresti dare la colpa a lei? Eh? Non osare mettere nei guai la mia bambina, idiota!- abbaiò stringendo ancora di più la presa.
Non volevo dire questo…- tentai inutilmente di difendermi, ma sapevo già in partenza che non sarebbe servito a niente. Quando si metteva in testa una cosa, specialmente se ero io la causa o se la sua amata figlia Fransiska era coinvolta, quella era e quella rimaneva.
-Sta zitto, sta zitto! Forza muoviamoci, grazie a te ci perdiamo l’orario di punta. Oggi ci metteremo al negozio d’alimentari, e non ti muoverai da li finché non sarò soddisfatta di quello che avrai racimolato, chiaro bastardello?- sbraitò dandomi uno spintone.
-Sì,sì…- cercai di darle ragione alla svelta per calmarla subito, e fortunatamente quel giorno non doveva essere in vena di insulti perché si voltò imbronciata procedendo a passo di marcia facendo segno di seguirla –stronza.- mormorai a bassa voce cercando di non pensare alla giornata che si prospettava.
Passammo in mezzo ad un gruppetto di ragazzi della mia età che stavano attorniati attorno a un vecchio che suonava la fisarmonica, battendo le mani a ritmo ed inventandosi parole a caso cantando sguaiatamente come se fossero già ubriachi di prima mattina (e alcuni di loro probabilmente lo erano).
-Oh, oggi tocca a te, Mihael?- disse allegramente Ivan, il ragazzino mulatto con la camicia che un tempo doveva essere stata azzurra.
-Sta’ zitto, coglione. Tanto domani è il tuo turno.- risposi dandogli uno spintone.
Era il gesto più amichevole che sapessi fare.
-E credi che tu ci sarai ancora domani mattina per vederlo andare a lavorare?- disse un altro, grosso e inutile, con lui era vero il detto che più grandi sono e più rumore fanno quando cadono.
Con lui non c’era spazio per le parole, gli sputai direttamente in un occhio causando le risate di tutti gli altri.
-Brutto frocetto…- mi si avvicinò pericolosamente, e io avevo già aperto le braccia pronto ad aspettarlo.
-Coraggio Miko, vieni a farti tagliare la palle.-
-Ti piacerebbe, tutta invidia perché secondo me sotto sotto non le hai.- mi arrivò talmente vicino che potevo sentire il suo alito quasi corrosivo addosso.
-Miko non adesso, razza di cretino. Non posso portarlo sanguinante in mezzo alla gente o chiameranno la polizia. Vedetevela stasera, potrai anche tagliargli una gamba, non mi interessa.- intervenne Anita tirando uno scappellotto a entrambi per poi trascinarmi via per un braccio.
Avrei preferito mille volte fare a pugni con ogni singola persona li dentro (non che solitamente facessimo qualcosa di diverso) piuttosto che andare a lavorare con Anita. Era lei che dirigeva tutti noi giovani, ci addestrava fin da piccoli e ci preparava a diventare dei mostri proprio come tutta la feccia adulta che viveva nel campo.
Ladri, borseggiatori, attori, esperti in qualunque genere di raggiro pur di riuscire ad estorcere denaro dalle tasche dei cittadini ignari e abbastanza creduloni da cascarci. La mia vita era così fin dai primi giorni nella quale si perdevano i miei ricordi d’infanzia, e ogni giorno andava peggiorando sempre di più. Quando ero piccolo mi portavano ai supermercati dandomi il compito di distrarre i cassieri rovesciando qualcosa dagli scaffali mentre gli altri se la svignavano con più roba possibile nascosta nelle tasche e sotto alle giacche, ora invece mi stavano portando verso “l’iniziazione”, l’arte vera e propria di truffare la gente, ognuno con la sua tattica. Il mio punto forte? La mia magrezza, i miei capelli biondi, i miei occhi azzurri… e la mia cicatrice.
Non avevo mai avuto il coraggio di chiedere come avessi potuto farmela siccome ce l’avevo fin da quando ero in fasce, a detta loro, e questo mi faceva sempre venire il dubbio che non fosse stato un banale e tragico incidente, conoscevo gente che era arrivato ad amputarsi una mano o un piede pur di avere delle armi convincenti per smuovere la compassione dei passanti. Il trucco del povero ragazzino sfregiato aveva sempre funzionato, forse si degnavano di farmi trovare un pasto sicuro al giorno proprio per questo, anche se ultimamente le cose andavano a complicarsi. Il mio bello sfregio che occupava metà del mio viso e che scendeva fino al collo crescendo stava sbiadendo, diventando sempre meno visibile, tanto che ultimamente erano arrivati al punto di dovermi truccare per farla risaltare di più. Nonostante odiassi con tutto il mio cuore quella cicatrice il mio terrore più grande, al contrario di qualunque altra persona sana di mente, era perdere il mio asso nella manica. Ero già in disgrazia, a quattordici anni non eccellevo ancora in nessun campo quando dodicenni erano rapidi il triplo di me nell’estrarre un portafogli dalla tasca di qualcuno.
Loro ce l’avevano nel sangue… io no.
Forse era quella la cosa che mi faceva più detestare quel posto nonostante mi permettesse di rimanere in vita e non stare direttamente sotto un ponte (a volte però mi chiedevo se non fosse meglio), il fatto che io non fossi li perché ero figlio legittimo di uno di quegli schifosi. Tutto quel che sapevo era che mi avevano accettato tra di loro perché la mia vera madre mi aveva venduto, tutto per poter tirare avanti con le dosi qualche mese in più. Potevo quindi autodefinirmi tranquillamente “un figlio di puttana”, carino vero?
Ormai, però, a quella vita ero abituato. Ero cresciuto così, senza sapere cosa potessero essere quattro mura solide attorno, cosa si provasse ad avere un pasto caldo tre volte al giorno, a come fosse potersi fare più di una doccia ogni due settimane, e magari anche con l’acqua calda, l’affetto di una famiglia… forse l’affetto in generale. Ma del resto come poteva mancarmi una cosa che non avevo mai avuto?
Anche se…c’era una cosa.
A volte mi veniva qualche pensiero strano quando si avvicinava il Natale. Vedevo tutte quelle famiglie e tutte quelle coppie felici, alla ricerca del regalo più bello del mondo per una persona importante, e a quel punto mi rendevo conto di non aver mai incontrato una persona che mi spingesse a fare una cosa del genere. Non avevo mai sentito l’impellente desiderio di fare felice qualcuno sacrificando qualcosa di mio, né altri si erano anche solo sognati di fare una cosa simile per me.
Tutto questo, però, spariva appena gli addobbi se ne andavano, e io tornavo quello di sempre.
-Stai un po’ fermo.- ringhiò Anita mentre mi spalmava sulla faccia una sorta di terra scura sulla cicatrice, andando ad aggiungerlo a tutti gli strati incrostati che ancora non avevo potuto lavare via.
Sospirai quando fummo pronti e ci avviammo verso il supermarket prescelto per quel giorno.
-Oggi una cosa facile, ok? Tu rimani seduto per l’elemosina mentre io leggerò la mani ai passati. Tieni gli occhi aperti se sporge qualcosa di interessante dalle loro borse o dalle tasche dei pantaloni. Fai attenzione, appena vedi qualcosa di sospetto di’ la parola d’ordine e ce la filiamo. Credi di riuscire a farcela con queste cazzate da lattante?- spiegò parlando veloce come un treno mentre cercava di mantenere un passo svelto, ma la sua mole la stava mettendo come sempre in grave difficoltà, con stomachevoli rivoli di sudore che gli scendevano dalle tempie.
Individuai il posto migliore per appostarmi, e non appena fummo nella “zona rossa” (così definivamo il raggio d’azione) iniziai a camminare più lento, dondolandomi e guardandomi in giro fingendo di non sapere esattamente dove fossi, tutte tattiche per attirare la compassione della gente. Guardai Anita, e ogni volta mi stupivo di quanto potesse cambiare da un opposto all’altro, una attrice nata. Era diventata una signora dallo sguardo triste, i suoi gesti rudi si erano trasformati in morbide carezze, sembrava piena di premure nei miei confronti mentre stendeva a terra la coperta dove poi mi aiutò a sedermi, coprendomi fino al collo (ma lasciando bene in vista la mia ferita di guerra). In ultimo sistemò un cappello davanti a me e prese la sua posizione. Fortunatamente quel giorno non dovevo fare niente se non sembrare il più sofferente e disperato possibile, al massimo sorridere quando qualcuno impietosito lasciava cadere qualche moneta nel mio cappello. Ormai non sapevo più nemmeno cosa fosse l’orgoglio in quei casi, mi serviva solo per farmi valere con gli altri, per il resto non serviva assolutamente a niente.
Guardavo tutti quei volti puliti, e non sapevo nemmeno se odiassi loro oppure odiassi me stesso. Così curati, nemmeno si accorgevano della fortuna di poter camminare a testa alta per le strade e con il sorriso sulle labbra, con la convinzione che alla fine di quella giornata avrebbero varcato la porta di casa loro, avrebbero dato un abbraccio ai membri della loro famiglia, si sarebbero seduti  a tavola placando il buco allo stomaco, e avrebbe consumato una tranquilla serata al caldo, magari con un buon libro. Come avrei voluto poter leggere dei libri… diversi dall’unico che possedevo.
A volte di notte mi immaginavo delle storie, storie dove io ero un principe bellissimo e amato da tutti, capace di fare qualunque cosa. Ma ero anche una persona normale, con una persona che amavo più di ogni altra cosa, la mia unica ragione di vita… la sensazione che se quella persona fosse sparita non avrei potuto vivere…
Invece chi ero io?
Uno stupido schiavetto di un circolo dannato che non si poteva più abbandonare una volta che ne si faceva parte. Si viveva con la convinzione che se si riuscisse a superare i diciotto anni la morte più misericordiosa da poter ricevere era essere investiti da un camion. Le alternative peggiori erano venire strangolato, un colpo da arma da fuoco, una manganellata ben assestata da parte di un poliziotto manesco, marcire in prigione, esalare l’ultimo respiro per colpa di una malattia impossibile da curare… e si rimaneva in silenzio a sgobbare per quelli delle “cerchie alte”, quelli che si tenevano i guadagni e li sperperavano senza ritegno, perché solo loro erano degni.
Erano queste le mie aspettative di vita, talmente povera e ingiusta che perfino fantasticare era quasi una lussuria. Carlo, il tizio anziano che suonava sempre la chitarra definito il cantastorie del campo, mi chiamava “quello che non dorme mai sul serio”, proprio perché oltre agli incubi non sognavo mai, e avevo paura di iniziare a farlo. Avevo paura che un giorno avrei potuto desiderare che diventassero realtà, e allora si che mi sarei fatto seriamente male. Alla fine, mi dicevo, non era poi così male; che preoccupazioni potevo avere se non c’era niente da perdere?
Nessuna paura, se non della morte.
Non pensavo che quei pensieri di li a poco sarebbero cambiati radicalmente per sempre.
Me ne stavo lì, a fare la mia parte, talmente sovrappensiero da non vedere nemmeno la gente che mi passava davanti e che impietosita lasciava cadere qualche monetina nel cappello.
Sobbalzai quando mi accorsi di quegli occhi enormi che mi fissavano.
Era come vedere due smeraldi liquidi, pieni di mille sfaccettature diverse, mossi da una cosa di cui avevo sempre solo sentito parlare: la voglia di vivere.
Mi accorsi che il proprietario di quei capolavori non era una bella donna bionda, ma un ragazzino della mia età.
In quel momento non potevo sapere, anzi, non potevo neanche lontanamente immaginare quanto quel momento poteva essere importante.
Vedevo solo un ragazzino curioso che mi fissava insistentemente, quasi in maniera fastidiosa. Non potei fare a meno di notare quanto fosse particolare, con quei capelli rossi scompigliati simili a lingue di fuoco, la pelle pallida e qua e là giusto un accenno di efelidi sul viso. Era avvolto in una felpa enorme grigia che gli dava l’aspetto di Cucciolo dei sette nani, e tra le mani teneva una console portatile dall’aria costosissima.
Non seppi nemmeno perché anch’io rimasi a fissarlo, era come se una strana forza mi impedisse di distogliere lo sguardo dai suoi occhi. Quegli occhi… sembravano volermi parlare, dirmi quanto per loro fosse bello il mondo, l’ingenuità che faceva vedere solo i lati positivi… l’ingenuità che avrei dovuto avere anch’io, forse.
Senza rendermene conto il mio cuore aveva leggermente aumentato il suo battito, e se fossi stato in piedi probabilmente le ginocchia avrebbero preso a tremarmi.
Perché una persona come lui guardava proprio me?
Eravamo due opposti, lui trasmetteva emozioni da tutti i pori, io non trasmettevo proprio niente se non pena. Cosa l’aveva spinto a perdere una manciata di secondi della sua vita per guardarmi?
Mosse un passo nella mia direzione e io rimasi li immobile, rapito da ogni suo movimento, come i suoi capelli ondeggiavano morbidi, alla fine nuvoletta di condensa che si formava davanti alla bocca ad ogni respiro, la sua camminata un po’ incerta. Ora era davanti a me, al bordo della mia coperta, talmente vicino che per poco sentii il suo profumo, dolce e sfuggente, come una cosa rarissima. Non disse niente, si abbassò soltanto senza distogliere i suoi occhi dai miei, e fece scivolare svelto qualcosa nel capello delle offerte.
Poi sorrise.
Un sorriso abbagliante, pieno di tutta la carica e la positività che potesse avere in corpo… bellissimo.
La voce di un uomo ruppe quel momento, aveva chiamato un nome da lontano che non ero riuscito a capire, troppo distratto da ogni minimo particolare di quel ragazzino. Lui si rialzò senza smettere di sorridere, e mi regalò un’unica, cortissima frase.
-Contro i pensieri cattivi.- e dopo di questa si voltò scappando via.
Lo seguii con lo sguardo, con l’impellente desiderio di fermarlo tanto che per poco non mi alzai di colpo mandando all’aria la mia parte del giovane menomato. Feci appena in tempo a vederlo raggiungere un uomo altissimo con un cappotto grigio scuro che non riuscii a vedere in volto, poi una frotta di passanti si mise in mezzo, e persi ogni traccia di loro.
Rimasi per un attimo stranito, la mente annebbiata dall’ormai ricordo di quello che era appena successo. Cosa mi era preso? Era solo un passante più curioso degli altri che voleva lasciarmi un’offerta, ero li per quello in fin dei conti.
Eppure le sue parole… cos’aveva detto? “Contro i pensieri cattivi”?  Doveva essere fin troppo positivo se pensava che una monetina mi avrebbe cambiato la vita.
Presi il cappello tra le mani per guardare quanto avessi racimolato finora, e rimasi spiazzato da quello che ci trovai, la cosa più inaspettata che avrei potuto pensare.
Un pezzetto di cioccolato.
Era appena un quadratino, piccolo e imperfetto, ma subito ebbi un tuffo al cuore. Al campo solo gli adulti avevano il diritto di mangiarlo, era tassativamente proibito prenderne anche solo mezzo angolino dalle loro scorte siccome era una delle cose più apprezzate, come una sorta di lusso. Quante volte li avevo visti la sera, intenti a passarsi quelle tavolette scure spezzandole e trangugiandole avidamente. Mi chiedevo sempre che sapore potesse avere e perché tutti ridevano così tanto ogni volta che lo mangiavano.
Lanciai uno sguardo furtivo ad Anita con il terrore che vedesse, ma la trovai estremamente impegnata nel tentativo di leggere la mano ad una donna a una decina di metri da me. Non rimasi a rimuginarci mezzo secondo di più, raccolsi il piccolo pezzettino di cioccolato e me lo ficcai velocemente in bocca. Lo masticai lentamente godendomi ogni singolo attimo di quel gusto nuovo, dolce ma allo stesso tempo amarognolo, un miscuglio indescrivibile, forse la cosa più buona che avessi mai assaggiato. Avevo la sensazione di essere stato diviso dal mondo reale ed essere trasportato in un posto bellissimo, privo di quel grigiume che permeava le mie giornate da quando avevo memoria. Era tutto reale o forse stavo per morire?
No… ero vivo, ed era proprio questa la cosa che mi faceva sentire tanto strano. Mi accorsi del mio respiro, dell’aria che riempiva i miei polmoni, e di quello che i miei occhi potevano vedere.
E senza volerlo sorrisi, senza una ragione, senza un perché. Sorrisi perché mi andava di farlo, perché avevo sentito di essere vivo dimenticando tutto il resto. Qualunque cosa poteva aspettare, tutte le negatività dovevano attendere in silenzio finché il sapore del cioccolato non sarebbe svanito completamente dalle mie labbra.
Dopo qualche minuto tutto era tornato lentamente alla normalità, anche se mi erano rimaste le farfalle nello stomaco, e quella sensazione non mi abbandonò fino a sera, quando tornammo al campo.
Anita mi insultò due o tre volte ma non ci feci nemmeno caso, mi ero messo tranquillo su una di quelle sedie rattoppate fuori dalla roulotte di Carlo sbocconcellando una fetta di pane e un pezzetto di formaggio, la mia cena per quella sera siccome per gli altri non avevo guadagnato abbastanza quel giorno., ma anche questo per una volta non mi importava.
-Che hai, piccolo Mihael? Hai visto una bella signora oggi?- chiese Carlo mentre accordava la sua chitarra.
Scossi la testa osservando il cielo stellato.
-Ti sei mai chiesto se da qualche parte ci sia qualcuno che manovra tutto il mondo e che a volte si diverte a far succedere, che so, delle cose strane? Così, senza nessun apparente motivo, solo per vedere che succede.- dissi immaginandomi come la pedina di una scacchiera, e una mano enorme che mi spostava di casella in casella accanto alla pedina del ragazzo con i capelli rossi.
Carlo rise dando anche qualche colpo di tosse.
-Certo che c’è, ed è una personcina molto particolare.- si avvicinò con fare confidenziale –Io lo chiamo il signor Destino.-
Aggrottai la fronte, convinto che mi stesse prendendo in giro come al solito, perciò non tirai più fuori l’argomento anche se continuavo a pensarci. Mi ritirai nella mia roulotte che condividevo con altri sei giovani come me, al momento ancora fuori intenti a giocare a una partita di calcio improvvisata con un pallone un po’ troppo sgonfio. Mi stesi sul mio letto malridotto tirandomi la vecchia coperta maleodorante fin sopra al naso, finalmente da solo. Certe volte quando mi trovavo lì, a rimuginare sui miei stessi pensieri, piangevo in silenzio senza nessun apparente motivo, finché non crollavo sfinito. Altre volte, invece, mi facevo teorie tutte mie sul mondo, su tutto quello che in generale mi sembrava interessante, e finivo spesso con il parlare da solo.
Quella sera invece ero talmente stranito che non successe nessuna di quelle cose. Volevo solo dormire, niente di più.
-Il signor Destino…- borbottai chiudendo gli occhi.
Poi mi tornò in mente il cioccolato, poco prima che mi addormentassi.
-Contro i pensieri cattivi.- mormorai poco prima che le braccia di Morfeo.
E forse per la prima volta, quella notte sognai.
 



Eccoci quiiiii *___* come vi sembra?? Vi prego, ogni commento é essenziale per me proprio perché questo progetto é nuovo e molto incerto, e ho bisogno di un mucchio di pareri per migliorarlo il più possibile >____< 
Spero che lo leggiate in tanto e spero che continuiate a seguirmi (vi prego non abbandonatemi :'D) 
Recensite recensite recensiteeeeee!!!
Ciauuuuuu <3
  
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