Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |      
Autore: Fannie Fiffi    02/02/2014    2 recensioni
Un tentativo in quattromilasettecentocinquantacinque parole di entrare nella testa di Sherlock e di decifrare in qualche modo i suoi sentimenti per Molly.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
You Are Enough
 

 
When we woke up / Quando ci siamo svegliati
The world was figured out / il mondo era risolto
Beyond the beauty we’ve dreamt about. / oltre la bellezza che abbiamo sognato.
This brilliant light is brighter than we’ve known, / Questa luce brillante è più luminosa di quanto abbiamo saputo
Without our darkness to prove it so. / senza la nostra oscurità a provarlo.
Still, we can’t help but to examine it. / Eppure non possiamo fare a meno di esaminarla.


“You are enough.” / "Sei abbastanza"
These little words, somehow they’re changing us. / Queste piccole parole ci stanno cambiando in qualche modo
“You are enough.” / "Sei abbastanza"
So let our shadows fall away like dust. / Quindi lasciamo che le nostre ombre cadano via come polvere.




 
Cinque giorni erano passati da quando Irene Adler era inaspettatamente tornata nella vita di Sherlock Holmes.
Cinque giorni da quando una modesta e breve lettera firmata da Molly Hooper era giunta al St. Bartholomew’s Hospital di Londra in una mattinata tetra e uggiosa, lettera in cui la donna spiegava concisamente i – fasulli – motivi di salute che l’avevano spinta a smettere di essere una patologa.
“È meglio così, per il bene di tutti.” Era questo che Molly continuava a ripetersi da cinque giorni a quella parte. Non poteva certo permettersi che una donna che si faceva chiamare la Dominatrice – anche solo pronunciare mentalmente quel nome la infastidiva terribilmente – potesse avere una così grande influenza nella sua vita, perciò dopo un’attenta analisi era giunta alla dolorosa conclusione di dover abbandonare tutto.
Avrebbe smesso di vedere, di parlare, perfino di pensare a Sherlock Holmes e avrebbe condotto una tranquilla e pacifica vita senza il bisogno che omicidi, crimini, indovinelli e misteri si ripresentassero costantemente alla sua porta, anche se questo significava abbandonare il suo tanto adorato lavoro. Non sapeva spiegarsi perché si fosse decisa proprio ora a dare una svolta alla propria vita, tutto ciò di cui era certa era che Sherlock non avrebbe più avuto alcun tipo di potere su di lei, non gliel’avrebbe permesso.
 
***
 
 
— John, John, John! Andiamo, John, svegliati! — Se c’era una cosa che Sherlock Holmes non era mentalmente in grado di sopportare, erano le persone che dormivano. Era incredibile come non smettesse mai di sorprendersi degli atteggiamenti tanto banali delle persone comuni. Tenevano il cervello spento per tutta la giornata e poi avevano anche bisogno di riposarsi. Incredibile!
— Sherlock, che diavolo vuoi? — mormorò la voce impastata dal sonno di John Watson, il suo migliore amico. Ormai avrebbe dovuto imparare che Sherlock non si spegneva mai, che era una macchina così magnificamente attiva e odiosamente dinamica, eppure continuava a stupirsi dei suoi quantomeno buffi atteggiamenti.
— John, carissimo, ti ho mai detto quanto le fibre del tuo materasso siano così poco ergonomiche? —
— Sherlock… — il sospiro che seguì quella breve affermazione fu perfettamente udibile in tutta la stanza buia: era un sospiro afflitto, desolato. — Mi hai svegliato nel bel mezzo della notte solo per dirmi quanto le fibre del mio materasso siano così poco ergonomiche? —
— Lascia che faccia un piccolo appunto su ciò che hai appena detto, prima di rispondere alla tua effettiva domanda. Non siamo nel bel mezzo della notte, sono le 4.45 di una splendida mattina di metà marzo, la temperatura varia dai 10 ai 12 gradi centigradi fra Londra e Cardiff e le persiane della signora Hudson si sono appena spostate leggermente verso nord-est. Dunque, John, non ti ho svegliato per discutere del tuo materasso – per quanto possa essere interessante l’argomento, ovviamente – bensì per dirti che Molly Hooper si è licenziata e devo necessariamente saperne il motivo. È di vitale importanza, direi. —
 Capendo di aver ormai perso il sonno, John Watson si mise seduto sul letto e cercò di organizzare le idee. Dopo qualche secondo, ventitré per l’esattezza, parlò: — Molly si è licenziata da cinque giorni, Sherlock. —
— Ehm, sei. — mormorò Sherlock.
— … Perché te ne accorgi solo adesso, per di più alle 4.45 del mattino? — domandò l’amico alzando le spalle e grattandosi la nuca. Pover’uomo chi pensava di conoscere ogni sfumatura del carattere di Sherlock Holmes.
— Sono stato occupato e, insomma, non posso mica preoccuparmi della mia patologa a ogni ora del giorno e della notte. Insomma, mi è sfuggito. — se quella doveva essere una qualche giustificazione, sicuramente John non le diede molto peso.
— Cos’è stato questo rumore? — chiese guardandolo con un sorrisino compiaciuto, sviando per un attimo l’argomento.
— Il panettiere qui sotto, l’ex fidanzato della signora Hudson, ha appena chiuso lo sportello del terzo forno sul retro. — rispose pronto l’investigatore.
— Sherlock, a te non sfugge niente. — dimostrò l’altro, annuendo e alzandosi finalmente dal letto. Entrambi si diressero verso la cucina in totale silenzio, Sherlock perso nei propri pensieri e John alla ricerca della macchinetta del caffè.
— Dove hai messo la… —
— Mh, sì, nel water. Sto conducendo un esperimento. Non chiedere. —
Arreso all’idea di non poter nemmeno bere una tazza di caffè assolutamente amaro, John guardò l’amico dritto negli occhi.
— Ha per caso a che fare con il ritorno di Irene? —
Sherlock, che era rimasto a fissare fuori la finestra, si voltò verso il dottore con un’espressione totalmente seria e imperturbabile.
— Irene? Irene? No, no, assolutamente. Perché dovrebbe. Penso solo che se la mia patologa se ne va, io devo saperlo. Non credi anche tu? — c’era un lieve tono di isteria nella voce profonda di Sherlock Holmes, un’agitazione che mai nessuno aveva riscontrato in lui.
— Oh, beh, dipende. — rispose John portando le mani a sorreggere il capo. — Cosa vuoi che ti dica? —
— Tu, amico mio, niente. Non devi dirmi niente. Quella che deve parlare è Molly e deve farlo ora. —
Senza aspettare una risposta che molto probabilmente non sarebbe arrivata, l’uomo prese l’amato cappotto e, dopo aver sollevato il bavero, uscì in fretta e furia dalla porta di casa. Nulla importava che fossero quasi le cinque del mattino.

 
***


— Molly Hooper, apri immediatamente questa porta! — se a svegliare la donna non fossero bastate le urla che Sherlock aveva appena tuonato, ci avrebbero sicuramente pensato i pugni pesanti contro la porta di ingresso di quella piccola casa. L’investigatore dal cappello buffo attese trentasei secondi prima di battere nuovamente contro l’ingresso. Continuando di questo passo, l’avrebbe buttato giù.
Stava per bussare molto delicatamente un’altra volta quando sentì dei passi leggeri scendere quindici scalini in legno e raggiungere la porta. Percepì l’esitazione della donna attraverso lo stipite e si figurò perfettamente la patologa che si risistemava i capelli disordinati e si passava una mano sulla pelle liscia. Ancora nove secondi di attesa e poi Molly si affacciò timidamente. Era assonnata, qualche accenno del trucco del giorno prima le contornava gli occhi ancora lucidi per il torpore. Quando si accorse di chi aveva davanti, si raddrizzò immediatamente e fece un passo indietro. Era vigile e attenta, pronta a non farsi condizionare dalle sue moine, dai suoi occhi e dal suo aspetto così meravigliosamente affascinante.
— Sherlock? — sussurrò impaurita guardandolo attentamente. No, non doveva mostrarsi così intimidita da lui. Doveva essere forte, doveva tenergli testa.
Si schiarì la voce e riprovò, più decisa: — Che ci fai qui? — era rimasta appoggiata all’uscio senza dargli la possibilità di entrare e stava decisamente evitando il contatto visivo con lui.
— Cercavo te. — Sherlock scandì bene le due parole prima di posare una mano sul legno ed esercitare una breve pressione; Molly si spostò contro voglia e lui riuscì a intrufolarsi. Non che avesse poi molta scelta.
— Non dovresti essere qui. — lo guardò per la seconda volta.
— Eri sveglia. — non era una domanda, non c’era alcun tono sorpreso nella sua voce. Era una semplice constatazione.
— Ho problemi a dormire. — rispose lei portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio sinistro e puntando lo sguardo sui propri piedi.
— Guardami, Molly. —
L’avvertimento non sortì l’effetto desiderato, anzi, non fece che mettere la donna ancora più a disagio. Non voleva guardarlo, perché sapeva che poi non sarebbe più stata in grado di mandarlo via.
— Ti prego, Sherlock, vattene. — la sua voce era un debole tremolio disperso nel silenzio della casa; i suoi occhi vagavano ovunque, cercando di non concentrarsi in quegli unici due punti che valeva la pena guardare.
— Non me ne andrò finché non mi dirai perché hai lasciato il tuo lavoro. — fece due passi in avanti, verso di lei, cercando un qualche punto di contatto fra i loro corpi. La mente di Sherlock viaggiava velocemente, analizzava ogni singolo angolo e centimetro della casa, contava i granelli leggeri di polvere che li circondavano, conteggiava quanto tempo ci era voluto per pavimentare la stanza, calcolava l’angolazione delle finestre e l’ora della giornata in cui il sole illuminava di più le stanze, tutto questo per non dover pensare a ciò che stava succedendo. Quando si trattava di Molly, lui diventava improvvisamente cieco.
— Problemi di salute. — non c’era alcuna sicurezza nel modo in cui aveva parlato, si era trattato quasi di un sospiro. Molly fece un passo indietro e simultaneamente Sherlock ne compì uno avanti.
— Stai mentendo. — l’uomo sorrise compiaciuto e alzò una mano per toccarle il collo; con un gesto solo apparentemente involontario le sfiorò la carotide – il suo cuore sembrava voler esplodere, tanto palpitava – e posò delicatamente una mano sulla sua guancia. Le sue dita scivolarono lentamente verso il mento, dove fece una lievissima pressione per costringerla ad alzare il viso e guardarlo. In questo modo sapeva che la stava facendo impazzire, poteva percepire il suo respiro accelerato e le pulsazioni sempre più frequenti. Se doveva ricevere una risposta, beh, quello era il metodo migliore.
Notando che Molly era ostinatamente decisa a non proferir parola, decise di cominciare: — Lascia che ti spieghi cos’è successo. Lo stesso giorno in cui hai saputo che Irene era tornata, hai inviato una lettera in ospedale dicendo di doverti licenziare per motivi di salute. Quattro righe, non di più. Hai usato la firma importante, una stilografica Parker in acciaio – probabilmente un regalo di tuo padre -, un foglio per la stampa e una busta in cartoncino rigido, presumibilmente perché contavi che interessasse più l’aspetto che il suo effettivo contenuto. L’hai scritta lì, su quella scrivania, dove spesso sei solita scrivere lettere che non raggiungeranno mai il loro destinatario, forse perché non hai quasi mai il coraggio di dire ciò che realmente pensi; ma di questo ne parleremo un’altra volta.
Ora, signorina Hooper, torniamo a noi. A questo punto della vicenda anche Graham Lestrade sarebbe in grado di dedurre che il ritorno di Irene Adler e il tuo licenziamento al St. Bartholomeow’s siano necessariamente e strettamente correlati fra loro. Dunque, rimane solo da capire perché. Perché faresti una cosa del genere? — domandò Sherlock assottigliando gli occhi e scrutando attentamente il suo viso.
Molly era rimasta in silenzio per tutto il tempo, aveva compito un enorme sforzo per rimanere concentrata sentendo quella mano tanto grande accarezzarla delicatamente. Aveva gli occhi lucidi, Molly Hooper, sentendo quell’uomo parlarle così, dirle che era semplicemente una vigliacca. Era così geniale, Sherlock, eppure non era ancora riuscito a vedere l’evidenza.
— Hai ragione, sono una codarda. Ma sono sicura che per capirlo non sarebbero servite le tue brillanti tesi. Non dovresti sprecare il tuo tempo così. —
— Questa non è una risposta, Molly. — bisbigliò l’investigatore allargando gli occhi e avvicinandosi ancora un po’ di più, arrivando quasi a sfiorarle il naso con il proprio.
— Perché fai così? — chiese lei alzando di poco il volto, cercando di raggiungere i suoi occhi, tentando di comunicargli che non riusciva più a fare niente senza di lui, che non poteva più sopportare di vederlo così inconsapevole.
— Così come? — la interrogò corrugando le sopracciglia e assumendo un’espressione accigliata. — Aiutami a capirti, Molly. —
— Come può uno come te non capirmi, Sherlock? — la disperazione nella sua voce era così evidente, così cristallina.
— La verità è che non ci riesco. Sì, certo, posso desumere che ieri sera hai lavato i capelli con uno shampoo naturale miele e camomilla, che dormi principalmente dal lato sinistro, che in fondo questa casa non ti piace poi così tanto, che al liceo ti sedevi sempre nella terza fila centrale, ma non riesco a decifrarti. —
— Tutto quello che devi fare è risolvere una semplice equazione. Mi troverai lì. — Molly gli sorrise dolcemente, un angolo della bocca tremante, e alzò una mano ad accarezzargli la guancia destra. Il contatto non durò più di quattro secondi, perché subito si ritrasse e fece tre passi indietro, entrando definitivamente nel salotto. Era tutto così sfuggevole, banale.
— Vuoi sapere perché ho lasciato il mio lavoro, Sherlock? — chiese dandogli le spalle, accarezzando distrattamente la coperta sul divano mentre guardava fuori dalla finestra.
— L’ho lasciato perché non potevo sopportare di rendermi ridicola ancora un giorno di più. Hai ragione, sai, quando dici che non ho mai il coraggio di dire ciò che realmente penso. Sono sempre fuggita da te, ma ora fuggo per non tornare più indietro. —
Sherlock, che era rimasto a guardarla da lontano, si avvicinò ed entrò nella stanza. — Cosa stai dicendo? —
Molly avrebbe dovuto sentirsi fiera di ciò che stava facendo: per la prima volta era un passo avanti al fantastico Sherlock Holmes.
— Ogni volta che venivi da me per un cadavere pensavo che fosse la volta buona. Ero sempre lì ad aspettare pazientemente che ti accorgessi di me; non solo del colore del mio rossetto o di come portavo i capelli, ma di me. Ogni giorno mi svegliavo speranzosa e pensavo che grazie al tuo meraviglioso dono avresti finalmente potuto vedermi. Ma quel giorno non è mai arrivato, Sherlock, e tu non hai mai capito che era tutto, tutto per te. Qualsiasi cosa facessi, era per te. Inizialmente mi ero arresa al fatto che per uno come te i sentimenti non fossero nient’altro che armi da utilizzare per scovare e distruggere l’avversario. E me ne ero anche fatta una ragione, sai? Poi è arrivata lei, la Dominatrice, e tu sei semplicemente caduto ai suoi piedi. Non è  mia intenzione biasimarla, credimi, non è per questo che lo sto dicendo. Eppure vederti così preso… Era come se non esistesse altro che lei. Quando se ne è andata ero felice, riesci a immaginarlo? A quel punto pensavo che ti saresti accorto di me, perché lei aveva dischiuso le porte del tuo cuore e forse aveva lasciato un piccolo spiraglio anche per me. Ma in seguito è tornata, e allora ho capito: non eri tu il problema, non era lei. Il problema ero io! Perché non sono abbastanza, Sherlock, e non lo sarò mai per te. —
Ce l’aveva fatta. Non poteva crederci, ma ce l’aveva fatta. Ci era riuscita. Aveva parlato, aveva buttato tutto fuori e questa volta non aveva guardato per terra, non aveva sussurrato. No, lo aveva fissato in quelle iridi glaciali e aveva quasi urlato ogni parola. Nel suo tono c’erano disperazione, frustrazione, ma anche sicurezza. Non appena finì di parlare fece un respiro profondo e lo guardò avvilita, in attesa di una risposta.
— Io non… — Bene, aveva tolto le parole di bocca a Sherlock Holmes. Lei, una mediocre e timida patologa, era riuscita a zittire il grande investigatore che aveva affascinato l’intera capitale Britannica.
Sherlock, dal canto suo, si ritrovò a non desiderare altro che baciarla. Era un ardore che lo aveva improvvisamente infiammato, una brama che faceva capolino fra i suoi pensieri imponente e massiccia, senza possibilità di essere ricacciata indietro.
E fra le tante cose che avrebbe potuto dire e fare per rigettare quella situazione, Sherlock assecondò quel desiderio.
Gli bastarono due grandi falcate per raggiungere la donna e alzare entrambe le mani ai lati della sua testa; la guardò fugacemente un’ultima volta prima di piegarsi verso il suo viso e poggiare le labbra sulle sue. Molly, colta di sorpresa dalla velocità di Sherlock, ricambiò quasi immediatamente il bacio, senza però muoversi. Le sue braccia erano inerti lungo i fianchi, era talmente felice da non riuscire a compiere un movimento. Si abbandonò semplicemente al suo petto vasto e alle sue braccia che l’accoglievano.
— Questo dev’essere un sogno. — sussurrò Molly dopo attimi infiniti, rimanendo comunque stretta fra le sue braccia. Doveva essere necessariamente così, poiché per lei era impossibile l’esistenza di un qualsiasi universo in cui Sherlock finalmente la guardava e la baciava in quel modo. Sembrava… normale. Sembrava un uomo comune che viveva un momento di intimità con una donna comune. Non c’erano formule chimiche, crimini, casi, non c’era nessun gioco in cui battersi, nessuna vittima. Questa volta non c’erano cadaveri e tavoli freddi a dividerli.
— Contati le dita, Molly Hooper, e appurerai tu stessa che questa è la realtà. — l’investigatore si allontanò senza guardarla; cominciò a esaminare e osservare ogni angolo di quella stanza, accumulando più informazioni di quante probabilmente ne avrebbe ottenute chiedendole direttamente a lei.
— Perché lo hai fatto? — domandò allora lei, cominciando ad avvertire una brutta sensazione alla bocca dello stomaco.
— Davvero, non capisco. —
— Non credevo proprio che tu potessi… —
— Non lo avrai mica fatto perché ti faccio pena? —
— E Irene? —
— Molly, Molly, Molly. Smettila. Davvero, smettila. Sai che la tua voce a volte raggiunge toni di isteria estremamente irritanti, no? —
In un attimo la patologa tacque. Oh, ma certo. Idiota. Era un’incredibile, stupida, imbecille idiota. Cosa diavolo si aspettava da Sherlock Holmes? Film, coperte e cioccolata calda?
Si pentì immediatamente di averlo fatto entrare. Di aver ascoltato le sue parole. Di aver accettato di essere baciata da quelle stesse labbra che avevano spesso pronunciato le parole più orrende che qualcuno le avesse mai rivolto. A cosa aveva pensato per tutto quel tempo? Credeva davvero che sarebbe cambiato? Che sarebbe cambiato per lei?
— Vattene. — fu un debole sussurro, tanto da farle credere di non averlo detto davvero, eppure capì che lui l’aveva sentita perché smise di muoversi. Sherlock si voltò con espressione confusa, le sopracciglia aggrottate.
— Cosa? —
Molly non rispose nemmeno; senza degnarlo di uno sguardo gli diede le spalle e si avviò verso le scale. Arrivata al primo gradino si girò verso di lui e, con la voce spezzata e tremante, disse: — Non voglio vederti mai più. —
In un attimo aveva corso su per i gradini ed era sparita.


 
***
 


 — Credo di aver spezzato il cuore di Molly Hooper. — fu la prima frase che Sherlock pronunciò non appena mise piede in casa sua, esattamente dodici ore dopo il suo incontro con la patologa.
John, che era seduto sulla sua poltrona e stava probabilmente aggiornando il suo blog, lo guardò disorientato.
— Tu hai… cosa? —
L’amico si tolse la sciarpa e il lungo cappotto per poi dirigersi verso la propria stanza e indossare l’amata vestaglia bordeaux che la signora Hudson odiava tanto.
— Temo che non la rivedremo più, amico mio. —
— Potresti spiegarmi cos’è successo, di grazia? — l’ex soldato cominciò a prefigurarsi nella mente l’immagine di Sherlock che maltrattava verbalmente la donna. Ne era capace. Oh si, se lo era.
  — L’ho baciata. — sospirò l’amico buttandosi di peso morto sul divano e lasciando penzolare la testa riccioluta dal bracciolo.
John, colto di sorpresa e abbastanza stupido dal fatto che Sherlock osasse così tanto, stava quasi per chiedere perché un bacio le avesse spezzato il cuore quando…
— E poi le ho detto che il suo tono di voce può essere estremamente irritante. Non so davvero perché se la sia presa così tanto. Sono solo stato onesto! — esclamò con fervore il moro, alzando le braccia in aria e lasciandole ricadere subito dopo.
— Si può sapere come fai ad essere così brillante e così terribilmente idiota allo stesso tempo? —
— John! — Sherlock si alzò di scatto dal divano e lo guardò con una teatrale espressione offesa. — Dovresti stare dalla mia parte! —
Il dottore si alzò e si avvicinò, sedendosi sul tavolino basso davanti a lui. — Ora ti rivelerò un segreto, Sherlock: Molly Hooper è pazza di te. C’è sempre stata per te, farebbe qualsiasi cosa per te. Tu non puoi comportarti in questo modo con lei, non puoi trattare così qualcuno che ti ama così tanto. —
— Ma… —
— Ho visto come la guardi. Tu non te ne sei nemmeno accorto, caro il mio consulente investigativo, ma quando siete nella stessa stanza tu diventi… umano. — John gli sorrise furbamente e gli diede una pacca sulla spalla.
— Lo prendo come un complimento, Mr. Watson. — bofonchiò Holmes coprendosi il volto con le mani.
— Devo chiederti solo una cosa, Sherlock. —
— Prego. —
— Cos’hai intenzione di fare con Irene? —
Eccola. Eccola lì la domanda che aveva evitato di porsi per tutto il giorno e che alla fine era arrivata. Secca e coincisa, nessuna esitazione. No, no, no. Quello non andava affatto bene.
— Non stiamo insieme, io e Irene. — Sherlock buttò fuori velocemente quelle parole come se bruciassero sulle sue labbra. — La verità è che aveva necessario bisogno di parlare con Mycroft, ma non poteva tornare a Londra da sola, senza protezione, così abbiamo deciso di fingere una relazione. Presumo che questo sia uno dei vantaggi dell’essere considerato uno psicopatico a cui non dare fastidio. — Ora tutte le sue barriere erano crollate. Non aveva più scuse per tenersi lontano da Molly, nessuna giustificazione per far finta che il suo pensiero non lo toccasse minimamente. Ma non era affatto così, e lui lo sapeva.
— E allora per quale motivo ti saresti comportato in un modo tanto becero con lei? — lo interrogò John con un’espressione corrucciata.
— Non lo so. Ho bisogno di entrare nel Palazzo. Ora. — rispose l’amico assumendo l’aria di chi è infastidito da tutti, ma soprattutto da se stesso. Chiuse immediatamente gli occhi e incrociò le braccia al petto, pronto a scavare fino in fondo nella sua testa.
L’ex soldato Watson capì ciò che stava succedendo e, senza aggiungere un’altra parola, lo lasciò solo.


— Ho capito. —
Erano passati giorni dall’ultima volta che aveva visto Molly - quasi ventuno - e Sherlock Holmes aveva trascorso nella sua testa in media il venti per cento in più del tempo che normalmente dedicava a quest’attività sovente noiosa e controproducente.
 Non era in grado di stabilire se John fosse a casa o meno; la stanza era praticamente buia e nessun rumore si distingueva sulle scale, doveva essere notte fonda.
Senza guardare l’orologio o controllare che le porte fossero effettivamente chiuse a chiave, il consulente investigativo indossò lo spolverino e la sciarpa, alzò il colletto e lasciò il 221B di Baker Street.


 
***
 
 
Ed eccolo lì, il grande genio che aveva suscitato l’amore e l’odio di Londra in egual misura che se ne stava impalato davanti a una semplice porta e non aveva il coraggio – sì, proprio quello che non gli era mancato in tutte le volte che stava per morire – di suonare un semplice campanello. Si poteva essere più ridicoli di così?
Sherlock fece un respiro profondo e bussò con delicatezza, a differenza della volta precedente. In fondo stava pur sempre facendo una semplice visita di cortesia nel bel mezzo della notte e non voleva certo beccarsi l’ennesima denuncia per disturbo della quiete pubblica.
Attese pazientemente che la porta si aprisse rivelandogli il volto assonnato di Molly, sicuramente pronta a prenderlo a parolacce, e nel frattempo un forte desiderio di divorare i propri dubbi nel fumo di una sigaretta lo invase fin nelle viscere. Non ebbe il tempo di realizzare tale fantasia però, perché subito la porta si aprì.
Alla sua iniziale eccitazione si sostituì immediatamente l’amarezza di vedere che non c’erano gli occhi graziosi di Molly a fissarlo, bensì due pupille azzurre e insonnolite.
— Posso aiutarti? — pronunciò la voce profonda e instabile dell’uomo davanti a sé, guardandolo con sguardo interrogativo e inquisitorio.
— Tom?! — esclamò Sherlock in preda alla più totale e completa sorpresa. In un attimo si riprese e cominciò ad analizzarlo il più velocemente possibile per avere il maggior numero di dettagli in breve tempo. Pigiama scolorito, di qualità mediocre, datato molto probabilmente di cinque anni. Inutile.
Capelli e barba curati nei minimi dettagli, così come le sopracciglia e l’epidermide. Nessun segno di punti neri, brufoli, o altre schifezze organiche che Sherlock avrebbe volentieri voluto studiare al microscopio. Inutile.
Due capelli lunghi 20 cm, castani e di medio spessore incastrati all’interno del polsino sinistro. Bingo.
— Non pensavo che fosse possibile cogliere di sorpresa Sherlock Holmes! — esultò l’uomo con aria di vittoria.
— Non mi hai sorpreso, infatti. — il consulente investigativo si fece spazio fra lo stipite e il corpo dell’uomo. — Ho un urgente e impellente bisogno di discutere con Molly riguardo una cosa. —
— Sherlock?! —  Molly. Era lì, alle sue spalle. Poteva finalmente vederla. Oh, Molly.
— Corretto. — sussurrò il moro voltandosi lentamente e guardandola in cima alle scale. Le fece segno di raggiungerlo e così lei fece, arrivando davanti ai due uomini troppo simili per essere una coincidenza.
— Arrivederci, Tim. — proferì Sherlock sorridendogli falsamente e voltandosi verso la patologa. Si tolse il cappotto e glie lo appoggiò sulle spalle, cercando di coprirla il più possibile.
— Andiamo, Molly. —
— Ma che diav… —



 
***


— Potresti spiegarmi perché mi hai trascinata fuori da casa mia nel bel mezzo della notte? — il tono acido di Molly era qualcosa a cui Sherlock non era abituato, ma che non lo sorprese affatto. È normale per una donna sentirsi offesa dalle tue parole, gli aveva detto John qualche tempo prima, e forse era proprio vero.
— Potresti spiegarmi perché sei tornata con Tim anche se chiaramente non lo desideri? —
Molly si fermò accanto alla panchina del parco vicino casa sua che stavano attraversando.
 — Si chiama Tom —,  il moro sminuì l’affermazione con un gesto della mano, — e poi cosa ne sai tu del desiderio? Non hai mai voluto niente. — sussurrò la patologa abbassando gli occhi per non doverlo guardare in viso.
— Questo non puoi saperlo. — Il cuore di Molly cominciò a fare quasi più rumore dei passi dell’investigatore verso di lei, perciò decise di guardarlo negli occhi e cercare di decifrare quello che stava accedendo.  Lui la stava fissando con lo stesso sguardo con cui esaminava un cadavere appena arrivato al Bart’s.
— Smettila di dedurmi, Sherlock. — suonò come un lamento esasperato, ma c’era qualcosa di estremamente convinto nel suo tono di voce.
— È l’unico modo che conosco. —
— Ti avevo detto che non volevo più vederti. —
— Non eri seria. Intendo, eri indubbiamente poco lucida e incollerita e questo avrebbe potuto alterare la tua attività cardiaca, ma il sudore sul tuo volto e il battito accelerato delle ciglia erano espliciti segni di una menzogna. Perciò stavi mentendo, Molly. —
La patologa si strinse a disagio nel cappotto di Sherlock e al contempo fu tentata di toglierselo e restituirglielo; il suo profumo le mandava in pappa il cervello, non riusciva a formulare alcun tipo di pensiero abbastanza razionale per mandarlo al diavolo.
— Vorrei tornare a casa. — stava per sfilarsi lo spolverino, ma il consulente investigativo fu più veloce e le strinse le mani intorno alle spalle, impedendole così ogni movimento. Sherlock poteva percepire il corpo tremante della donna e lo interpretò come un palese sintomo dell’aria fredda che soffiava nella notte londinese, perciò iniziò ad accarezzarle lentamente le braccia attraverso il tessuto spesso.
— Ascoltami. Sono profondamente dispiaciuto per aver detto che il tuo tono di voce è insopportabile. È del tutto normale che un qualsiasi essere umano in una situazione di stress presenti un’alterazione del tono vocale. Non intendevo affermare che la tua voce sia costantemente stridula, anzi, ammetto di trovarla alquanto… armoniosa. Sono sicuro che un qualsiasi uomo la chiamerebbe addirittura sensuale; c’è questa possibilità, insomma. —
— Accetto le tue scuse, Sherlock. — affermò la patologa cercando di trattenere una risata. Quell’uomo sapeva essere così buffo, a volte le sembrava un bambino.
— Quello che sono venuto a dirti è… mh, grazie. Grazie, Molly Hooper, per essere la mia miglior patologa, la mia migliore amica e… la persona che mi fa desiderare di essere umano. C’è un’altissima probabilità che senza di te potrei davvero credere a tutto ciò che la gente dice su di me. —
— Sono felice di essere tua amica e di aiutarti, per quel poco che posso fare. —
Cos’altro c’era da aggiungere? Sherlock le sorrise e, così come aveva fatto già due volte, si avvicinò a lei; le loro guance si sfiorarono e lui la baciò lì, al centro dello zigomo, nel gesto più affettuoso che avesse mai riservato a qualcuno. La patologa attese ansiosamente che il moro si allontanasse, ma lui non dava segni di volersi spostare.
— Sei abbastanza —, pronunciò Sherlock sulla sua pelle, spostandosi per un attimo, guardandola negli occhi socchiusi e scorrendo con le labbra sulla sua pelle, verso il basso. — Sei abbastanza. — ripeté staccandosi ancora una volta e baciandole la bocca. — Sei abbastanza, Molly Hooper. —
E in quel momento, forse per la prima volta dopo anni e anni, lei riacquistò la fiducia andata perduta fra delusioni e rimpianti. Chiuse gli occhi e mosse le labbra sulle sue, stringendosi al suo petto. Lì, ora, non contava più niente: c’erano solo un uomo e una donna che si cercavano, che si erano mancati per così tanto tempo da non rendersi nemmeno conto di quanto fossero necessari l’uno per l’altra. Fu così semplice per Molly portare le piccole mani a sfiorare il viso spigoloso di quell’uomo tanto strabiliante che non faceva altro che baciarla, accarezzarla, tenerla così stretta da pensare di poterle entrare nelle ossa. Non c’erano indecisioni, non c’erano domande abbastanza importanti da permettergli di distruggere quel momento di totale perfezione ed equilibrio.
Nessuno dei due si chiese se fossero passati secondi, minuti od ore, erano solo rimasti stretti fra loro senza pronunciare una parola. Non avevano bisogno di comunicare con discorsi, ci pensavano i loro occhi e le loro bocche a dire quello che nessuno dei due era pronto ad accettare, ma che aveva comunque riconosciuto dentro di sé. Era il momento di cominciare a vivere davvero.
  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Fannie Fiffi